menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
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giovedì 2 novembre 2023

L'umanità “canina” secondo Luc Besson

Con “Dogman”, nelle sale dal 12 Ottobre 2023, Luc Besson, il regista, sceneggiatore e produttore nato a Parigi nel 1959, ci consegna un'opera stilisticamente perfetta per quanto riguarda il ritmo narrativo, lo scavo psicologico dei principali protagonisti delle vicende rappresentate, una descrizione della pessima qualità etica rintracciabile in alcuni microcosmi umani della società contemporanea,  i chiari riferimenti alla “banalità del male” [[1]] declinato come vendetta per soprusi subìti, laddove si perde la misura umana di razionalità che può consentire di mandare avanti forme civili, dignitose di convivenza, quindi il film è ampiamente fruibile.


Tuttavia, resta difficoltosa da interpretare e, quindi, da apprezzare nell'interezza la “storia” che il film propone, di cui Besson è anche sceneggiatore, intrisa densamente d'emarginazione e riscatto, e la correlata, suggestiva “poetica” animalista che sollecita.

A nostro giudizio, il lungometraggio resta quasi insondabile nell'apparato dei princìpi sottesi, nella riflessione che implica il racconto in una fin troppo evidente, quasi edulcorata, agăpe, un convito intimo fra “amici” di specie diverse che vivono insieme una crudele sorte.

L'immanente metafora non è agevole da decodificare, perché lascia molto all'intuizione dello spettatore circa il “come” si sia potuta instaurare una relazione affettiva e solidale ed una conseguente efficace comunicazione, sincera e compartecipante, nonché operativa, tra il protagonista ed un gruppo di cani, anch'essi privati della libertà d'azione.

Il principale personaggio in una prima sequenza è interpretato da Lincoln Powell, il Doug in età infantile e preadolescenziale, imprigionato in gabbia con gli animali ed in un corpo martoriato; nel prosieguo del film, recita Caleb Landry Jones, il Douglas "Doug" che matura nel corso di frustranti vicende che lo attanagliano, compreso un amore profondo non corrisposto, peraltro legato ad una donna – la dolce e coinvolgente Salma, interpretata da Grace Palma - conosciuta in un ricovero per giovani senza genitori che contribuisce a motivarlo culturalmente convincendolo a dedicarsi ai testi di teatro e all'attorialità, interpretando diversi ruoli e tornando momentaneamente a godere di sprazzi di gioia.

Del resto, non poteva non accadere, viste le sofferenze iniziatiche di Doug, compresa la fuga della madre dall'insostenibile coartante situazione familiare, che l'innamoramento fosse concepito come disarmante e salvifico, e in seguito, come di prassi, destinato ad essere frustrato.

L'imprinting dell'originaria violenza del padre – Mike, interpretato da Clemens Schick - è purtroppo rinsaldato dalle esperienze dei duplici “abbandoni”, materno e da parte della donna della quale s'innamora.

Ancora bambino, dunque, all'inizio del film, Doug viene privato della libertà ed è gettato in una gabbia con tanti cani maltrattati anch'essi.

Il legame, certo possibile, con le bestie in cattività, alcune addestrate all'aggressività dal padre di Doug, psicolabile e violento, in combutta con il fratello maggiore Richie, interpretato da Alexander Settineri, emaciato cerebralmente, quest'ultimo, da una malintesa religiosità, è tratteggiato, nel racconto bessoniano grazie all'adozione di uno stile hollywoodiano. Infatti, il regista d'origine francese, congegna in modo spettacolare, introducendo alcuni effetti speciali, la possibilità di una complicità tra Doug e la sua nuova famiglia canina come effetto della mera prossimità, del comune e indegno maltrattamento fisico, della reclusione e denutrizione e di una condivisa condizione di completa abiezione e sporcizia.

È alla vicinanza fisica con gli animali, alcuni dei quali addomesticati per il combattimento, appartenenti, quindi, all'ordine dei carnivori, alla famiglia dei canidi, che Besson attribuisce il “miracolo” dell'intesa. É la stessa condizione sopravvivenziale, ci dice il regista, che causa l'alleanza tra il fanciullo ed i cani.

Questo ibrido nucleo familiare in catene ed ospitante nel quale è precipitato Doug, comprende cani di statura media o piuttosto piccola, corporatura diverse. Doug è attorniato da teste allungate e a punta, con rinario spazioso, umido, e orecchio triangolare, eretto e in generale non esageratamente grande; è accarezzato da code di lunghezza media e comunque non toccanti terra, ben rivestite. Sono cani febbrilmente indaffarati nello scampare da pericoli ed insidie, nel salvarsi la pelle, aiutandosi vicendevolmente.

Questi cani abbandonati e resi galeotti, di specie differenti, di colore più o meno fuligginoso, rappresentano una vera comunità impegnata nella prima socializzazione dell'imberbe Doug, liberatoria dall'oppressione paterna.


I cani che circondano il disperato e rabbioso Doug hanno la capacità di attendere e ascoltare, di misurarsi con il dolore e le fatiche, abilità che egli ha momentaneamente perso e che loro, istintivamente, aiutano a far recuperare, alleviando ferite fisiche e morali.

Doug, collaborando con essi, fa arrestare il padre e il fratello ed insieme si affrancano dal giogo, ma non dalla solitudine. Sono stati per tanto, troppo tempo in essa reclusi restando per sempre out, intossicati da una gran quantità di crudeltà metabolizzata.

La postura esistenziale di  Doug si configura come rigetto dell'umana identità, dapprima, grazie alla forzata convivenza con i cani, poi diviene convinta preferenza del mondo canino rispetto a quello civile e, crocifisso su sedia a rotelle, intraprende un cammino dalle tinte oscure, feroci, nonché catartico.

Appare come una riedizione splatter, simile al “peggior” Quentin Tarantino – chi ricorda, del regista statunitense,  Le Iene - Cani da rapina un film del 1992 ? - dell'antico Ginnasio di Cinosarge, il luogo di riunione dei giovani ateniesi figli di madre non cittadina in cui insegnava Antistene, o dallo stile di vita (κυνισμός) ad «imitazione del cane» che i cinici professavano.

É l'iniziazione alla vita di un uomo scisso, schizofrenicamente propenso  alla “giustizia” riparatrice di torti che non lo riguardano necessariamente personalmente – riesce, ad esempio, a sterminare, con l'aiuto dei suoi killer-cani, una intera banda di criminali – con a capo El Verdugo, interpretato da John Charles Aguilar - che taglieggiava una commerciante -, da un versante, e, dall'altro, si dedica con trasporto spirituale al canto in un elegante locale ove si esibiscono travestiti, travestendosi lui stesso assumendo le sembianze d'una sosia, malinconica ed in carne, di Marilyn Monroe in sedia a rotelle.

La violenza, non gratuita, come invece fa capolino in Pulp Fiction (Tarantino, 1994)  volutamente e necessariamente eccessiva, geometrica, a volte farsesca è l'elemento che Besson introduce in modo da rappresentare una convergenza tra le sensibilità in gioco, quella canina e quella umana. Tale amalgamato dissimile “sentire” sembra fondersi in un paradossale dominio razionale sulle passioni, divenendo una sorta di predicazione da attuare nella restante porzione di vita.

Non è però chiaro come questa metamorfosi possa psicologicamente avvenire, come empaticamente si possa generare la simbiosi che il film si sforza di raccontare, tra Doug ed i cani. Più comprensibile è lo stato di dissociazione psichica che lo fa transitare dall'identità di un Dottor Henry Jekyll al suo alter ego, Mister Edward Hyde [[2]], evolvendo fino alla catarsi finale.

Questo vuoto del racconto fa smarrire il senso degli avvenimenti, tumultuosi ed avvincenti come sono nella loro autonoma successione, bensì del tutto privi di valenza etologica ed antropologica.

Più realistico ci appare l'approccio dell'omonimo film “Dogman” (2018), diretto da Matteo Garrone, nel quale il riscatto morale avviene in modo trasparentemente giustificato, senza escludere quegli aspetti duri e cupi, rischiosi e violenti, “veristici” e di espiazione che a priori escludono letture mitologiche, essendo, tra l'altro, ispirato ad un lontano fatto di cronaca nera. In questo caso, il rapporto con i cani è generato dal loro essere accuditi amorevolmente nel negozio di toelettatura. Si ricorderà che il film di Garrone inizia con il ringhio di un pitbull da combattimento e con il terrore contrapposto degli altri cani chiusi dentro le gabbie del negozio, enucleando così quelle dinamiche di sopraffazione e sottomissione che sono la regola di vita del quartiere.


L'assonanza del “Dogman” di Besson, invece, forse sussiste con il film “Joker” (2019) di Arthur Fleck, che narra di un attore comico fallito ed ignorato dalla società, vagante per le strade di Gotham City iniziando una lenta e progressiva discesa negli abissi della follia, sino a divenire una delle peggiori menti criminali della storia.

Le sequenze filmiche del “Dogman” di Besson condannano i cani a manifestazioni omologate quasi circensi, frutto d'addestramento e non d'esplicito, consapevole e confortante accordo empatico con Doug. Il gruppo di cani, inverosimilmente, agisce come una gang, risponde alle richieste del “capo” stratega, ed assumono condotte geometricamente efficaci.

A Besson piace pensare che ciò sia possibile, ma non spiega bene in quale modo possa accedere. Certo non basta riferire dell'afflato emotivo che li stringe a coorte, seppur contagioso.

Seguendo il film ci si sofferma ad ammirarli, ma non si fa in tempo a capire il “perché” i cani in questione non siano ostili all'ingresso in gabbia del fanciullo. Sembra che siano in grado di percepire il dramma e, quindi, lo soccorrono come fosse uno di loro, quando il padre, esasperato dal ringhiare del ragazzo, a dimostrazione della resistenza e preferenza per il mondo canino rispetto alla famiglia, gli spara addosso tranciandogli un dito della mano con una pallottola che rimbalzando perfora il midollo osseo impedendo, da quel momento in poi, la possibilità di deambulare e di stare in piedi.

Questo stato di estrema fragilità potrebbe inesorabilmente toglierli la vita se osasse eccedere nei movimenti o insistere immobile sulle gambe imbragate, da quel drammatico momento in poi, da apposite protesi metalliche.

I cani di Besson hanno sensi acuti, udito particolarmente fino e olfatto insuperabile; tra le loro facoltà intellettuali eccelle la capacità di adattarsi e imparare, facoltà che ha fatto di parecchi di loro i più fidati e indispensabili artefici di rapine ed omicidi eseguiti per devozione e referenza nei riguardi di Doug.

Vivendo ora allo stato libero, grazie a lui e, a seconda della specie, gregarî, oppure agiscono solitarî o a coppie, ormai sono girovaghi, bravi nuotatori, di abitudini notturne, crepuscolari o diurne. Predano animali vivi, uomini che Doug odia, esercitando talvolta il cannibalismo - come nel caso di soppressione dello pseudoassicuratore dei ricchi rapinati, Ackerman,  interpretato das Christopher Denham -, ma preferiscono le carogne; si contentano talvolta di ossa e perfino di escrementi.

In un certo qual modo Besson non tradisce se stesso considerato che ha esordito nel 1982 con Le dernier combat, opera ispirata al ciclo di Mad Max, in cui ha cominciato a mettere in risalto una personale visione della violenza.

Besson è stato spesso autore di un cinema che esalta la fisicità, in molti casi influenzato dai film d'azione hollywoodiani; al tempo stesso è però presente in lui una visione malinconica, quasi pessimista dell'esistenza. Il tema della difficoltà di comunicazione tra gli individui e un atteggiamento disperatamente romantico vengono estremizzati in Subway (1985), Nikita (1990) e soprattutto in Léon (1994), The fifth element (1997) e Jeanne d'Arc (1999) [[3]].

In modo coerente con il suo sentire la vita, va ricordato anche che è stato anche autore dei documentari subacquei Le grand bleu (1988) e Atlantis (1991).


La sua lettura della realtà sociale, non costituisce un impedimento all'aspirazione manageriale che si concretizza nel 2000, quando fonda la Società di produzione e distribuzione EuropaCorp con l'intento di sviluppare una nuova corrente cinematografica per il grande pubblico.

Dopo Anna (2019), Besson riprende quest'anno a narrare le forme dell'amore e dell'odio, le contraddizioni intime che alludono alla pietas convivente con la degradazione umane, le forme di purificazione e d'aspirazione al bello e al buono, la transumanità che sui corpi “diversi” meglio sembra insediarsi e brillare, con un ammirevole ed efficace piglio descrittivo.

La capacità analitica di Besson si coglie, in particolar modo, nella fitta comunicazione tra Evelyn, interpretata da Jojo T. Gibbs, la psichiatra con la quale il protagonista adulto del film, acciuffato dalla polizia, parla e convintamente si concede alla rammemorazione delle prove estreme che la vita gli ha imposto d'affrontare e superare, in una dialogicità importante che si nota anche o soprattutto dagli sguardi che accompagnano silenzi reciprocamente indagatori consentendo di desumere le affinità elettive di entrambi in quanto depositari di laceranti dolori.

Un ragazzo, Doug, “ucciso” dalla vita, trova la sua salvezza e maturità attraverso l'amore dei e per i suoi cani. La psichiatra Evelyn, lesa dalla personalità del marito, allontanatosi perché dedito all'uso di droghe, che la perseguita rivendicando la figlia, riversa tutta la protettiva  tenerezza di madre sulla piccola per non perdersi in un fallimento che resta fuori dall'uscio di casa.

Si percepisce nettamente l'odore del dolore che tra loro si diffonde durante i colloqui, dolori personali eppure condivisi immediatamente. Ciò da sollievo, grazie agli ancoraggi prescelti, gli animali per Doug, la figlia per Evelyn. Il dolore ristruttura la gerarchia dei “valori” in forma tale da trasformare l'approccio cinico e banditesco in generosità robinhoodiana. Fin qui, il compito è svolto egregiamente da Besson.

A nostro avviso, non sussistono, però, le condizioni di identificazione da parte del pubblico, come quando si resta storditi un pò di fronte ad una policroma tela che attira gli occhi, della quale s'intuisce, però, la pura enfasi decorativa dell'artista.

Il patimento del protagonista di “Dogman” si trasforma in esaltazione eroica ed egotica, comprensibilmente, tuttavia, in relazione alla “storia” come essa è narrata, il termine “persecuzione” avrebbe potuto risuonare  in modo molto più acuto.

Con le mortificazioni che Doug subisce per lo stato di menomazione, sarebbe stato più persuasivo, più appropriato, comportando le vicende profonde ferite psicologiche arrecate da terzi, indirizzare le energie del protagonista verso obiettivi davvero salutari e non suicidari.

La mortificazione ha un suo valore implicito nella misura in cui pone di fronte ad un problema da superare. Il successo o meno in relazione a questo sforzo riabilitativo può spingerci verso una vita degna d’esser vissuta o nelle pastoie del disturbo nevrotico.

                                                                                               Giovanni Dursi


Scheda film

“Dogman”, film di Luc Besson con Caleb Landry Jones, Jojo T. Gibbs, Christopher Denham, Grace Palma, Clemens Schick. - Genere: drammatico - 2023

Produzione:

Virginie Besson-Silla, LBP, Europacorp, TF1 Films Production

Durata:

114’

Lingua:

Inglese

Paesi:

Francia, USA

Interpreti e personaggi:

       Caleb Landry Jones: Douglas "Doug"

     Jojo T. Gibbs: Evelyn.

     Christopher Denham: Ackerman.

     Clemens Schick: Mike.

     John Charles Aguilar: El Verdugo.

     Grace Palma: Salma.

     Alexander Settineri: Richie.

Regia e sceneggiatura:

Luc Besson

Fotografia:

Colin Wandersman

Montaggio:

Julien Rey

Scenografia:

Hugues Tissandier

Costumi:

Corinne Bruand

Musica:

Eric Serra

Suono:

Yves Levêque, Guillaume Bouchateau, Aymeric Devoldère, Stéphane Thiébaut, Victor Praud

Effetti visivi:

Mikros Image / MPC

 



[1] La definizione è debitrice del sublime scritto “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (1963) di Hannah Arendt (1906-1975), filosofa tedesca, allieva di Heidegger e Jaspers, emigrata nel 1933 dalla Germania in Francia a causa delle persecuzioni contro gli ebrei. Trad. it. Feltrinelli Edirote, 1992.

[2]  Rif. al racconto gotico di Robert Louis Stevenson, Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, 1886.

[3] Vanno ricordate, altresì, tra le sue opere: Angel-A (2005); Arthur and the Minimoys (2006); Arthur et la vengeance de Maltazard (2009); From Paris with love (2010); The extraordinary adventures of Adèle Blanc-Sec (2010); Arthur et la guerre des deux mondes (2010); The Lady(2011); Taken 2 (Taken. La vendetta, 2012); The Family (Cose nostre - Malavita, 2013); Lucy (2014); Valerian and the city of a thousand planets(2017); Anna (2019); da ultimo, Dogman (2023).

sabato 26 marzo 2016

P P

Avrebbe compiuto 87 anni il prossimo 23 maggio Paolo Poli che si è spento ieri a Roma dopo un periodo di malattia. Un artista versatile, libero, come il sindaco di Firenze Dario Nardella, la città in cui era nato, l'ha voluto definire diffondendo su twitter la notizia della scomparsa. I funerali saranno nella sua città. Paolo Poli è stato un maestro per tutto un teatro tra varieta' e lazzi e sberleffi con una solida cultura dietro ad evitare il cattivo gusto. Poli è rimasto sempre, anche quando ne aveva di certo superato l'età, un bambino, e non si puo' disgiungerlo da quella vocina impertinente della sua celebre lettura e interpretazione di Pinocchio, lui, figlio di Collodi e buffo palazzeschiano sin nell'impronta toscana del suo eloquio, come dalla malizia con cui raccontava favole per i piu' piccoli o novelle famose alla Radio negli anni Settanta. Era gia' li' la cifra dei suoi spettacoli futuri, che passano dai grandi classici alla letteratura rosa per signorine. Attore brillante per vocazione, dalla comicita' intelligente e provocatoria, ma sempre con un sottofondo giocoso, come nei suoi famosi en travesti', Poli amava i testi surreali, i lati onirici, il ridicolo del sentimentalismo, il rapido sberleffo, l'ironia che smonta e rivela anche quella sotterranea nota malinconica e esistenziale propria di ogni vero artista. Nato nel 1928 a Firenze Paolo Poli era laureato in letteratura francese con una tesi su Henry Beque ed aveva cominciato lavorando in radio e nel teatro vernacolare, sino a quando era entrato a far parte, a Genova, della Borsa di Arlecchino fondata da Aldo Trionfo.


Da li' approdera' a Roma, alla Cometa, con uno spettacolo sul Novellino nel 1961, cominciando il suo viaggio attraverso testi letterari di ogni genere. Particolare e spettacolare affabulatore sarcastico, ha il suo primo momento di vera gloria con Santa Rita da Cascia nel 1967, che scandalizza e viene accusata di vilipendio alla religione. Alla ricerca sempre di quel lato paradossale proprio della vita, fuori e sopra il palcoscenico, Poli si prendeva sempre gioco di tutto, ma e' un'apparenza, se, per poterlo fare sempre con tanta sicurezza, vuol dire che sa prendere prima tutto sul serio, con un sicuro criterio critico e una sensibilita' vera, cosi' da poter passare con lo stesso atteggiamento dalla letteratura alla vita, per esempio non nascondendo la propria natura omosessuale, cosa seria, ovviamente, ma su cui scherzava con la stessa impertinenza di tutto il resto. E' cosi' che riesce, con naturalezza e in compagnia di Ida Ombroni, che ha firmato con lui i testi di tanti celebri spettacoli, passare da Carolina Invernizio o la Vispa Teresa a Savinio o Queneau, senza dimenticare alcuni eroi romantici come l'Alfieri.

E cosi' esemplare, se si vuole, resta nel fatidico 1969, la sua proposta de 'La nemica' di Niccodemi con una compagnia en travesti' di soli uomini e dando vita a una scatenata, italica mamma duchessa tutta vezzi, gesti ad effetto, che si sventola le ascelle con un ventaglio o si mordicchia provocatoria il povero boa di struzzo, gorgheggiando avvolta nella bandiera, intonando vocine di ogni tipo e isteriche urla, che diventano una critica dall'interno, un ridicolizzare quel mondo borghese a cavallo tra Otto e Novecento, che ha portato senza alcuna coscienza il paese alla guerra e al fascismo. Lui si divertiva, si mascherava, tirava fuori tutti i vezzi possibili, alla fine di ogni spettacolo improvvisando e quasi dialogando col pubblico, da beato immoralista dell'ambiguita' e della crisi dei valori, provocatore amato ma solitario, unico, esibizionista che rompeva gli ipocriti confini del perbenismo, facendolo sempre anche sulla propria pelle. Nonostante l'età, energico e irriverente, aveva continuato anche dopo gli 80 anni a frequentare il palco, a realizzare libri - come l'audiolibro Emons in cui leggeva da par suo ''La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene'' di Pellegrino Artusi - ed era anche tornato in tv nel giugno scorso dopo oltre 40 anni su Rai3 con 'E lasciatemi divertire', 8 puntate insieme all'amico Pino Strabioli. Era stato, al solito, mattatore. ''Il mio peccato preferito? E' la superbia. Quello che non sopporto, invece, e' l'accidia. Il borbottio continuo di certa gente", aveva detto.

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venerdì 15 gennaio 2016

Il grande accattone

Accattone/Vittorio (Franco Citti) è un sottoproletario delle borgate romane. Non lavora, vive facendo il “pappone” di una puttana, Maddalena (Silvana Corsini). Abitano in una baracca semidiroccata con Nannina (Adele Cambria), la moglie e i figlioletti di Ciccio, un guappo/sfruttatore che è in galera. Le giornate di Accattone passano lente, quasi immobili, in un baretto sgangherato insieme agli amici (Mommoletto, Piede d’oro, il Capogna, Pupo biondo, Peppe il folle, il Tedesco, Balilla, Cartagine, il Cipolla, il Moicano)... abbacinati dalla svogliatezza di vivere.

Per mostrare di non aver paura della morte e anche per raccattare un po’ di soldi, Accattone si tuffa da un ponte nel Tevere dopo aver mangiato e vince la scommessa. Alle sue spalle appare per la prima volta nel cinema pasoliniano, un “angelo di marmo”, che sembra proteggerlo. In modi diversi o sotto altre spoglie, la visione angelica pasoliniana sarà una presenza costante nella sua opera filmica. È un “angelo necessario” che annuncia una vita fantastica che è alla fine o al fondo di noi stessi. È l’“angelo dell’accoglienza” che fa della sensibilità e della tenerezza la trasparenza dei sogni. È l’“angelo dell’immaginazione” che porta la lieta novella dell’amore – da cuore a cuore – e fa della fanciullezza il centro focale dove uguaglianza e diversità si fondono nella favola bella e malinconica dell’infanzia.
Il film ha un sussulto, quasi un fuori scena di derivazione Nouvelle Vague... quando appare la banda di napoletani... vogliono sapere chi ha fatto la spiata e mandato il loro amico Ciccio (sfruttatore di Maddalena prima di Accattone) in carcere. Accattone tradisce Maddalena e dice ai napoletani che è stata lei a denunciarlo. La donna viene investita da una motocicletta. Deve restare a letto con una gamba fasciata. Accattone la schiaffeggia e la costringe ad andare a battere il marciapiede come ogni sera. I napoletani la prendono, la portano in una discarica e la picchiano a sangue. Sullo sfondo le luci di Roma abbagliano un cielo nero e le grida della donna si perdono nella notte. In questura Maddalena non denuncia i suoi aggressori ma Cartagine e Balilla, non fa il nome di Accattone e viene rilasciato... Maddalena è accusata di falsa testimonianza e deve scontare un anno di carcere. Accattone resta solo. Senza soldi, senza nessuno che lo aiuti. Va a trovare la sua ex-moglie Ascenza (Paola Guidi) che lavora in una laveria di bottiglie, per chiedere dei soldi. Qui conosce Stella (Franca Pasut), una ragazza bella, ingenua (figlia di una prostituta), fuori del tempo e della storia. Accattone s’innamora di Stella e vanno a vivere nella casupola di Nannina. 
Per comprare le scarpe a Stella, ruba a suo figlio un’esile catenina d’oro.  Accattone, per amore della ragazza cerca anche di lavorare, da un fabbro. Il primo giorno di lavoro è sfinito. Quando ritorna in borgata gli amici lo prendono in giro, scoppia una rissa e Accattone viene pestato. La notte fa uno strano sogno. Vede i cadaveri dei napoletani nudi, semisepolti sotto la terra e lui col vestito della festa che va al suo funerale. È in ritardo, gli amici lo chiamano, manca solo lui. Ai cancelli del cimitero il becchino (Polidor) lo ferma... a lui è vietato l’ingresso. Tutto è inondato di luce, è il Paradiso. Il becchino gli scava la fossa in una zona d’ombra, Accattone gli chiede di essere seppellito un po’ più in là, al sole. Accattone cerca di avviare Stella alla prostituzione ma al suo primo cliente la ragazza rifiuta di fare la marchetta e scoppia in lacrime. Intanto una puttana, Amore (Adriana Asti), viene arrestata in una retata e finisce in cella con Maddalena e altre prostitute (tra queste si riconosce un’interessante Elsa Morante). Amore dice a Maddalena che il suo ex-protettore sta ora con Stella. Maddalena lo denuncia e la polizia controlla i suoi movimenti.

Accattone, Cartagine e Balilla girano per Roma per mettere a segno qualche furtarello. Mentre rubano dei salumi da un furgone, vengono scoperti dalla polizia. Accattone inforca una motocicletta e fugge... fuori campo si sentono stridori di una frenata e il colpo di uno scontro... Accattone va finire contro un camion e con la testa sanguinante sull’acciottolato, morente, dice: “Mo' sto bene”. Balilla si fa il segno della croce (alla rovescia) con le le manette ai polsi.

Il debutto di Pasolini come autore cinematografico è fulminante. ACCATTONE fa subito scandalo ed è subito poesia in forma di cinema. L’universo del sottoproletariato romano diviene una metafora del mondo e quei primi piani, le grezze panoramiche, la sacralità dei corpi di una gioventù alla deriva della civiltà dei consumi che avanza dal centro della metropoli ed esplode in quelle periferie assolate... portano in sé una diversa tecnica filmica e una diversa poetica cinematografica che fanno di questo film una specie di “ballata neo(sur)realista” di irripetibile bellezza.

ACCATTONE racconta l’emarginazione suburbana romana ma è evidente che la metafora si allarga ai Sud del mondo. È una storia che sviscera la profonda miseria delle borgate di Torpignattara, del Pigneto e dai margini della grande città riporta alle radici di un’esistenza offesa, bastonata, deflorata senza rimedio. Pasolini coglie i segni della condizione umana povera e vigliacca di personaggi che vivono ai margini delle periferie e da qui ne escono in galera o morti. In questa degradazione esistenziale Pasolini vede “qualcosa di sacro” che crolla nella caduta personale di Accattone e nello stesso tempo risorge nel segno della croce blasfemo finale di Balilla. “La morte, il presentimento della morte domina, è una presenza – ora segreta, ora esplicita – sospesa sul film dalla prima all’ultima inquadratura” (Morando Morandini), che infonde all’opera un percorso primordiale, quasi una lacerazione di un’innocenza ritrovata e immediatamente perduta sulla quale si può solo piangere o bestemmiare.

È vero quello che ha detto Jean Collet – ACCATTONE è fratello di MOUCHETTE – (...  hanno lo stesso assetto visionario che li conduce nei luoghi della trasversalità ereticale e nell’incoscienza di una crudeltà amicale, fraterna, dolorosa... trasmutano lo schermo in un sudario passionale che si chiama fuori dalla storia quotidiana.
ACCATTONE è “un film ambiguo, lacerato, dunque un’opera d’arte” (Jean Collet). Lo sguardo pasoliniano su Accattone è inquietante, sofferto ma anche distaccato. Non giudica la sua vita, né comprende la sua disperazione. Non ci sembra (come dice Alberto Moravia) che Accattone è “soprattutto l’espressione d’una sclerosi etica, di un’inconscia volontà suicida”, piuttosto vediamo in Accattone un testimone tragico dei mondezzai (delle periferie del mondo) prodotti dalle forme di discriminazione/sperequazione della collettività moderna.
ACCATTONE contiene in sé secoli di dolore e di sottomissione di un’umanità diminuita. È un discorso sulla fame, sulla miseria, sulla solitudine... che si prende gioco di ogni politica, di ogni fede e fa della condizione emarginata l’ultimo strappo di un sociale profanato per sempre. Quello di Accattone è un destino tragico che si avvolge nel mito e nell’incoscienza di chi affronta il quotidiano giorno dopo giorno, morso dopo morso. Pasolini costruisce un apologo contro la pacificazione domestica piccolo-borghese, sceglie l’inquietudine come insicurezza e interrogazione dell’esistenza di tutti.
Le cifre stilistiche/espressive di ACCATTONE sono elementari e gli omaggi a Ejzenstejn, Dreyer, Mizoguchi, Chaplin o Bergman si riconoscono senza difficoltà... le baracche della periferia romana, le immondizie, le facce irripetibili di un popolo miserabile schiacciato sotto l’avanzare della modernità vanno a comporre un florilegio iperreale della “diversità”.
La figura di Accattone è stata associata a un “cristo anarchico” (Sandro Petraglia). Non ci sembra così. La sacralità o la fatalità psicologica nelle quali il film è depositato, sono piuttosto un espediente narrativo e la degradazione viscerale di un uomo che vive nel fango e nella polvere (ha detto da qualche parte, Pasolini). 
ACCATTONE intreccia la surrealtà maledetta di opere disperate che hanno scritto la storia del cinema e dell’uomo, con i resti dello splendore neorealista contaminato da riferimenti pittorici medievali e dalla musica di Johann Sebastian Bach, che conferiscono al film un'aura innovativa del linguaggio cinematografico.
La fotografia in bianco e nero (Tonino Delli Colli) di ACCATTONE è “cruda”, “grezza”, racconta lo stupore del “vero” senza cadere nella retorica della cronaca o del falso documentario. Pasolini chiese a Delli Colli una fotografia sgranata, contrastata, tagliata sui bianchi e sui neri. Delli Colli usò la pellicola Ferrania P. 30, la più dura che si trovava sul mercato... “da un positivo fu fatto addirittura un controtipo, ossia fu stampata bene una copia dal negativo diretto, e poi da questa copia, da questo positivo, fu ricavato un altro negativo. Il tutto, quindi, si indurì persino maggiormente” (Tonino Delli Colli) e il film assunse un’aura di grande spessore emozionale/figurativo che proietta Pasolini accanto ai maestri dell’irriverenza poetica come Chaplin, Dreyer, Welles, Buñuel o Bresson.
L’essenzialità figurale di Pasolini supporta non poco l’approssimazione scenografica... sovente la cinecamera sfiora, si sofferma, descrive i numerosi comprimari di Accattone che emergono dalla loro realtà devastata e qui la lezione etica di Rossellini, De Sica o Buñuel esplode in tutta la sua forza comunicativa. Il montaggio (Nino Baragli) è frammentato... a tratti lento, largamente giocato su metafore ardite o contrasti improvvisi, delinea già la magia affabulativa sulla quale Pasolini costruirà tutto il suo cinema a venire.
I montatori (italiani) erano abituati ad aggiuntare la pellicola sulle uscite e le entrate in campo... procedimento che non esisteva nel film di Pasolini, che faceva “un controcampo a Frascati e un altro a Venezia” (Nino Baragli). Proprio come Welles, Ejzentstejn o Buñuel. Quando Pasolini “decideva di fare un campo lungo o un primissimo piano, avevo l’impressione di assistere all’invenzione del campo lungo o del primissimo piano. La prima volta della storia del cinema” (Bernardo Bertolucci).
Il tocco filmico pasoliniano è subito chiaro: cinecamera a mano, inquadrature forti, primi piani azzardati, lente panoramiche... tutto immerso in un’estetica della trasgressione che trasfigura l’impossibilità di vivere il reale nei recinti istituzionali e delinea l’utopia dei senzastoria che scardina il pensiero protetto dello Stato. Sono tematiche che scivoleranno in ogni lavoro pasoliniano (cinematografico, poetico, giornalistico o letterario) e andranno a costruire un universo insanguinato dove la strada è la trasparenza dell’immaginario calpestato e la fede, la cultura o la politica il male di esistere nel cerchio conviviale della civiltà dello spettacolo.
L’interprete di Accattone è Franco Citti, un ex-imbianchino e amico di Pasolini. “La sua miseria materiale e morale, la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sbandata e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sensualità senza ideali e, insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso cattolicesimo pagano” (Pier Paolo Pasolini), bruciano lo schermo come nessuno e fanno dei limiti del dolore, la sovversione non sospetta che non ha né inizio né fine... è il rovesciamento del convenzionale e della temporalità addomesticata, il capovolgimento di una situazione statica che dà voce al silenzio genuflesso degli oppressi. Pasolini è, su molti piani, l’interprete più “scoperto” di un’umanità emarginata, depredata, violentata... la trasgressione che porta sullo schermo, nei libri, nella vita personale e quotidiana è quella di una presenza forte e anomala, che schianta l’insieme della cultura del sospetto e fa della fede politica/religiosa i luoghi della sofferenza e della rivolta. Al fondo di ogni trasgressione c’è la ribellione contro il Padre, contro Dio, contro lo Stato... e solo attraverso la trasgressione l’uomo è capace di divenire padrone  della propria intelligenza e rovesciare il prestabilito della propria epoca.


Citti nasce nella borgata di Torpignattara... conosce la guerra, la fame, il riformatorio, la disperazione, l’inesistenza, la non-vita, la merda... la prima volta che ha fatto l’amore è stato con una puttana. Il riformatorio è l’unico posto che ricorda come casa sua. “Mi facevo dei ragazzini in riformatorio. Ce n’erano per lo meno tre innamorati di me... con la scusa dell’età o del brutto muso ti approfittavi di quelli che avevano più di te, di quelli che ricevevano dai parenti più soldi, più regali, più pacchi-viveri. Quella era vita. Vinceva chi riusciva a coltivarsi il più gran numero di ‘culetti bianchi’, come chiamavamo quelli che venivano da Milano o soltanto dal Nord” (Franco Citti).
Il personaggio di Accattone nasce nelle pizzerie, nelle osterie, sul tramvetto azzurro di Grotte Celoni, nei racconti di borgata che Sergio e Franco Citti (davanti a un litro di vino) facevano a Pasolini. Accattone era uno che esisteva davvero, se ne parlava tra “i malandri" della Acqua Bullicante, come di un paraculo senza fissa dimora che viveva di espedienti. Una specie di «leggenda» di periferia, un Robin Hood da quattro soldi, che non rubava ai ricchi per dare ai poveri, ma che si rimediava la giornata per sopravvivere. Magari fregando un altro povero, ma che non era mai tanto povero come lui” (Franco Citti). Lo chiamavano Accattone perché “accattonava la vita” e poi tutti nelle borgate avevano dei soprannomi. Il quel micromondo di diseredati tutti parlavano di Accattone ma nessuno lo conosceva bene. Appariva e scompariva dal nulla. Ogni tanto in borgata venivano a sapere che aveva fatto un colpo al Tiburtino Terzo o al Prenestino, poi più niente per lungo tempo.
In principio, i produttori di Accattone volevano come interprete Franco Interlenghi... Pasolini insistette su Citti e crediamo che il suo volto/maschera del sottoproletariato universale sia una delle più grandi rivelazioni della storiografia cinematografica. Lo sguardo obliquo, la camminata non impostata, la gestualità essenziale, il sorriso ironico di Citti... “bucano” lo schermo almeno quanto l’interpretazione corrosiva – maschilista – di Marlon Brando (IL SELVAGGIO) o quella schizofrenica – effeminata – di James Dean (GIOVENTÙ BRUCIATA), ma lì è la fiction hollywoodiana che parla, in Citti è la vita della periferia che insorge e debutta sulle sue macerie.
ACCATTONE è stato il primo film del cinema italiano ad essere vietato (con un apposito decreto) ai minori di 18 anni. Le riprese del film furono effettuate tra l’aprile e luglio 1961. Per gli interni, vennero affittati i teatri di posa Incir De Paolis. Per girare gli esterni, la piccola troupe si spostava nella periferia romana (Via Casilina, Via Portuense, Via Appia Antica, Via Baccina, Ponte degli Angeli, Acqua Santa, Via Manunzio, Ponte Testaccio, il Pigneto, borgata Gordiani, la Maranella. Subiaco (il cimitero). Il negativo adoperato non superò 50.000 metri e la copia definitiva durava 116’ e 32 secondi (3.188 m). 
I manifesti pubblicitari del film (splendidi), furono eseguiti su bozzetti di Carlo Levi e Mino Maccari, il costo approssimativo si aggirò intorno ai cinquanta milioni, quanto un film di “serie B” di quegli anni e forse meno. Scelto per la XXII Mostra del Cinema di Venezia (31 agosto), il film di Pasolini ricevette fischi e improperi. Pochi capirono di trovarsi di fronte a un’opera d’arte. I settimanali avvertivano i lettori che si trattava di “un film sui rifiuti umani” (Oggi) o che “quello di Pasolini è, insomma, un mondo a senso unico, dove non affiora mai la speranza o un sentimento capace di dare il senso della dignità umana” (Vita, 7 dicembre 1961). La “sacralità dell’autentico non trovò seguito” (Barth David Schwartz) che in pochi disertori della pubblica opinione.
Alla “prima” di ACCATTONE al cinema Barberini a Roma, un manipolo di giovani fascisti cercarono di impedire la proiezione... lanciarono bottiglie d’inchiostro contro lo schermo, bombette di carta e finocchi tra il pubblico... ci furono colluttazioni e la visione del film fu sospesa per quasi un’ora... intorno a Pasolini si strinsero amici e intellettuali senza museruola e ACCATTONE prese la via degli schermi di ogni parte della terra... da subito, Pasolini mostrò un “cinema di poesia”, in opposizione al “cinema merce”, come linguaggio edulcorato del potere.
Quando il film sarà bloccato in sede di censura e ritirato da tutte le sale italiane... non furono molti i giornalisti che gridarono alla discriminazione... e oltre all’amico Moravia, s’infuriò Mino Argentieri, che dalle pagine di Cinema Sessanta (luglio-agosto 1961), scrisse che era importante agire contro i censori dello Stato in quanto si trattava di un film che raggiungeva la “compiutezza d’arte”. Solo un anno prima, Mario Montagnana, dalle colonne di Rinascita aveva tuonato contro Pasolini, per espellerlo dalle file degli intellettuali graditi dal Partito... dietro l’epurazione chiesta da Montagnana, c’era il fiato marcio del più sardonico, ambiguo, fariseo uomo politico che l’Italia abbia avuto dopo Benito Mussolini, Palmiro Togliatti (il braccio lungo di Stalin, colui che si è macchiato la coscienza di sangue con i massacri degli anarchici e comunisti dissidenti nella guerra di Spagna del ‘36).
Nel 1962, ACCATTONE viene presentato al Festival del cinema di Karlovy Vary (Repubblica Ceca) e vince il Primo premio per la regia. Il coraggio dello spirito e la passione per i diritti civili dell’uomo/della donna non fanno difetto a Pasolini, che infrange la “notte americana” del cinema e interrompe il gioco della commedia attorale e della macchina divistica. “Il cinema e la politica sono la stessa cosa. Hanno entrambi a che fare con lo spettacolo. Il cinema ha a che fare con lo spettacolo, la politica è spettacolo, divertente o meno... C’è lo stesso scarto di partenza, stavo per dire la stessa menzogna, sia nella rappresentazione politica sia nella rappresentazione cinematografica commerciale” (Marguerite Duras). Pasolini denuncia col suo film sia la menzogna politica che la menzogna del cinema. La sua opera non è solo una messa in questione delle responsabilità della classe dominante ma è anche un’accusa contro l’indifferenza e la passività degli spettatori. “Il genio comincia col dolore” (Marguerite Duras), la stupidità con l’euforia o la genuflessione all’ordine dominante.
ACCATTONE esce in tempi agitati, attraversati da strappi culturali e fratture politiche... lo schermo era stato violato da autori eversivi della “fabbrica dei sogni” e Shirley Clarke, Jonas Mekas, Lionel Rogosin, John Cassavetes o Robert Frank... avevano aperto vie del cinema a basso costo, mostrato deviazioni e turbamenti dell’arte cinematografica. L’assalto al cinema del film pasoliniano è talmente particolare che nemmeno i Cahiers du Cinéma (n. 116, 1961), sempre attenti alle pulsioni nuove e ai cambiamenti radicali del linguaggio cinematografico, si accorgono di ciò che passa loro negli occhi... Jean Douchet ignora ACCATTONE alla rassegna veneziana e i Cahiers preferiscono recensire DONNA DI VITA (Jacques Demy), LA NOTTE (Michelangelo Antonioni), EL COCHECITO (Marco Ferreri), LES GODELUREAUX (Claude Chabrol), DOV’È LA LIBERTÀ (Roberto Rossellini), ROCCO E I SUOI FRATELLI (Luchino Visconti), THE CRIMINALS (Joseph Losey), OMBRE (John Cassavetes), BELLISSIMA (Luchino Visconti), KAPÒ (Gillo Pontecorvo), EXODUS (Otto Preminger), ESTER E IL RE (Raoul Walsh), LA VENDETTA DEL GANGSTER (Samuel Fuller), L’ANNO SCORSO A MARIENBAD (Alain Resnais), LA DONNA È DONNA (Jean-Luc Godard, QUESTA SERA O MAI PIÙ (Jacques Deville), SPARTACUS (Stanley Kubrick), IL TESTAMENTO DEL MOSTRO (Jean Renoir), PARIS NOUS APPARTIENT (Jacques Rivette)... si accorgeranno della portata eversiva di ACCATTONE l’anno dopo.

La cultura figurativa di Pasolini (le lezioni di Roberto Longhi su Masaccio, Piero della Francesca all’Università di Bologna sono una presenza costante nel suo fare-cinema...), reinventa “l’iconografia e il senso dello spazio nell’immagine cinematografica” (Gian Piero Brunetta). I primi piani dei personaggi pasoliniani, incastonati sullo sfondo delle periferie metropolitane si rifanno a certi affreschi medievali e divengono icone-simbolo di una visione materica della realtà che è propria dei grandi “sognatori” (da Masaccio a Goya, da Klee a Picasso). Pasolini assume il punto di vista delle sue immagini/metafore, sa che “non ha più senso scrivere per una classe sociale mutata e inseguendo il sogno di una rivoluzione sociale impossibile” (Gian Piero Brunetta)... così pone il suo cinema alla confluenza delle culture transnazionali e tra la realtà e sogno si fa soggetto politico/indocile del presente e testimone eretico/blasfemo della memoria storica del passato.

A
CCATTONE è il primo dei 22 film che compongono la cinevita di Pasolini. Anche se la risonanza di Gramsci e la sua idea di cultura “nazional-popolare” della classe dominata scissa dalla cultura borghese, sembra riguardare da vicino la prima stagione cinematografica pasoliniana... Pasolini affabula i suoi film per un’umanità ideale e in qualche modo contenevano un’insorgenza (mai una prospettiva) rivoluzionaria: la disobbedienza o la ribellione. Accattone vola un’estate... quanto basta per mostrare la sua tragedia personale e quella di tutti i sotto-proletariati suburbani. “Una tragedia senza speranza, perché mi auguro che pochi saranno gli spettatori che vedranno un significato di speranza nel segno della croce con cui il film si chiude” (Pier Paolo Pasolini). La realtà pasoliniana veniva rappresentata con la realtà emarginata di Accattone, quelle facce, quei gesti, quei corpi, quelle parole... erano così nella vita come sul lenzuolo sdrucito dello schermo. La cultura che Accattone esprimeva non aveva una propria morale e la sua interpretazione del mondo restituiva il razzismo evangelizzato della classe dominante. La cultura borghese che Accattone non conosceva, era ciò che respirava e non aveva nessun mezzo (se non la violenza o la bruta criminalità), per mettere in discussione i modelli e i valori imposti. Nella disseminazione della tolleranza istituzionale (puramente formale), “tutti i borghesi sono infatti razzisti, sempre, in qualsiasi luogo, a qualsiasi partito essi appartengano” (Pier Paolo Pasolini). .
ACCATTONE è un’opera di straordinaria bellezza formale, oltre che un film dolcemente poetico, indimenticabile. Accattone “non incontra sul suo cammino il partito comunista e non si redime neppure diventando ladro... Accattone appartiene a un mondo socialmente primitivo, le cui leggi della ragione e della consapevolezza sono confuse annebbiate... Pasolini ha osservato e giudicato i suoi personaggi dall’interno, nel cerchio chiuso di una sotto-società dominata da regole proprie e impermeabile alle sollecitazioni esterne” (Mino Argentieri). ACCATTONE rappresenta la degradazione e l’umile condizione umana di un personaggio della periferia romana, ma contiene anche la “sacralità dell’innocenza” che questa condizione disperata comporta, in ogni società cosiddetta “evoluta”. L’entusiasmo rende imbecilli anche i santi. Nella società dello spettacolo integrato (Guy Debord, diceva), dove tutto è ormai sacro, tutto si può dire o violare. In arte, come nella vita, il padre va ucciso. Il poeta è la fiamma che lo brucia e ci sono maestri della disobbedienza – come Pasolini – che con le loro affabulazioni etiche hanno inchiodato i tribunali delle banalità mercantili nel tanfo della loro epoca. Per sempre. Amen e così sia!
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