menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

giovedì 25 febbraio 2016

Interrogare il desiderio (By Wanda Tommasi)

Il tema del desiderio è sempre stato centrale nel femminismo, a partire dagli anni 1970: allora, il problema era quello di dare voce a un desiderio femminile che era stato tacitato o asservito nell’ordine socio-simbolico patriarcale e di trovare delle mediazioni per un desiderio di donne che, lungo la traiettoria dell’emancipazione, o andava nel mimetismo rispetto alle mete sociali maschili o ammutoliva, rifugiandosi nell’estraneità.
Come sottolinea Ida Dominijanni nell’introduzione a un testo che è cruciale per il mio discorso, La politica del desiderio di Lia Cigarini, dove prima c’erano grumi di vissuto femminile che sbarravano la strada al desiderio, si sono inventate delle pratiche che, sul modello liberamente interpretato della pratica psicanalitica, hanno trovato strumenti preziosi per scongelare il corpo e la parola, per liberare la sessualità femminile dalla sudditanza al maschio, e infine per superare le difficoltà di espressione di sé e il disordine nelle relazioni fra donne.[1]
   Con l’irruzione sulla scena della storia del “soggetto imprevisto”,[2] secondo la felice espressione di Carla Lonzi, si è realizzata anche la complicazione della sua razionalità con il desiderio e l’inconscio: constatata la debolezza del desiderio femminile, stretto fra le opposte opzioni, entrambe insoddisfacenti, dell’esclusione e dell’omologazione all’uomo, si sono cercate delle pratiche che aiutassero a liberare desiderio ed energie femminili e a metterle in circolo nel mondo.[3] Il problema messo a fuoco negli anni 1970 è che il desiderio femminile, che era muto o asservito all’uomo nell’ordine patriarcale, arretrava ancora, nonostante la libertà femminile recentemente guadagnata, di fronte a un ordine sociale avvertito come estraneo oppure mimava il desiderio maschile assumendone acriticamente gli oggetti. Rosi Braidotti ha definito giustamente il desiderio di donne a cui ha dato voce il femminismo come un desiderio ontologico,[4] cioè come un desiderio di essere e di esserci. In Italia, il femminismo della differenza sessuale ha sia messo a tema, a partire dagli anni 1970, l’intreccio di sessualità, desiderio e politica, sia ha interrogato l’enigmatica caduta del desiderio femminile di fronte agli oggetti sociali, di fronte al mondo.
   Quest’ultimo aspetto, però, nel corso del tempo, ha decisamente avuto la meglio rispetto al primo: se infatti, negli anni 1970, Carla Lonzi metteva al centro il nodo di sessualità e politica proponendo la figura della donna clitoridea, autonoma e consapevole del proprio desiderio, a differenza della donna vaginale, complementare all’uomo,[5] in seguito questo intreccio di sessualità e politica è andato sullo sfondo e ci si è concentrate piuttosto sulla debolezza del desiderio femminile di fronte alle mete sociali e politiche, di fronte al mondo.[6]
   E’ stato soprattutto in quest’ultima direzione che è stato tenuto vivo, nel pensiero e nelle pratiche della differenza sessuale, il tema del desiderio, interrogando l’enigmatica caduta del desiderio femminile rispetto al mondo. Le pratiche legate al pensiero della differenza hanno liberamente tratto ispirazione dalla pratica psicanalitica tematizzando la disparità nelle relazioni fra donne e facendo entrare in gioco il fantasma materno.
   Per esserci nel sociale sfuggendo sia all’esclusione sia all’omologazione, le donne sono state chiamate a ridefinire la struttura simbolica del desiderio: disparità e autorità femminile servono anche a questo, sono leve del desiderio per sottrarsi al potere, sono vie di decentramento dal potere stesso e dagli oggetti di desiderio già disegnati nell’ordine simbolico maschile. In pratiche politiche originali e contestuali, mosse non dal vittimismo reattivo ma dal desiderio attivo, si è sperimentata l’efficacia delle mediazioni femminili, delle relazioni di disparità e di autorità, che fanno sì che fra sé e il mondo ci sia un’altra donna: questo avrebbe dovuto, dovrebbe far uscire le donne sia dall’estraneità al sociale sia dall’omologazione all’uomo e consentire al desiderio femminile di iscriversi nel mondo senza mutilazioni.
   Il riferimento alla pratica psicanalitica rimane sullo sfondo quando s’interrogano e si mettono in gioco i rapporti di disparità fra donne: come, in analisi, la disparità fra analista e paziente è una leva per smuovere il desiderio, così, nelle relazioni fra donne, si punta sulla disparità per mettere al mondo il desiderio femminile. Mentre, nella fase iniziale del femminismo della sorellanza, era importante riconoscersi tutte uguali, sorelle, in seguito sono emerse disparità fra donne che, anziché essere negate, sono state usate come leve per iscrivere nel mondo il desiderio femminile. La disparità come leva capace di mobilitare il desiderio, di mantenerlo in uno scambio fecondo fra sé e sé, fra sé e l’altra e fra sé e il mondo, è l’intuizione geniale alla base delle pratiche della disparità. Non è mia intenzione sconfessare questa intuizione geniale, intendo anzi valorizzarla. Tuttavia, vorrei esprimere dei dubbi e delle domande a proposito del desiderio.
   1. La prima questione riguarda quella che vorrei chiamare una “metafisica del desiderio” che c’è, a  mio parere, in seno al pensiero della differenza sessuale: si suppone che una donna, una volta distolta dagli oggetti maschili di desiderio, in particolare dal potere, sia capace di esprimere un desiderio autentico, femminile, altro; si presuppone l’esistenza di un simile desiderio metafisico, non mimetico ma originale, fuori dal simbolico dominante. Tuttavia, mi chiedo, questo desiderio esiste veramente o non è piuttosto una proiezione mitica? Fino a che punto è libero il desiderio? Innanzitutto, il desiderio è stato intercettato alla grande dal capitalismo, che chiede un consumatore, una consumatrice con la testa sempre piena di desideri per questo o quell’oggetto da acquistare. La psicanalisi, in particolare quella lacaniana, parla a questo proposito non di uno sfrenamento del desiderio ad opera del discorso del capitalista, ma al contrario di una sua estinzione nel circuito immediato del consumo:[7] in gioco nell’orizzonte consumista ci sarebbe non il desiderio ma il godimento, che per i lacaniani ha un significato decisamente negativo.
   Qui devo fare una breve parentesi sul desiderio come mancanza, un tema che risale a Platone e che arriva fino alla psicanalisi contemporanea e anche al femminismo: per ciò che riguarda quest’ultimo, mi riferisco soprattutto all’interpretazione che ha dato di questo tema Luisa Muraro in La maestra di Socrate e la mia e in Al mercato della felicità.[8] Se il desiderio è mancanza, come mostra bene Platone nel Simposio, occorre stare sempre nello sbilanciamento che esso inaugura e mantiene vivo, nello squilibrio fra l’enormità del proprio desiderio e gli oggetti, sempre insoddisfacenti, che mai possono colmarlo del tutto. Se, come afferma Lacan, il fine dell’analisi è quello di far parlare il vero soggetto, che non coincide con l’io ma con l’inconscio, allora occorre essere fedeli alla singolarità sempre provvisoria e sempre deviante del desiderio, che segnala un’“intima estraneità”[9] installata nel cuore stesso del soggetto. In sostanziale sintonia con questa prospettiva psicanalitica, anche il femminismo della differenza insiste sul desiderio come mancanza, rigettando però del tutto la conclusione platonica del Simposio, in cui il desiderio si colma e si acquieta nella contemplazione del bello e del bene in sé.
   Tuttavia, se la conclusione platonica dell’estinzione del desiderio è anche per me sostanzialmente da rifiutare non solo in sé ma anche per la gerarchia fra maschile e femminile che essa instaura – un maschile che genera nello spirito frutti immortali e un femminile che genera solo corpi mortali -, non bisogna però dimenticare che il desiderio non è “buono” di per sé: esso può anche mangiarsi l’anima, farci ammalare, spesso lo fa. Come afferma a tale proposito non Platone ma Aristotele, il desiderio non può essere un fine in sé: il fine a cui tende il desiderio è la felicità (eudaimonia), perché tutti gli altri oggetti desiderati (potere, ricchezza, realizzazione di sé) sono mezzi per il fine di essere felici, mentre la felicità è fine in se stessa, non in vista di altro.[10] Inoltre, riabilitando un po’ Platone contro le interpretazioni contemporanee che accettano da lui unilateralmente solo il tema del desiderio come mancanza, rigettando la pienezza, bisogna dire che almeno un presentimento di pienezza nel desiderio sicuramente c’è: lo riconosce per esempio Freud quando dice che il desiderio sta fra la mancanza e il ricordo inconscio della pienezza, dei primi soddisfacimenti nella relazione con la madre, che lasciano una traccia fantasmatica nell’inconscio.[11] Anche al di fuori della psicanalisi, si può dire che nel desiderio ci sia la nostalgia di una pienezza perduta, quella sperimentata nel legame con il corpo della madre nella prima infanzia. In questa nostalgia di una pienezza perduta, entra in gioco anche l’asimmetria della differenza sessuale, perché l’intimità femminile con la madre, una del proprio stesso sesso, è stata davvero molto grande, più di quanto possa essere stata per un infante di sesso maschile. La relazione materna è un bene perduto e irrinunciabile, soprattutto per una donna.
   Va detto comunque che, nell’orizzonte contemporaneo, il desiderio come mancanza non è l’unica visione del desiderio, benché essa sia sostanzialmente condivisa sia dalla psicanalisi sia dal femminismo: antagonista all’idea del desiderio-mancanza vi è la linea che va da Spinoza a Deleuze, nella quale il desiderio non è visto come mancanza, ma come potenzialità e risorsa, come gioia immanente.[12] Quest’ultima concezione del desiderio è stata rilanciata recentemente da Rosi Braidotti,[13] la cui proposta del post-umano mi trova però poco d’accordo: condivido il senso di un congedo dall’umano, troppo compromesso con termini come uomo e umanesimo, ma l’ibridazione con la macchina, che non è sessuata ma neutra, mi sembra poco promettente, perché rischia di rendere insignificante la differenza sessuale. Nonostante l’opposizione fra il desiderio come mancanza e il desiderio come gioia immanente, ciò che le due linee di pensiero hanno in comune è l’imperativo di mantenere sempre viva la potenza desiderante.
  Ritorno ora brevemente sulla mia domanda, che riguarda la metafisica del desiderio, per precisarla meglio. Come ho già accennato, vi sarebbe a mio parere nel pensiero della differenza una sorta di metafisica del desiderio, cioè la convinzione che una donna, una volta distolta dagli oggetti maschili di desiderio, sia capace di esprimere un desiderio femminile sorgivo, autentico, fuori dal simbolico dominante; si presuppone l’esistenza di un simile desiderio metafisico, non mimetico ma originale. Mi permetto di dubitarne. Per esempio la figura dell’isterica, assunta da alcune pensatrici della differenza come emblematica dell’intero sesso femminile,[14] parla di un desiderio modellato sul desiderio dell’altro, dell’altra. Si auspica un desiderio femminile autentico, sorgivo, non mimetico: ma un simile desiderio esiste veramente o non è piuttosto una proiezione mitica? Secondo René Girard, che ha molto lavorato sul desiderio mimetico, il mito del desiderio originale è una menzogna romantica: la verità che i grandi romanzieri svelerebbero è che il desiderio imita sempre il desiderio più forte, e che solo accettando di essere creature, rinunciando all’orgoglio e ritrovando il senso della trascendenza, si può desiderare secondo se stessi e non secondo quello che gli altri indicano.[15] Girard non ha la chiave di lettura della differenza sessuale, ma io sì e mi sento di affermare, proprio guardando ai luoghi di donne che conosco bene, che anche nei contesti femminili spesso il desiderio imita il desiderio più forte: imparare a desiderare secondo se stesse è un’arte difficile, che richiede un faticoso apprendistato e un difficile scollamento dalle figure che via via si candidano a presentarsi come sostitute del tesoro perduto e irrinunciabile della relazione materna. Girard pensa che occorra ritrovare un qualche senso della trascendenza per desiderare secondo se stessi: anch’io lo credo e penso che proprio per questo molto desiderio femminile, quello delle mistiche ad esempio, si sia giocato nella relazione con l’Altro divino, con una trascendenza che ha consentito di ottenere un’autorizzazione infinita per il proprio stesso desiderio:[16] forse proprio nella tradizione mistica, che è una tradizione soprattutto femminile, risiede il segreto che consente di desiderare secondo se stesse ma senza rinunciare alla relazione con l’altro.
   2. Il secondo dubbio riguarda gli oggetti del desiderio. Senza voler fare del moralismo sugli oggetti del desiderio – moralismo inaccettabile perché, ognuna, ognuno ovviamente desidera quello che vuole, e non c’è altro da dire -, bisogna però andare a vedere che cosa le donne in carne e ossa concretamente desiderano: soldi, carriera, amore, potere, realizzazione di sé? Nell’orizzonte della differenza sessuale, non si fanno discriminazioni fra gli oggetti del desiderio, qualificandone alcuni come buoni, altri come meno buoni, e giustamente, perché, restando all’interno del desiderio, non è possibile avanzare alcuna valutazione né discriminazione fra desideri. Oltretutto, in quest’assenza di valutazione, c’entra anche il fatto che l’ambizione femminile, sempre piuttosto scarsa, va comunque incoraggiata, qualsiasi cosa una donna concretamente desideri.
   La questione di fondo è che, rimanendo nell’orizzonte del desiderio, non è possibile fare alcuna valutazione né avanzare alcun giudizio sugli oggetti del desiderio stesso: qualsiasi desiderio è legittimo e sacrosanto, e non c’è nulla da aggiungere. Tuttavia, come ho già ricordato, Aristotele nell’Etica nicomachea sostiene che una misura del giudizio è possibile se si esce dall’orizzonte stretto del desiderio e se si considera che quest’ultimo non è in realtà un fine in sé, ma è solo un mezzo in vista del fine a cui tutti tendono, che è la felicità.[17] Tutti gli oggetti desiderati sono solo mezzi per il fine di essere felici, mentre la felicità è fine in se stessa, non in vista di altro: si tratterebbe a questo punto solo di valutare se i propri desideri, i mezzi prescelti, siano in grado di procurare la felicità oppure no.
   Nonostante che nel pensiero della differenza sessuale non venga avanzato – e a ragione – alcun giudizio nei confronti degli oggetti del desiderio, tuttavia si può distinguere, seguendo un suggerimento di Luisa Muraro in L’ordine simbolico della madre, fra quegli oggetti che sono una buona restituzione della relazione materna e quelli che ne rappresentano invece una contraffazione.[18] A mio avviso, il pensiero e le pratiche della differenza sessuale scontano una certa ambiguità nell’autorizzare, da un lato, qualsiasi desiderio come espressione della soggettività femminile e nell’incoraggiare invece, da un altro lato, soprattutto quei desideri che si distolgono dalle mete sociali maschili per aprire uno spazio altro, per dare vita al desiderio di esserci come donne, cioè al desiderio femminile come desiderio ontologico. In fondo, la scommessa, centrale nel pensiero della differenza sessuale, di puntare sull’autorità femminile in alternativa al potere[19] può essere letta alla luce di questo discrimine: puntare sull’autorità femminile vuol dire infatti radicarsi nella relazione materna, visto che per una donna la prima figura di autorità è stata la madre, mentre essere attratte dal potere significa essere conniventi con un ordine simbolico di origine maschile.
   In realtà, nel pensiero della differenza sessuale, un giudizio implicito sugli oggetti di desiderio c’è, e riguarda il desiderio dell’emancipata: l’emancipata è una donna che assume acriticamente gli oggetti di desiderio già designati secondo misure maschili. Nella presa di distanza, all’interno del pensiero della differenza sessuale, dalla prospettiva dell’emancipazione, è leggibile in controluce un giudizio di valore negativo su degli oggetti di desiderio che non sarebbero davvero in grado di procurare la felicità auspicata.
   Riguardo a questa obiezione circa gli oggetti di desiderio, tuttavia, bisogna dire che in generale il pensiero della differenza promuove fondamentalmente un desiderio senza oggetto: esalta il desiderio come leva, come capacità di spostamento, come energia, invitando a stare sempre nello squilibrio e nella fecondità degli inizi.[20] Il gioco aperto dal desiderio vi appare come un costante sbilanciamento, come una sproporzione che, anziché condurre alla moderazione, invita al rilancio, perché, anziché lasciarsi paralizzare dalla propria pochezza, si fa della mancanza una risorsa.[21] Tutto è squilibrio nel desiderio: c’è disparità fra sé e sé, in una soggettività fessurata dall’inconscio, c’è disparità fra sé e l’altra, l’altro, c’è sproporzione fra il desiderio e una realtà che sembra ostile o indifferente. Tutte queste disparità, che potrebbero risultare paralizzanti, vengono al contrario interpretate come inviti a rinnovare sempre la contrattazione, a trovare nuove mediazioni, più rispondenti a sé, a muoversi in un incessante andirivieni fra interiorità ed esteriorità, affinché la realtà non risulti indifferente ai propri desideri. Come ha sottolineato giustamente Manuela Fraire, nel femminismo della differenza fin dall’inizio l’importante non è tanto il desiderio di un oggetto, quanto piuttosto “il rapporto e la trasformazione di sé che si opera per via del desiderio”.[22]
   3. Un terzo dubbio che ha a che fare con il tema del desiderio riguarda il progressivo dissolvimento dell’intreccio di sessualità e politica che c’era agli inizi del femminismo degli anni 1970, ad esempio nella posizione di Carla Lonzi: mentre inizialmente il desiderio femminile era interrogato innanzitutto come desiderio sessuale, in seguito la questione del desiderio si è spostata dalla sfera della sessualità a quella del sociale e della politica. In tal modo, come osserva giustamente Ida Dominijanni, si è dato vita a un pensiero del desiderio paradossalmente desessualizzato:[23] il riferimento prioritario alla figura materna come prima figura di autorità e la concentrazione pressoché esclusiva sulle relazioni fra donne hanno messo in ombra soprattutto il desiderio eterosessuale. Dall’eterosessualità normativa, giustamente criticata da Lonzi negli anni 1970, si è passate così paradossalmente a un femminismo desessualizzato, senza più interrogare il nodo di sessualità e politica come particolarmente significativo.
   Rispetto al femminismo della differenza italiano che, dopo gli anni 1970, non si è più interrogato molto su questo tema, Luce Irigaray ha rivolto invece costantemente l’attenzione alla sessualità femminile, cercando di ricavarne figure simboliche a essa corrispondenti: basti ricordare, a tale proposito, l’idea del trascendentale sensibile, una forma di trascendenza in sintonia col corpo e con la carne, e l’immagine del mucoso, una soglia tattile che rinvia al sesso femminile, sempre dischiuso e al tempo stesso capace di “ri-toccarsi” e di ritornare così presso di sé.[24] Irigaray ha avuto attenzione anche per il tessuto simbolico dell’eterosessualità, in particolare trattando il tema della carezza in Etica della differenza sessuale.[25]
  Per reagire al dissolvimento del nodo di sessualità e politica nel femminismo della differenza in Italia, è stato prezioso l’incontro organizzato nel settembre 2014 all’università di Verona da Barbara Verzini, Tristana Dini, Alessandra Chiricosta e Alessandra Pigliaru, per tornare a riflettere sul tema della sessualità femminile nel suo intreccio con la politica.
   4. Vorrei porre una quarta domanda; farne solo tre sarebbe stato meglio per una di formazione hegeliana come me, ma io non sono hegeliana fino a questo punto. A proposito di Hegel, un filosofo centrale per il tema del desiderio almeno quanto Platone, faccio solo un breve inciso: ci sarebbe da dire parecchio sul desiderio come desiderio dell’altro, cioè come desiderio di riconoscimento. Questo è un tema che è un campo di battaglia per il femminismo contemporaneo, e che vede schierate, da un lato, Nancy Fraser, Jessica Benjamin e Judith Butler, sostenitrici, sia pure in modo diverso, dell’importanza del riconoscimento,[26] e, da un altro lato, Carla Lonzi[27] e la prospettiva della differenza sessuale, molto critiche rispetto alla possibilità di leggere la relazione donna-uomo alla luce del desiderio di riconoscimento e della dialettica servo-padrone. Tuttavia, sviluppare questo tema mi porterebbe troppo lontano.
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    Vengo dunque alla mia quarta questione sul tema del desiderio: essa riguarda la caduta del desiderio femminile, il suo mutismo, constatabile anche oggi, nonostante che davvero molto sia stato pensato e fatto per dare voce al desiderio femminile. Esiste ed è largamente diffusa la depressione femminile, in cui il desiderio non solo non solo non rilancia, ma addirittura si ammutolisce e si spegne. E’ stato fatto a questo proposito, all’interno del pensiero della differenza sessuale, un lavoro del negativo, che è prezioso per interrogare i luoghi in cui il desiderio femminile è minacciato o desertificato:[28] interrogare questi luoghi di enigmatico mutismo del desiderio è importante per far sì che il negativo che in essi è custodito non vada a male e perché l’aggressività che vi è incistata non si ritorca in modo depressivo contro colei che non riesce a manifestarla all’esterno. Alcune patologie del desiderio femminile, come quella depressiva, si originano spesso da un difficile rapporto con la madre, da un’ombra del materno minacciosa e incombente: anche qui è la disparità, in questo caso quella con la madre, ciò che fa problema, ciò che paralizza anziché mobilitare il desiderio. Uno squilibrio molto grande, infatti, può incentivare il desiderio, ma può anche paralizzarlo del tutto. Il pensiero della differenza sessuale si è molto interrogato sul desiderio femminile, ma che cosa dire oggi a donne che si scoprono, nonostante ciò, non desideranti?
   C’è nel pensiero della differenza una specie d’imperativo, si potrebbe dire quasi kantiano, a far vivere e ad alimentare i propri desideri, ma stare nello squilibrio del desiderio, se la realtà e gli altri non rispondono, è molto difficile. Il desiderio che non trova risposta può ritorcersi contro colei che lo ha sostenuto, scatenando meccanismi terribili di auto-aggressività e di imprigionamento depressivo. Credo che il meglio che si possa dire in queste situazioni è che occorre stare accanto al negativo, al deserto, al mutismo, perché lì comunque, nella minaccia di un’aggressività rivolta contro se stesse, può esserci un desiderio tacitato, ammutolito, spento, da ascoltare con cura non appena esso dia timidi segni di rinascita.
   Infine, vorrei chiudere con un riferimento al corpo. Il desiderio e la sessualità hanno molto a che fare con il corpo, e la tematica del corpo è anch’essa stata centrale nel femminismo degli anni 1970: in seguito, il tema del corpo è stato meno presente nel femminismo della differenza sessuale in Italia. Il tema del corpo c’entra moltissimo con la differenza sessuale: le donne sono state storicamente, per secoli, schiacciate sulla corporeità, sull’animalità; il corpo femminile può generare, e questo crea una grande asimmetria rispetto a quello maschile.
   Il senso libero della differenza sessuale, che noi abbiamo affermato e che sosteniamo tuttora, non può disfarsi né del peso della necessità né del carico del corpo: non può disfarsi del corpo-sintomo, che ci segnala quando non ce la facciamo più e allora dovremmo proprio ascoltarlo, non può disfarsi del corpo come mediazione con il mondo, evidente soprattutto nel lavoro manuale e nel lavoro di cura, non può disfarsi del corpo che noi siamo, più che averlo come se fosse un oggetto. Tuttavia, il corpo non è solo peso e necessità: è anche – e soprattutto il corpo femminile lo è, per i cicli lunari a cui risponde – un corpo-ritmo, un corpo in relazione con il cosmo. Del corpo parla in tutti questi sensi Simone Weil nei Quaderni.[29] Ho ricordato tutti questi significati del corpo – e forse altri se ne potrebbero aggiungere –, perché il corpo, nel caso del genere umano, non è mai solo corpo, ma è sempre detto dal linguaggio, è incrociato dall’ordine simbolico.
   Personalmente, m’interessa non il corpo come tale, ma l’intersezione fra corpo e spirito. Mi sta a cuore lo spirito che si fa materia, corpo: ne offre uno splendido esempio Simone Weil quando, nei Quaderni, ricorda un romanzo irlandese in cui si parla di una donna il cui fratello era stato condannato a morte. Dopo l’esecuzione capitale, la sorella mangiò, per pura reazione vitale, un intero vasetto di marmellata di fragole. Da quel momento in poi, per tutta la sua vita, questa donna non poté mai più mangiare marmellata di fragole. Lo spirito era passato nel corpo, ed era il corpo a ricordare per sempre, per tutta la vita, la morte del fratello e la propria reazione vitale a questa morte tragica.[30] Qui Simone Weil offre un esempio eloquente di come i sentimenti e lo spirito diventino corpo e dunque anche forza materiale.
   Fra il corpo-sintomo che ci segnala che non ce la facciamo più e il corpo in relazione col cosmo, c’è il sentiero stretto da tracciare fra necessità e libertà: corpo-pesantezza da una parte, corpo ritmo dall’altra. In mezzo ci siamo noi, con la scommessa di fare di ciò che ci è semplicemente capitato di essere, fra cui l’essere nate donne, un guadagno di senso e di libertà. Il senso libero della differenza sessuale vuol dire che del caso che ci è capitato – essere nate donne – , ma anche delle numerose contingenze che hanno segnato la nostra venuta al mondo e le nostre vite, molte delle quali sono degli elementi di costrizione che non abbiamo scelto, possiamo fare comunque una strada di libertà. Il primo e fondamentale dato contingente che mi è capitato in sorte è l’essere nata donna: il femminismo della differenza mi ha aiutato a fare di questa contingenza, di questo elemento ineludibile, che storicamente era sempre stato interpretato con il segno meno, un percorso di libertà.
   Anche altre contingenze che pesano su di me, che non ho scelto, e di cui avrei fatto volentieri a meno, possono dischiudere, pur restando costrizioni subìte, un percorso di libertà, a patto che se ne faccia un uso sapiente, elaborandole e riuscendo a condividere con altre, altri, il senso di ciò che si è vissuto. Faccio un esempio che mi riguarda personalmente: si tratta di una patologia che mi porto addosso ormai da 16 anni, una forma di ciclotimia, per cui sono, a fasi alterne, per lunghi periodi depressa, in altri al contrario euforica. Non è facile stare in quest’altalena, seguire l’onda prima di bassa marea, poi alta come un cavallone nel mare infuriato. A parte curarmi con la psicoterapia e con i farmaci, cose che non mi hanno guarito ma che mi hanno insegnato piuttosto a convivere con questo disagio, ho trovato il modo di fare di questa altalena una risorsa per una cosa che mi interessa molto fare, cioè pensare e scrivere. Nelle fasi depressive, faccio il lavoro di routine: leggo libri, li schedo, prendo appunti; nelle fasi euforiche, avendo messo al sicuro quel lavoro rituale e ripetitivo, ma necessario, scrivo, sull’onda alta che cerco di cavalcare senza farmene sopraffare. E’ stato fondamentale per me, per accettare di stare in quest’altalena e per riuscire a farne, almeno in parte, un uso libero, l’elaborazione dei miei vissuti e lo scambio con le amiche di Diotima, di cui è frutto il libro Immaginazione e politica, in cui ho messo in parole qualcosa di tale esperienza negativa.[31]
   Anche Simone Weil ha fatto di alcune sue inclinazioni che si potrebbero forse ritenere patologiche – una tendenza all’anoressia e un’avversione per la sessualità – un percorso di libertà: il suo sogno di cibarsi di sola eucarestia e la sua idea di un amore fra uomo e donna senza sessualità recano traccia delle sue difficoltà col cibo e col sesso, ma poi le cose che lei dice a proposito del nutrimento, del guardare anziché mangiare il bello, e a proposito dell’amore in generale, sono, nonostante o forse proprio in forza di queste costrizioni vissute incorporate in una libera costruzione di pensiero, dei colpi di genio assoluti.
   Dalle contingenze che ci sono toccate in sorte, prima fra tutte l’essere nate donne, è possibile o addirittura necessario ricavare un guadagno di libertà, facendo sì che esse non pesino semplicemente su di noi, ma che siamo noi a usarle per ciò che ci sta a cuore. Questo è per me il senso libero non solo della differenza sessuale, ma anche delle molte contingenze che segnano le nostre vite: è una scommessa di libertà a partire da ciò che non dipende da noi, un modo di riscattare le costrizioni che ci portiamo addosso dando loro un senso libero, che è sostanzialmente nelle nostre mani.
Note

[1] Cfr. Ida Dominijanni, Il desiderio di politica, in Lia Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche, Parma 1995, pp. 7-46.

[2] Cfr. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, in Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta femminile, Milano 1974, p. 60.

[3] Cfr. I. Dominijanni, Il desiderio di politica, cit., p. 11.

[4] Cfr. Rosi Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea, tr. it. di Elvira Roncalli, La Tartaruga, Milano 1994, p. 128.

[5] Cfr. Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, in Sputiamo su Hegel, cit., pp. 77-140.

[6] Cfr. Ida Dominijanni, L’impronta indecidibile, in Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007, pp. 177-196, in particolare p. 183.

[7] Cfr. Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 15. Al di fuori del contesto lacaniano, una tesi simile è sostenuta anche da Byung-Chul Han, La società della stanchezza, tr. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma 2012, e Id., Eros in agonia, tr. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma 2013.

[8]  Cfr. Luisa Muraro, La maestra di Socrate e mia, in Diotima, Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli 2002, pp. 27-43, ed Ead., Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Milano 2009.

[9] L’espressione “intima estraneità” traduce una parola coniata da Lacan, extimité, che allude a una radicale estraneità installata in ciò che c’è di più profondamente intimo: cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino1994. L’espressione “intima estraneità” compare, sulla scia di Lacan, nel titolo del bel testo di Angela Putino, Simone Weil. Un’intima estraneità, Città Aperta, Troina (Enna) 2006.

[10] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, tr. it. di Armando Plebe, Laterza, Bari 1973, I (A), 6, 1096 b.

[11] Cfr. Jean Laplanche, Jean Bernard Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, a cura di Giancarlo Fuà, Luciano Mecacci e Cynthia Puca, Laterza, Bari 1993, pp. 130-131. Il tema del desiderio è presente in tutta l’opera di Freud, per cui è difficile isolare un luogo in cui esso compaia in modo esclusivo: mi limito a segnalare di Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni (1900), tr. it. di Filippo Pogliani, introduzione di Jean Starobinski, Rizzoli, Milano 1986, vol. I, cap. III, pp. 194-206.

[12] Sul tema del desiderio in Deleuze, cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, L’anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia, tr. it. a cura di Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 2002, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, in Millepiani, vol. II, tr. it. di Giorgio Passerone, a cura di Massimilano Guareschi, Castelvecchi, Roma 2006, pp. 5-32, e la voce “desiderio” in L’Abécédaire de Gilles Deleuze, intervista di Claire Parnet a Gilles Deleuze, trasmissione televisiva girata nel 1988 e andata in onda per la prima volta nel 1996, dopo il suicidio di Deleuze.

[13] Cfr. Rosi Braidotti, Il postumano: la vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, tr. it. di Angela Balzano, Derive Approdi, Roma 2014.

[14] Cfr. Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna, tr. it. a cura di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 66-67, Ead., Questo sesso che non è un sesso, tr. it. di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1978, p. 62, e Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991, Ead., La posizione isterica e la necessità della mediazione, a cura di Mimma Ferrante, Donne Acqua Liquida, Biblioteca delle donne-UDI di Palermo, Palermo 1993.

[15] Cfr. René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, tr. it. di Leonardo Verdi-Vighetti, Bompiani, Milano 1965.

[16] Cfr. Erminia Macola, Un’autorizzazione infinita, in AA. VV., Un altro mondo in questo mondo. Mistica e politica, a cura di Wanda Tommasi, Moretti e Vitali, Bergamo 2014, pp. 84-96. Voglio ricordare qui Erminia Macola, purtroppo recentemente scomparsa, per la sua grande intelligenza, generosità, e per il suo atteggiamento positivo verso la vita. Sulla mistica femminile, cfr. Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003.

[17] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., I (A), 6, 1096 b.

[18] Cfr. L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, cit.

[19] Cfr. L. Cigarini, La politica del desiderio, cit., pp. 127-184. Sul tema dell’autorità femminile, cfr. inoltre Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995, e, più recentemente, Luisa Muraro, Autorità, Rosenberg & Sellier, Torino 2013, e Annarosa Buttarelli, Sovrane. L’autorità femminile al governo, Il Saggiatore, Milano 2013.

[20] Cfr. L. Muraro, La maestra di Socrate e mia, cit., p. 37.

[21] Cfr. L. Muraro, Al mercato della felicità, cit., pp. 16-25.

[22] Manuela Fraire, L’effetto-madre. Sulla famiglia e oltre, in Annarosa Buttarelli, Federica Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 123.

[23] Cfr. I. Dominijanni, L’impronta indecidibile, cit., p. 183. Tuttavia, proprio Dominijanni ha rimesso recentemente al centro della sua riflessione il nodo di sessualità e politica, interrogando nuovamente, alla luce delle vicende del ventennio berlusconiano, il tessuto simbolico dell’eterosessualità: cfr. Ida Dominijanni, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014.

[24] Cfr. Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, tr. it. di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 90-91 e pp. 142-163.

[25] Cfr. ivi, pp. 142-163.

[26] Cfr. Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento: una controversia politico-filosofica, tr. it. di Enzo Morelli, Meltemi, Roma 2007, Jessica Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, tr. it. di Anna Nadotti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, e Judith Butler, Soggetti di desiderio, tr. it. di G. Giuliani, presentazione di Adriana Cavarero, Laterza, Roma-Bari 2009, Ead., La disfatta del genere, tr. it. di Patrizia Mafezzoli, a cura di Olivia Guaraldo, Meltemi, Roma 2006, cap. “Desiderio di riconoscimento”, Ead., Critica della violenza etica, tr. it. di Federico Rahola, Feltrinelli, Milano 2006. All’interno del campo di battaglia costituito dai diversi femminismi, Nancy Fraser rappresenta la posizione più favorevole al rilancio del desiderio di riconoscimento in seno al femminismo: Fraser assegna un ruolo importante alla richiesta di riconoscimento da parte delle donne, avanzata per superare le disuguaglianze di genere e per denunciare la violenza domestica, la violenza sessuale e l’oppressione riproduttiva, in una serie di rivendicazioni che, dal privato delle relazioni sessuali, investe la sfera pubblica in nome di una richiesta di giustizia. Anche Jessica Benjamin ha valorizzato la tematica del riconoscimento, ma in una prospettiva intersoggettiva, non come strumento di rivendicazione politica: coniugando la prospettiva psicanalitica con quella femminista, Benjamin ha indagato le relazioni di dominio e di sottomissione, instaurate, a partire dalla sfera sessuale, fra uomini e donne. Infine, allontanandosi dalla concezione di Fraser del desiderio di riconoscimento come strumento di lotta politica, Butler si colloca accanto a Benjamin, a cui pure muove delle critiche, nell’interrogare la dinamica del riconoscimento in una prospettiva sia psicanalitica sia intersoggettiva, a partire dalla scissione originaria del sé nella sua apertura costitutiva all’altro. Nonostante la sua riformulazione originale della questione, Butler rimane legata al paradigma hegeliano del desiderio di riconoscimento: lo dimostrano la sua insistenza sul nesso costitutivo fra desiderio e riconoscimento e la sua concezione della soggettività come radicalmente implicata nella relazione con l’alterità.

[27] Cfr. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 28 e p. 34. Sul pensiero di Lonzi, cfr. Maria Luisa Boccia, Con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita, Ediesse, Roma 2014.

[28] Cfr. i due libri di Diotima sul lavoro del negativo nelle relazioni fra donne: La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005, e L’ombra della madre, cit.; cfr. inoltre il mio libro sulla depressione femminile, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile, Liguori, Napoli 2004.

[29] Per i diversi significati del corpo nell’opera di Simone Weil, in particolare nei Quaderni, rimando al mio libro Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997.

[30] Cfr. Simone Weil, Quaderni, vol. IV, tr. it. a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 398. Così Weil commenta questa storia: “Per l’uomo che vive in questo mondo, quaggiù, la materia sensibile – materia inerte e carne – è il filtro, il vaglio, il criterio universale del reale nel pensiero, nell’intero ambito del pensiero, senza che niente ne sia eccettuato. La materia è il nostro giudice infallibile”.

[31] Cfr. il mio saggio Soglia, in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale, Liguori, Napoli 2009, pp. 67-102.

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