menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
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sabato 6 maggio 2017

EMERGENZE E RESILIENZA NELLA SOCIETÀ CHE CAMBIA

Il convegno “EMERGENZE E RESILIENZA NELLA SOCIETÀ CHE CAMBIA” è promosso dall’Associazione P.E.A. (Psicologi Emergenza Abruzzo) e dal Centro Culturale SPAZIOPIÙ, realtà entrambe motivate a sviluppare una visione integrata basata sui fattori di protezione e valorizzazione della persona e della comunità. A seguito di esperienze maturate sul campo è nata l’esigenza di un confronto pubblico sul tema della RESILIENZA. Per resilienza – concetto affermatosi sempre più nell’ambito delle scienze psicologiche e sociali – si intende la capacità individuale di affrontare/superare le difficoltà e, in senso più ampio e variabile, la capacità di coping e di un buon adattamento della comunità nonostante l’esposizione a fattori di rischio, stress, traumi. Finalità della giornata sarà, quindi, quella di introdurre il concetto di COMUNITÀ  RESILIENTE, per evidenziare le possibili reazioni positive delle singole persone e dei gruppi agli eventi critici: secondo quest’ottica le comunità sono competenti e capaci di catalizzare le risorse necessarie per reagire agli eventi stressanti

FINALITA’
Il convegno vuole promuovere un confronto/condivisione tra le figure professionali coinvolte nel processo di prevenzione e superamento degli eventi critici, dal punto di vista sia individuale sia collettivo e nell’ambito del contesto pubblico e privato. Il concetto di resilienza di comunità muove, infatti, dalla scelta di lavorare in rete nella medesima direzione: quella dello stimolare le potenzialità creative del sistema sociale in risposta alle avversità, per raggiungere un nuovo equilibrio qualitativamente migliore rispetto all’originario

OBIETTIVI
  • Approfondire i concetti di resilienza e comunità resiliente
  • Conoscere l’identità lavorativa e le esperienze delle diverse figure che operano nel processo della prevenzione e della gestione dell’emergenza
  • Realizzare un confronto produttivo tra i know how degli operatori del sistema pubblico e privato
  • Contribuire a creare un clima di collaborazione, fiducia, flessibilità ed integrazione in un sistema di prevenzione competente ed efficace
  • Valorizzare la formazione come requisito di eccellenza

DESTINATARI
Per rispondere a possibili circostanze critiche è importante la preparazione non solo degli operatori dell’emergenza ma anche delle persone che compongono una comunità. Diventa, pertanto, essenziale il coinvolgimento non solo gli addetti ai lavori ma anche dei cittadini, nella convinzione che le singole persone e le comunità siano protagonisti attivi della promozione di comportamenti e reazioni pro-attive in un’ottica di resilienza e di empowerment di comunità

PROGRAMMA

Ore 9:30: Saluti delle Autorità
Dott. Tancredi Di Iullo, Presidente Ordine Psicologi Abruzzo
Dott. Mario Mazzocca, Assessore Regionale Protezione Civile
Dott. Antonio Blasioli, Vicesindaco con delega alla Protezione Civile – Comune di Pescara
Ore 9:40: “La protezione civile: cultura della prevenzione e adattamento al cambiamento climatico”  Dott. Mario Mazzocca Assessore Regionale Protezione Civile
Ore 10:00: Apertura lavori
“Rinascere nel cambiamento: una visione d’insieme per integrare le competenze”  Dott.ssa Federica Angelone, Direttivo SpazioPiù, socio Pea, Psicologa Psicoterapeuta Bioenergetica, Counselor; Dott.ssa Monica Isabella Ventura, Presidente Pea, socio SpazioPiù, Psicologa Psicoterapueta Bioenergetica, Esperta in Disaster Management
Ore 10:20: “Psicobiologia: resilienza e coscienza”  Dr.ssa Anna Rita Iannetti, Medico di Prevenzione Ausl Pescara, Esperto in Psicobiologia, Master in PNEI, Master in Medicina Biointegrata, Master in Ottimizzazione NeuroPsicoFisica e CRM Terapia
Ore 10:40: “Il Dispatch: dal dramma alla risposta” – Dr. Adamo Mancinelli,  Medico 118 Chieti, Responsabile Maxiemergenze Asl Chieti
11:00 – 11:15: Pausa caffè
Ore 11:15: La strada ed i rischi correlati. La resilienza negli operatori di Polizia Locale”  Dott.ssa Nicoletta Romanelli, Psicologa, Criminologa, CTU Tribunale di Sulmona, Consulente Polizia Locale, Socio Pea
Ore 11:35: Sostegno tra pari: aumentare la resilienza organizzativa e del singolo”  Dott. Berardino Beccia, D.G.S. Vice Dirigente Corpo Nazionale Vigili del Fuoco L’Aquila, Laurea triennale Psicologia, Master in Counseling dell’ Emergenza, Referente Nazionale per il Supporto Pari a Rigopiano
Ore 11:55: Più forze, un’unica direzione” – Stefano Nieddu, Scrittore e Formatore
Ore 12.15: Resilienza e Security” – Rosario Bonomo, Esperto in Security Consultant
Ore 12:35: Resilienza vs Happiness” – Alessandro Rasetta, PhD, Sociologo, Giornalista pubblicista, Innovation Manager, Corporate Happiness Consultant, Liaison Officier for PhD in Business and Behavioral Sciences at University G. D’Annunzio, CH-PE
Ore 12:55- 13:30: Discussione
Ore 13:30-14:30: Pausa Pranzo
Ore 14:30: “L’assistente sociale come esempio di rete e assistenza alla persona”  Dott.ssa Francesca Ficorilli, Assistente Sociale Coop. Sociale Horizon Service, Sulmona (AQ) 
Ore 14:50: “Nekyia: la rinuncia alla paura e la scelta di se stessi. Esperienze di resilienza  Dott.ssa Federica Angelone, Direttivo SpazioPiù, Socio Pea, Psicologa Psicoterapeuta Bioenergetica, Counselor
Ore 15:10: Sostenersi nel gruppo, navigare in emergenza”  Dott.ssa Monica Isabella Ventura, Presidente Pea, socio SpazioPiù, Psicologa Psicoterapueta Bioenergetica, Esperta in Disaster Management
Ore 15:30:  “Gruppo e Resilienza … Istruzioni per l’uso!”  Dott. Sebastiano Carticiano, Consigliere Pea, Psicologo, Psicologo Formatore Esperto in emergenza e formazione dei gruppi, Psicologo dello Sport
Ore 16:15: Equilibrio emozionale per i soccorritori attraverso la pratica della coerenza cardiaca”  Dr.ssa Silvia Di Luzio, Medico Chirurgo, Cardialoga Ausl Pescara, Formatrice, Mbit Coach
Ore 17:00: Dalla vulnerabilità alla Resilienza: il ruolo dei processi informativi, formativi e comunicativi in ambito organizzativo e sociale”  Dott. Luigi De Luca, Direttore del Centro di Formazione nazionale dei Vigili del Fuoco di Catania. Sociologo e Counselor, esperto nella relazione d’aiuto. Master in Psicologia dell’emergenza e Psicotraumatologia
Ore 17:20-18:00: Dibattito
Ore 18.00: Chiusura dei Lavori
spaziopiù

sabato 18 giugno 2016

“Across Chinese Cities”, tra Marco Polo e Calvino


È un ponte tutto di pietra largo otto passi e lungo duemila che è la larghezza del fiume stesso. Porta ai due lati per tutta la loro lunghezza colonne di marmo che sostengono il tetto del ponte: e il ponte è coperto da un tetto di legno tutto istoriato e dipinto riccamente. Ci sono su questo ponte da una parte e dall’altra molti casottini di legno dove si vendono mercanzie e prodotti vari, ma non sono stabili: si montano la mattina e si smontano la sera. E qui si fa il commercio per il Gran Signore e vi sono quelli che riscuotono la sua rendita cioè il diritto che egli ha sulle mercanzie che si vendono sul ponte. E sappiate che il diritto del ponte si può calcolare in un valore minimo intorno ai mille bisanti d’oro per giorno.
Marco Polo, Il Milione cap. CXV, 1298 (scritto in italiano da Maria Bellonci, 1982)

Marco Polo insegna, sempre. La sua descrizione del Ponte Anshun (letteralmente ‘Pacifico e fluente’) a Chengdu potrebbe aver ispirato la costruzione, nella prima metà del XV secolo, di due file di negozi sul Ponte di Rialto - lungo solo 48 metri, ma per secoli cuore nevralgico dei commerci - all’epoca nella versione in legno strutturale risalente al 1250 circa. Quel che è certo è che i proventi derivanti dall’affitto dei negozi venivano riscossi dalla Tesoreria di Stato della Repubblica Serenissima di Venezia con modalità simili a quelle attuate dal Gran Kan a “Sindufu”, come Polo denomina la città capoluogo della provincia Sichuan.
A oltre sette secoli dal viaggio che il mercante e ambasciatore veneziano descrisse nel Milione - la prima vera enciclopedia geografica - la Cina torna da grande protagonista a Venezia, in occasione di Biennale Architettura 2016, e non solo per la mostra "Daily Design Daily Tao" curata da Liang Jingyu che trova spazio nel Padiglione governativo all’Arsenale: nella sede IUAV di Ca’ Tron, sul Canal Grande, c’è l'Evento collaterale "Across Chinese Cities - China House Vision". Entrambe le esposizioni sono state inaugurate dal viceministro della Cultura Yang Zhijin, arrivato a Venezia per ribadire “gli stretti legami con questa città piena di poesia, modello di integrazione tra civiltà antica e moderna, come un luogo sacro del tardo Rinascimento”. A fare gli onori di casa, la veneziana Laura Fincato - cittadina onoraria di Suzhou, ha ricevuto il Cultural Exchange Contribution Award del Ministero della Cultura Cinese conferito dalla Vicepremier Liu Yandong - la quale ha sottolineato che “grazie anche al lavoro di Zheng Hao, vicedirettore del ministero della Cultura, negli ultimi quattro anni 80 delegazioni di importanti città sono venute a Venezia per mantenere e rafforzare i rapporti di amicizia. Desideriamo tutti, come veneziani, come italiani, che queste relazioni diventino sempre più profonde e importanti”. Principi ribaditi anche da Massimiliano De Martin, assessore comunale all’Urbanistica, che ha sottolineato come "Marco Polo non costruì solo la via della seta: ridusse le distanze tra culture e popoli. Ora siamo qui per parlare di contemporaneità". Parole pronunciate alla presenza di media cinesi nella Sala Giunta grande di Ca’ Farsetti, dove sono state ricevute le delegazioni di “Across Chinese Cities” e di Chengdu (città ospite 2016), che vanta 4.500 anni di storia ed è riconosciuta dall’Unesco sia per il suo patrimonio culturale che per quello naturale: è il regno dei panda. Chengdu ha 13 milioni di abitanti, ma sono 17 milioni nell’area: è la quarta città della Cina per popolazione, turismo ed economia. “Ci auguriamo che questo incontro segni l'inizio di relazioni per scambi nei settori istruzione, cultura, cibo" hanno risposto Bo Luo, vicesindaco esecutivo di Chengdu, e Houlei Duan, direttore generale dell’Information Bureau della provincia di Sichuan.
“Across Chinese Cities” è parte dell’omonimo programma internazionale organizzato e promosso dalla Beijing Design Week (BJDW) guidata da Vittorio Sun Qun, che si prefigge di generare ricerca e contenuti inediti relativi al produrre, pensare e vivere la ‘condizione urbana’ della Cina contemporanea, e così offrire accesso al sapere pratico e teoretico che scaturisce dall’incontro delle sue incessanti sfide ed ambizioni.
Curata da Beatrice Leanza (BJDW) e da Michele Brunello (DONTSTOP Architettura), la mostra costituisce una iterazione dal progetto “House Vision”, piattaforma Panasiatica di ricerca e sviluppo pluridisciplinare lanciata e co-curata dai designer Kenya Hara (direttore creativo del brand Muji) e Sadao Tsuchiya in Giappone dal 2013. “House Vision” è una esplorazione in ‘futuribilità applicata’ nel campo dell’abitare domestico, esercitato da team formati da progettisti nell’architettura e industrie leader di vari settori, accoppiate al fine di realizzare nuove visioni di ‘casa e forme dell’abitare’ che rispondano a complessità urbane esistenti, trasformazioni degli stili di vita e necessità umane. Una riflessione sulla condizione abitativa del futuro, soprattutto in Asia: dopo il lancio di House Vision China a Milano in occasione di Expo 2015, quest’anno a Venezia vengono mostrati i primi risultati delle ricerche svolte da 12 studi di architettura dislocati in tutta la Cina.
"L’allestimento di 'Across Chinese Cities - China House Vision' disegna uno spazio domestico e pubblico, lanciando la sfida di cambiare le città a partire dalla liberazione dei desideri individuali che si proiettano sulla casa, al di fuori di ogni omologazione - spiega Brunello -. Quello che oggi costituisce la differenza sociale, e cioè la personalizzazione della propria casa secondo i propri desideri, concessa spesso solo ai più abbienti, in futuro potrebbe diventare accessibile a tutti ed elemento costitutivo del progetto residenziale adatto a tutte le possibilità economiche, a tutte le scale e a tutte le latitudini. L’obiettivo, oggi come ieri, rimane ridurre le differenze; la novità è che oggi si può provare a farlo moltiplicando le differenze".
Entrando a Ca’ Tron si incontrano prima di tutto gli spazi riservati a Chengdu: curati dal Beijing Center for The Arts (BCA), sono interamente dedicati alla cucina. ‘The Floating Kitchen’ di Kengo Kuma ci riporta alla cucina tradizionale cinese, che vanta tra gli ingredienti principali quelle spezie che fecero la fortuna dell'antica Repubblica di Venezia: sembra di viaggiare con Marco Polo, tra oggetti vintage e video istallazioni che mostrano cuoche all’opera, in ambienti simili a quelli delle nostre trattorie. È quindi un balzo quasi epocale quello che ci fa fare ‘The Infinity Kitchen’ di Winy Maas: una lunghissima cucina tutta trasparente che punta ad elevare la nostra consapevolezza sui singoli procedimenti del cucinare, celebrandone i rituali in modo poetico.
Tanta poesia si trova anche al piano nobile di Ca’ Tron, dove si sviluppa la sezione principale di “Across Chinese Cities – China House Vision”. Poesia nello stile di Italo Calvino, che ne Le città invisibili fa dire a Marco Polo in un dialogo con Kublai Kan: “Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure”. Qui in realtà troviamo soprattutto desideri.
Per citare solo alcuni esempi, Yungo Chang ci propone ‘The Bike House’, istallazione che nasce dal suo amore di tutta la vita: la bicicletta, il cui utilizzo per il trasporto urbano viene ora promosso dall’Amministrazione municipale di Pechino. ‘The Bike House’ propone progetti di abitazioni per ciclisti, con spazi interni in cui muoversi comodamente in sella alla bici, e nuovi spazi collettivi per comunità di appassionati della bicicletta.
‘Back Home’ di Liang Jingyu si ispira a valori di autosufficienza e interconnessione tra Uomo e Natura, concetti cari agli antichi canoni etici cinesi. Nasce dall’osservazione degli stili di vita in regioni rurali remote, dove la sincronicità di attività fisiche e spirituali viene tuttora praticata in una coesistenza armoniosa.
‘The House of Spontaneity’ di Hua Li esplora i rituali che donano il senso di ‘essere a casa’ agli spazi in cui viviamo: celebra la possibilità che l’abitazione del futuro incarni l’espressione individuale, e che la casa sia un luogo aperto al cambiamento e alla costante riconfigurazione.

Venezia, Ca’ Tron – fino al 23 settembre

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di Maristella Tagliaferro © Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

mercoledì 1 giugno 2016

Biennale 2016: L’architettura non è un esercizio di stile



L’immagine scelta come icona della 15° mostra internazionale di architettura che ha aperto i battenti il 28 Maggio è molto emblematica dell’approccio che ha guidato il curatore cileno Alejandro Aravena nell’impostazione dell’edizione di quest’anno, dal titolo altrettanto significativo, Reporting from the front. Nella foto (di Bruce Chatwin) compare una donna in piedi su una scala di alluminio intenta a scrutare il paesaggio intorno a lei, a prima vista una sorta di ‘terra desolata’: è l’archeologa Maria Reiche che osserva dall’alto le linee Nazca. Ciò che a livello del terreno appare solo pietrisco sparso casualmente, da una diversa prospettiva forma figure di senso compiuto, animali, fiori, alberi. Ed è proprio un nuovo punto di vista quello che Aravena si è ripromesso di cercare: una nuova prospettiva, un modo diverso di affrontare le cose radicalmente pragmatico, che comprenda l’orizzonte anche etico del lavoro dell’architetto, coniugando alla dimensione creativa dell’architettura la componente di responsabilità di fronte alle questioni che riguardano l’uomo e la qualità della vita.
La Biennale di architettura si configura quest’anno quindi soprattutto come un’occasione per conoscere e condividere esperienze efficaci che hanno saputo trovare risposte a istanze non più rimandabili e di assoluta rilevanza: nodi critici come le periferie, l’accesso ai servizi sanitari, i disastri naturali, la carenza di alloggi, le migrazioni, il traffico, lo spreco, i rifiuti, l’inquinamento. Perché l’architettura può ‘fare la differenza’: il richiamo è a superare lo scollamento tra architettura e società civile, il soffermarsi sugli aspetti più superficialmente decorativi o spettacolari e a prendere in carico invece in primis gli aspetti pratici e concreti, i temi scomodi, i punti dolenti, intorno ai quali costruire soluzioni creative ed efficienti, coinvolgendo le comunità degli abitanti come parte attiva nella definizione degli spazi. E buon senso e creatività non sono affatto in opposizione, anzi. L’architettura è, e non deve dimenticare di essere, per sua natura una disciplina ‘sintetica’, nel senso che è chiamata a integrare esigenze diverse, a rispondere su più fronti, dalla dimensione culturale ed artistica a quella sociale, ambientale, economica.
La cifra che caratterizza la Biennale quest’anno rispecchia del resto il ‘DNA professionale’, del suo curatore: Aravena insieme ad alcuni soci ha fondato lo studio Elemental, che si occupa di “progetti di interesse pubblico e di impatto sociale”, con un approccio “partecipativo alla progettazione”, in cui gli architetti lavorano a stretto contatto con i destinatari del progetto: e da aprile Aravena ha reso scaricabili liberamente dal sito alcuni dei suoi progetti, per creare un sistema aperto, che consenta di incanalare e arricchire le risorse disponibili in modo efficace, per rispondere alle emergenze abitative in tutto il mondo.


© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

sabato 27 febbraio 2016

We will forget soon, i luoghi dell’Armata Rossa in Germania (By Federica Crociani)

We Will Forget Armata Rossa
La storia è ciclica. Ma forse la memoria può aiutare a non commettere gli stessi errori. Questo è stato forse, oltre alla passione e alla curiosità, il fuoco che ha spinto i due fotografi italiani, Stefano Corso e Dario Jacopo Laganà, a percorrere con la loro piccola auto rossa quasi 8.000 km in due anni e a scattare qualcosa come 10.000 foto nei circa 300 luoghi esplorati.
We will forget soon fotografia sala di lettura Lenin base sovietica
La sala di lettura “Lenin”, presente in ogni base sovietica


L’idea era quella di documentare la presenza dell’Armata Rossa in Germania, che nella seconda guerra mondiale fu incisiva nella lotta contro il nazismo e nella conseguente liberazione di Berlino. Il progetto si è concentrato nel documentare  la presenza della potenza militare russa nella Germania dell’Est andando a scovare i luoghi in cui, in maniera più o meno evidente, era visibile il passato.

We Will Forget Soon fotografia Sotterranei dellArmata Rossa Wünsdorf
Sotterranei del quartier generale dell’Armata Rossa a Wünsdorf

Il progetto, che ha preso il curioso ed emblematico nome di  We will forget soon, si è poi concretizzato in una mostra fotografica itinerante che, partita nel maggio 2015 dall’ex Germania dell’Est ed ospitata dalla Berlin Art Week, approderà a Prora nel corso del 2016 nella sua 6° tappa. Ad agosto è stato pubblicato anche un libro fotografico, presentato a Roma in Campidoglio il 30 settembre scorso.
We Will Forget Soon fotografia Armata Rossa
Lo svanire dei simboli della propaganda


Aree abbandonate dove la natura si è riappropriata dei suoi spazi e luoghi “recuperati” che hanno trovato un nuovo modo di essere utilizzati. È questo che ha colpito i visitatori della mostra itinerante e la loro sensibilità. Perché è spesso solo l’apertura mentale che aiuta a vedere basi militari in luoghi che non esistono più e complessi ospedalieri prussiani in strutture di riabilitazione neurologica. Federica Crociani

lunedì 4 gennaio 2016

Caduta e ricostruzione della polis (Nota di Nicola Di Battista © riproduzione riservata)

Quanto accaduto a Parigi ci fa comprendere che la strada per arrivare a una pacifica convivenza dei popoli è ancora lunga e piena d’insidie; ma è anche l’unica strada possibile.
L’anno in corso si chiude con un ennesimo atto di barbarie contro la vita, orribile e straziante allo stesso tempo. Un atto violento e devastante compiuto da uomini contro altri uomini: un atto contro gente comune, avvenuto in luoghi comuni; un atto che ha seminato la morte in spazi pensati per la vita.
Di queste inaudite violenze è purtroppo piena la storia dell’umanità, ma quello che oggi maggiormente ci ferisce e rattrista è vedere che ancora possano accadere tali atrocità ed entrare a far parte del nostro quotidiano. Se poi è Parigi a essere colpita, allora ci sembra di tornare indietro di molti decenni. Questa volta, è stata colpita proprio la capitale francese, quella entità magistralmente descritta da Paul Valéry in un breve testo riproposto su Domus solo qualche mese fa, in cui ci racconta di una città che è di un “ordine più sofisticato” rispetto alle altre, di una città la cui funzione è necessaria ai parigini, ai francesi, agli europei e agli uomini tutti.
Quanto accaduto ci fa drammaticamente comprendere come la strada da percorrere per arrivare a una pacifica convivenza dei popoli sia ancora lunga e piena d’insidie; ci trasmette però anche la convinzione che per noi – così come speriamo per tanti – sia l’unica strada possibile: da questa prospettiva, allora, gli efferati avvenimenti mortali di questi giorni altro non fanno che rafforzare in noi la voglia di vita. Proprio di ciò vorrei parlare in questo editoriale: della vita degli uomini e dei luoghi pensati e costruiti da essi per viverla al meglio, e del dovere che abbiamo noi oggi di riconoscere, preservare, valorizzare e – se ne siamo capaci – anche di ampliare questi luoghi. 

L’occasione ci viene data dal ciclo d’incontri “Conversazioni sulle Rovine”, organizzato dal Teatro di Roma e dal suo direttore Antonio Calbi, che qui pubblicamente ringrazio per avermi invitato a partecipare a uno di questi colloqui. Si svolgono in un luogo straordinario, il Teatro Argentina di Roma, e si tengono la domenica mattina: tutto questo contribuisce a renderli speciali, connotandoli di una sorta di sacralità davvero incomparabile. Vedere quello splendido teatro affollato di oltre 800 persone, convenute lì non per assistere a una pièce teatrale, come normalmente ci si aspetterebbe, ma solo per ascoltare alcuni invitati conversare è già di per sé un fatto straordinario, un avvenimento capace di raccontare la voglia della gente di partecipare alla vita collettiva della città. 
A teatro, mi sono sempre trovato dall’altra parte, quella del pubblico, a guardare la scena; questa volta, invece, essere sul palco mi ha prima di tutto emozionato, ma mi ha anche dato la possibilità di constatare quello che a priori supponevo, vale a dire che la cosa più bella in una simile situazione sono le persone stesse, anzi i visi delle persone: tanti, centinaia, come in questo caso, ma in numero tale da poterli ancora guardare tutti, uno per uno, e riconoscerli; un’esperienza davvero unica ed esaltante.
Gli efferati avvenimenti mortali di questi giorni altro non fanno che rafforzare la voglia di vita
Essendo il tema della conversazione “Caduta e ricostruzione della Polis”, l’incontro si è caricato di significati squisitamente civili e politici: si è parlato di convivenza, di come la gente può vivere insieme in un luogo, in una comunità, in una città. Questo interessa molto le persone, perché ci si occupa della vita – della propria e di quella degli altri – e della possibilità che abbiamo di viverla nel miglior modo possibile. Devo anche dire che ho avuto la fortuna di essere sul palco insieme con ospiti di grande autorevolezza nei loro campi disciplinari e nei loro mestieri; persone vere e non finte, persone con storie da  raccontare: sulla polis, la città, l’esigenza e la possibilità per gli uomini di stare insieme. Ora, sarà stato il tema, sarà stata la sala, saranno stati gli ospiti, sarà stato il pubblico, ma in quell’occasione – domenica 22 novembre 2015 alle ore 11 del mattino – si respirava alto. Questo ci carica di responsabilità: prima di tutto, come cittadini, che cercano di raggiungere la massima consapevolezza possibile in merito all’idea di città che vorrebbero avere e che vorrebbero  abitare; vorrebbero comprendere con chiarezza cosa manca alle città reali vissute quotidianamente e cosa è indispensabile per vivere pienamente la loro vita. Come architetti, poi – se questo è il mestiere che facciamo –, la responsabilità diventa doppia e non possiamo più accontentarci di dire cosa non va; abbiamo il dovere di dire cosa va fatto e come farlo, anzi, come noi lo faremmo. Questo ci pone subito di fronte a un problema a cui sinora non si è prestata troppa attenzione: quello di definire ruolo e responsabilità dell’architettura, a priori, prima che essa si realizzi. A tale proposito, ci piace ricordare ancora una volta la precisa e lucida descrizione di Ortega y Gasset (Domus 977, febbraio 2014), dove dice che “[…] l’architettura non è, non può, non deve essere un’arte esclusivamente personale. È un’arte collettiva”. Basterebbe questo per differenziare l’architettura da tutte le altre arti, per riportarla alla sua realtà; per questo, ogni architetto ha l’obbligo di descrivere la propria architettura; di dire, per esempio, da dove essa venga, in che storia abbia l’ambizione d’inserirsi, cosa voglia innovare o ripetere. L’architetto deve fare questo soprattutto per poter condividere la  propria architettura prima che essa si realizzi, per discuterla con la committenza e, solo in seguito, per fissarla come il risultato ultimo di un lavoro collettivo e responsabile. In questa maniera, l’architetto non sarà più solo a difendere il proprio operato e avrà invece il privilegio di realizzare con la propria arte qualcosa che appartiene a tutti. Per questo, l’architettura non è, non può e non deve essere il frutto di una suggestione momentanea: è troppo importante per la vita degli uomini ed è impensabile che  possa darsi eludendo quanto descritto sopra. Se il rapporto con la committenza è sempre essenziale all’architetto per poter compiere il proprio lavoro, lo è in massima misura se si tratta di committenza pubblica, dove non è in gioco solo quello che riguarda il singolo – come nel privato –, ma quello che riguarda tutti. In questo caso, non avere una vera committenza all’altezza del compito può essere disastroso per il nostro vivere civile. Una comunità e una città che non riescano a realizzare i propri edifici e i propri spazi pubblici in maniera adeguata perderanno anche il senso della vita associativa e saranno invece più propense a richiudersi nella sfera privata e domestica. Si capisce come la questione sia davvero complessa e di grande rilevanza, molto difficile da affrontare, ma del tutto ineludibile e non semplificabile.

Ogni architetto ha l’obbligo di descrivere la propria architettura

A poco sono valse le scorciatoie intraprese da alcuni, che hanno preteso di misurare la qualità architettonica di un manufatto a partire dalle sue caratteristiche tecnico-prestazionali in merito alla sostenibilità, all’efficienza, al riciclo e altro ancora. È ovvio che oggi pretendiamo di realizzare edifici sostenibili ed efficienti, compatibilmente con le economie che abbiamo e con  l’ambiente e il contesto in cui lavoriamo. Quello che invece ci manca, e che cerchiamo, è molto di più: qualcosa che non si dà per legge, che non può essere misurato con una certificazione, che non è assicurato a priori, che non possiamo comprare. Stiamo parlando di quel qualcosa che i nostri antenati, in alcuni momenti, sono stati capaci d’introdurre nei loro manufatti, rendendoli magnifici al punto da essere ancora buoni per noi oggi. Queste nostre straordinarie città, che abbiamo ereditato dal passato, sono capaci di raccontarci tutto questo e c’incitano a ideare cose che possano rivaleggiare con esse. A questo punto, tornando al titolo della conversazione, “Caduta e ricostruzione della Polis”, possiamo constatare che almeno in  Europa – e sicuramente in grande rilevanza nel nostro Paese –, i due termini non sono mai stati in opposizione. Per meglio dire, possiamo affermare che da noi ogni generazione ha cercato di ricostruire la propria polis, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso; ogni uomo ha sentito forte in sé il diritto e il dovere di farlo, ma non con l’arroganza di chi vuole cancellare il passato per imporre il proprio presente, piuttosto con la consapevolezza di chi è convinto che il passato gli appartiene: convinto che “la bellezza ricevuta” è un suo patrimonio e che il suo compito – che poi dovrebbe essere il compito di tutti gli uomini –, resta quello di accogliere questa bellezza del passato, preservarla e ampliarla con il proprio operato. Ogni uomo è costretto a ri-negoziare la propria appartenenza a questo mondo e alla comunità di cui fa parte e ogni volta è obbligato a ricostruire la propria polis, dal punto di vista sociale, civile, politico, culturale e anche architettonico, e può farlo solamente distruggendo metaforicamente, e qualche volta materialmente, quella del passato. I due termini per noi non sono stati quasi mai in opposizione, bensì sono le due facce della stessa medaglia e sono proprio le nostre città a rappresentare oggi questa immensa ricchezza; uno sterminato e inesauribile palinsesto, in cui convivono materialmente e formalmente il vecchio con il nuovo, l’antico con il moderno, il normale con l’eccezionale, il simile con l’estraneo, il domestico con il pubblico, ma anche il potere politico con quello religioso e il lavoro con lo svago. In una parola, possiamo vedere le nostre città come i palcoscenici perfetti per vivere pienamente la grande commedia della vita umana, dove ognuno può essere protagonista e può scegliere il luogo dove stare al meglio, nel bene e nel male, anzi con il bene e con il male. Non un Eden ideale, ma un luogo reale, buono per costruire e vivere le proprie storie.

Ogni uomo è costretto a ri-negoziare la propria appartenenza a questo mondo e alla comunità di cui fa parte e ogni volta è obbligato a ricostruire la propria polis

Purtroppo, da qualche tempo, tutto questo sembra essersi interrotto in favore di finte città, costruite come – improbabili – isole felici, con luoghi apparentemente protetti dai rischi della vita e miseramente diventati veri e propri ghetti, dove le singole parti si pongono contro l’insieme delle parti: in una parola, tutto il contrario di quello che la polis rappresenta. A noi e alla nostra Domus il tema della città sta molto a cuore, c’interessa molto, al punto da averlo voluto addirittura nel sottotitolo della testata, “La città dell’uomo”, e avergli dedicato nel corso di questa direzione più di una riflessione. Per questo, sono stato davvero contento di vedere che un argomento così delicato e importante per la vita di tutti possa uscire al di fuori delle barriere disciplinari e approdare a un dibattito pubblico, addirittura dentro l’incomparabile cornice di un teatro. Aver visto, poi, così tanta attenzione e partecipazione intorno a queste conversazioni, ci conforta e ci spinge a fare di più, a fare meglio e a proseguire  nel lavoro. Tutto questo, però, ci mette anche di fronte al forte debito che le discipline che oggi si occupano dell’abitare hanno nei confronti dell’opinione pubblica, nei confronti dei cittadini: abbiamo un forte debito di comunicazione rispetto a quello che l’architettura potrebbe e dovrebbe fare per migliorare la vita gli uomini. Non vogliamo più entrare nel futuro indietreggiando e per questo vogliamo batterci, non da soli ma insieme con le centinaia di persone che abbiamo trovato al Teatro Argentina, con i lettori di Domus, con gli studenti universitari e tanti altri ancora: vogliamo vivere.
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