menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
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domenica 19 aprile 2020

Grazie Luis


Ironia e realtà nei libri di Sepúlveda

In una intervista, Luis Sepúlveda dichiarava di considerarsi “scrittore di stampo cervantino, un ‘nipotino’ del grande Cervantes, colui che più di chiunque altro è stato un maestro nell’uso dello strumento dell’ironia, un’ironia intelligente e sensibile, al contrario del sarcasmo - che è sempre vigliacco e offensivo” 1.
Il ridondante ricordo pubblico di questi questi giorni e la sovrabbondanza di “conoscitori” dell'opera sepúlvediana, dopo la sua morte, fa capire che dell'ironia c'è bisogno.
A proposito di Luis Sepúlveda Calfucura, scrittore, giornalista, sceneggiatore, poeta, regista e attivista cileno naturalizzato francese, analizzando tutti gli scritti - effettivamente letti - dello scrittore e passando in rassegna certa pubblicistica minore (stampa, aneddotica divulgata radio-televisivamente, post sui social network), risulta che di parte della produzione letteraria, artistica, testimoniale e del repertorio di interventi ed interviste, espressione nel corso degli anni della biografia sepúlvediana, della violenza subita, dell’orientamento rivoluzionario, della lotta anti-sistema, della sua militanza per le libertà, delle sue idee e dei suoi comportamenti, non c’è traccia.
Forse, in queste pittoresche circostanze, Luis, spettatore del tramestio intorno al suo trapasso, avrebbe abbandonato la pura ironia di cui è stato capace, per usare un “sano” sarcasmo.
É l'ironia, invero, il notevole lascito socio-culturale di Luis, un metodo corrosivo di lettura veritiera della realtà umana che conduce sovente a rilevare l'infondatezza di certi stereotipi sulle differenze, sulle discriminazioni e sui confini che, separando, escludono; ironia che permette di rintracciare il carattere di mera opinione, subdola ed interessata, spacciata per conoscenza, del caratteristico linguaggio del potere e delle élite. Inoltre, l'ironia è anche la chiave per entrare nel suo universo creativo ed emotivo che aiuta, husserlianamente2, a Wirwollen auf die “Sachen selbst” zuŗcückgehen !
Luis non vuole affatto accontentarsi di pure e semplici parole, pur cesellate ad arte, perché la scrittura è vita, perché la vita “parla”, basta saperla ascoltare, saperla interrogare. La sua narrazione non s'avvale di intuizioni indirette, d'una potente architettura razionale all'uopo dispiegata, non è perizia da sceneggiatore, tanto meno fantasia obbligatoriamente illogica, viceversa è un prezioso voler tornare “alle cose stesse”, un lavoro, antropologico prima che letterario, di riduzione eidetica, ovvero un sublime comunicare – ossia, nobile umana commistione di abnegazione “nello scavo” e fervore solidaristico – attrezzato nel “dire” generoso. Si tratta del suo genuino rappresentare con la scrittura il passaggio dalla considerazione cronachistica delle vicende come tali alla loro essenza nel vissuto personale e sociale che le coglie incastonandole e collocandole abilmente nella memoria.
In un altro passo dell'intervista richiamata, Sepúlveda afferma: “Io cerco di scrivere dal punto di vista di una sana ironia fatta di amor e umor. In più sono cileno, e devo dire che una particolarità dell’uomo cileno è quella di ironizzare sempre soprattutto su se stesso - a differenza degli argentini. Se un argentino viene lasciato dalla moglie cercherà subito uno psicanalista e al massimo scriverà un tango tristissimo, un cileno invece darà una festa per gli amici per raccontare, trasformare l’abbandono cercando delle spiegazioni e ridere anche di questo. Negli anni del carcere, che vi assicuro sono stati molto duri, non ci trattavano bene, ci torturavano e una delle torture più comuni era quella di strapparci le unghie dei piedi, ma anche lì quando tornavamo alle nostre celle con i piedi sanguinanti e dolenti non era raro sentire qualcuno che diceva “Sono stato dal podologo stamani, una vera bestia, ma non gli ho certo lasciato la mancia!” [ … ] “I romanzi non vengono scritti dall’autore ma dai personaggi, lo scrittore si limita a seguirli nel loro percorso”.
La “trilogia dell'amicizia” della quale “Gabbianella” fa parte assieme a “Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza” (Ugo Guanda Editore, 2013) e “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà” (Ugo Guanda Editore, 2015) è una delle espressioni migliori di intima connessione tra scrittura e vita, di una concezione dell'arte del raccontare storie come atti umani perché politici, mai evasione consolatrice o alienante, d'una determinata ed autorevole convinzione di voler tornare alle cose stesse, di un impegno etico nello spronare il genere umano a fornire una migliore prova di sé.
In particolare, nell'emblematico libro “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” (Salani Editore, 1996) Luis narra l'inverosimile favolistico, ma con una inusitatamente efficace aderenza alla realtà. È l'altrove che descrive, eppure è dell'immanenza che sa trattare perché svela l'oggettiva valenza della diversità palesandola come utopia, come qualcosa che non è stato ancora compiutamente apprezzato, presentando una fratellanza da realizzare ancora, tuttavia presente, constatabile, quindi possibile e che può germogliare grazie alla “coscienza”, alla forza dei proponimenti soggettivi, alla messa in valore dell'ardimento individuale e all'affezione personale per l'altro di cui ciascuno è ricco.
Ecco, l'assenza dell'empirico che nasconde il “senso”, del quotidiano algoritmico accadere, del banale prevedibile, evoca energicamente un desiderio, mai fuga dalla realtà, che ha le sembianze della manipolazione benefica dell'argilla; esattamente come quel vero e proprio imprinting esistenziale che contraddistingue l'infanzia, quell'operare con le mani che i bambini iniziano molto presto, come forma di conoscenza degli oggetti: da sempre al centro dell’interesse e della loro curiosità, costituisce uno strumento, per maturare identità, autonomia e autentica conoscenza, che pare smarrirsi con la “adultità” e che Luis recupera e indelebilmente dona ai lettori come prescrizione non autoritaria.
A questo proposito, la trama va ricordata, perché la metafora scuote ancora. Il libro s'apre con l'impeto di Kengah, una gabbiana che cerca pesce per nutrirsi nel mare del Nord ricco di giacimenti di petrolio e di gas naturale, mentre penetra le onde. Lasciata sola nell'impresa dallo stormo che s'allontana, riemersa dai flutti, scopre d'essere impedita nel volo da una chiazza di petrolio che rischia di tarpargli le ali penetrando nella pelle. A fatica, con il greggio addosso, ascende verso il cielo e giunge ad Amburgo, precipitando tramortita su un balcone di una casa.
Qui Kengah incontra Zorba, un gatto, esemplare d'una specie dissimile di cui non diffida, a cui lei lascia in custodia, al culmine estremo d'una lucidità che sta per perdere, l’uovo che depone. La gabbiana, perdendo le forze strappa una promessa al gatto: maturare l’uovo, prendersi cura del nascituro e di insegnargli a volare. Il gatto si rende conto della follia dell'ultima esigenza dichiarata dalla gabbiana morente; certo, può tentare l'accudimento e avere successo nell'occuparsi del pulcino, può essere un riferimento nella sua vita, ma, senza dubbio, non sa insegnargli a volare, visto che è un gatto e non ha idea di come si faccia.
Zorba capisce che la gabbiana sta per morire e delira, ma quella che sembrava una richiesta impossibile da esaudire, pazientemente comprendendola, pare potersi realizzare. Il gatto, avvalendosi dei suoi amici Diderot, Colonnello e Segretario, tutti strambi personaggi, con dedizione e inclinazione sentimentale, riesce nell'impresa prendendosi cura di Fortuna, la piccola gabbianella, “come se fosse uno di loro, una loro figlia”. Tuttavia, resta l'ardua esperienza dell'insegnargli a volare. Per quanti sforzi facciano, Zorba e i suoi amici da soli non riescono a far spiccare il volo alla gabbianella, hanno bisogno di qualcuno che sia in grado di dargli una mano. A questo punto i gatti sono costretti a rompere un tabù e a parlare in una lingua diversa dalla loro, vanno così a chiedere aiuto all’unico individuo che pensano sia in grado di far mantenere la promessa: un uomo, un poeta dall’animo nobile e sensibile che riesce a comprendere la loro richiesta. Luis, riesce a porre l’accento sul doppio volto dell’uomo, che oltre a essere il responsabile dell’inquinamento dei mari, è in grado di fornire il suo aiuto e cambiare le cose, mostrando la sua parte sensibile e il suo rapporto simbiotico con l’ambiente circostante (rif. a Rossella Caso, Tra gatti e gabbiani. Un incontro tra infanzia e intercultura, Aracne, 2013; saggio incentrato sulla lettura pedagogica della favola di Luis Sepúlveda).
Questo è solo un aspetto della storia, poiché nel libro sono tanti i protagonisti e tante le contraddizioni che costringono ad intessere legami, a costruire rapporti che si susseguono, primo tra i quali quello della scoperta della diversità e della necessità di trovare un punto comune che riesca ad avvicinare (rif. a Rossella Caso, op. cit.), partendo dalla problematica esercitazione della comunicazione e della condivisione. Un vero e proprio “festeggiare le differenze”, come accade talvolta nella vita sociale, come dovrebbe accadere sempre nella scuola pubblica alla quale bambini e adolescenti vengono affidati. Il messaggio, apparentemente onirico, bensì utopistico, veicola, facendo breccia, la categoria del “possibile”. L'opera di Luis agisce come specchio rivelando l'indole di ciascuno, lo spessore morale, la capacità di accantonare l'ego per far posto al “noi”.
Tanti piccoli gabbiani nelle nostre scuole (rif. a Rossella Caso, op. cit), una realtà incontestabile, un'evenienza che fa comprendere che ogni relazione, ogni convivenza è sempre un incontro interculturale, un'amalgama tra diversi.
Ci si deve chiedere: i nuclei familiari e la scuola sono pronti a collaborare e ad accogliere la “diversità” come un'opportunità antropologica ? Non sempre di questo compito si è tutti consapevoli; le forme ed espressioni della relazione tra diversi non è impostata, in modo scontato, per attuare l'inclusione.
La “cura” degli studenti che le figure genitoriali ritengono debba essere svolta dagli insegnanti a volte non corrisponde alle intenzioni dell'integrazione solidale. Gli insegnanti educano alla libertà ed alla responsabilità, altri disfano la tela policromatica. La scuola pubblica, costituzionalmente orientata e improntata ad un un principio etico interculturale, spesso viene smentita, nel suo operato, da altre più influenti agenzie diseducative.
Che si renda evidente grazie allo scotimento di Luis, senza ipocrisie o cedendo al fascino delle rimozioni, questo dato di fatto: la scuola pubblica è e deve continuare ad essere un ambiente interculturale - che va salvaguardato per quello che è - nel quale gli stereotipi, quasi come piante velenose, non devono mettere radici, strutturando percorsi di incontro e sviluppando il pensiero divergente. Il romanzo di Sepúlveda, classico della letteratura non solo per l’infanzia, racchiude una straordinaria visione della “civiltà”, dai toni tenui, struggenti, ma anche vigorosi; abbiamo tra le mani un capolavoro che rende protagonista il lettore sospingendolo a riflettere e ad agire inglobando esigenze culturali ed etiche, a partire dai binomi di notevole rilevanza quali identità/alterità, noi/loro, accoglienza/rifiuto (rif. a Rossella Caso, op. cit). La gabbiana morente è il mondo adulto, i gatti sono l'équipe educante protesa nell'attività di insegnamento, la gabbianella rappresenta la generazione prossima, esito e causa, all'unisono, dei miglioramenti a portata di mano.
Un testo così polisemico e immaginifico che, come nella migliore tradizione delle fiabe, si apre per regalarci un ventaglio di significati sui quali poter ampiamente rappresentare prioritariamente quelli smarriti e discutere poi come poterli recuperare.
Pertanto, così Kengah diventa paradigma di ogni migrante che — come tragicamente sappiamo — non riesce a realizzare il suo desiderio e trova la morte in circostanze avverse. L'altro interpellato e che interviene nella vita però offre una seconda opportunità: la gabbiana assegna agli altri il dono di un modo inedito e migliore di convivere fra diversi. La condizione di orfanezza della gabbianella che si crede un gatto; la società felina che si interroga su questa strana creatura ma non la discrimina, anzi la protegge e la guida; i cattivi topi che guardano con altezzosità e intolleranza ciò che i gatti stanno facendo: un microcosmo che replica simbolicamente ciò che accade nel mondo, le cui dinamiche evidenziano la difficoltà del confronto, del dialogo e dell’integrazione. Dunque un libro che può essere proficuamente — e, aggiungiamo, gioiosamente — usato per insegnare a pensare ai nostri figli e alunni in maniera critica e intelligente, a riflettere proiettando sentimenti ed emozioni in un mondo distante che tuttavia è vicino all’immaginario dei meno “educati”, i più giovani (rif. a Rossella Caso, op. cit).
Luis, in definitiva, esorta alla collaborazione nell'abbattere i muri. Collaborazione innanzitutto tra chi elabora pedagogicamente per mestiere l'inclusione, progetta la formazione posta nella concreta prassi della vita scolastica di ogni giorno e coloro che dovranno accogliere i frutti di tale prezioso lavoro.
Il lascito socio-culturale, di cui all'inizio, può essere riassunto in questa massima, nota allo scrittore cileno al quale siamo grati: “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Questa frase, resa celebre da Karl Marx, è in realtà presa dagli Atti degli apostoli (cfr. At 4, 35).
È Luis stesso a dircelo dando la parola alla vita, rispondendo alla domanda circa il ruolo della produzione letteraria (Intervista a Luis Sepúlveda di Elena Torre, cit. in nota) ed alludendo all'impegno nella costruzione di reti interculturali contro tutte le forme di oppressione, di colonizzazione e di razzismo: “La letteratura ha una missione etica o serve solo a raccontare storie ?” Credo innanzitutto che uno scrittore debba narrare non da un punto di vista individuale ma collettivo: deve avere come punto di partenza un generoso ‘noi’. L’opera di uno scrittore trova la sua più profonda giustificazione etica non tanto nelle cose grandi, ma in quelle piccole nella forma e grandi nel contenuto. Qualche anno fa uscivo da una libreria di Parigi e venni avvicinato da un ragazzo che avrà avuto vent’anni. Mi disse che aveva letto Un nome da torero, forse uno dei miei romanzi dove ho messo più di me stesso. Mi chiese se avevo un minuto da dedicargli e dal momento che ce l’avevo siamo andati a prendere un caffè. Vedevo che era molto emozionato, non riusciva a parlare così l’ho spronato a farlo. Mi ha raccontato di essere il figlio di Perez, massimo dirigente del Mir, ucciso dalla dittatura. Mi ha raccontato dell’odio che provava per suo padre perché era sempre assente, perché non lo accompagnava alle partite di calcio, non lo andava a prendere a scuola come tutti i suoi compagni. Leggendo il mio libro aveva capito chi fosse stato realmente suo padre e per cosa si era battuto, per cosa era morto. E allora non solo aveva capito, ma lo aveva amato, rispettato e di lui era divenuto orgoglioso. Ho realizzato proprio in quel momento la carica etica profonda della letteratura, un dovere a cui non posso certo sottrarmi”.
Giovanni Dursi © Aprile 2020
Docente M. P. I. di Filosofia e Scienze umane

1 Intervista a Luis Sepúlveda di Elena Torre, http://www.mangialibri.com/.
2 Si utilizzano le opere di E. Husserl in traduzione italiana, in questo caso con riferimenti alle edizioni della Husserliana. La traduzione italiana di Ricerche logiche è di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, 19823, vol. I,p. 267.

lunedì 13 agosto 2018

Claudia Provenzano, scrittrice di nitido talento

Claudia Provenzano è autrice del romanzo Le ragioni degli altri, ma non solo: ecco infatti la sua bibliografia.


Storia di Miryam (2007- pubblicato da Armando Curcio nel 2016)- vincitore del premio Franz Kafka Italia 2017, è la storia laica e profana della maternità di Maria di Nazareth, nota come la madre di Gesù, senza arrivare però a toccare il momento della natività. In questo libro la sua figura di donna è resa utonoma, completamente svincolata dalla quella del figlio cui è tradizionalmente sempre associata. Storia di Miryam è una ricostruzione letteraria della biografia di Maria e della sua gravidanza spiegata attingendo alle fonti storiche del Vangelo e dell’Antico Testamento, senza fare alcun riferimento a spiegazioni divine e spiritualistiche. Maria è la controfigura reale dell’icona eterea della Madonna della tradizione religiosa cattolica. E’ una giovane donna di spiccata sensibilità esistenziale, che si interroga sulle credenze e i costumi del suo tempo, sui principi teologici del bene e del male e sull’esistenza di Dio con la freschezza di un’intelligenza incontaminata, fino a sfidare con determinazione, non senza paura, le convenzioni e le regole imposte dalla cultura patriarcale dell’epoca. In questa storia si disegna il profilo di una ragazza di quattordici anni dai tratti umani e del suo amore per Gabriele, un ragazzo reale, in carne ed ossa. Si narra del concepimento naturale e illegittimo di un bambino e della difficile scelta che Maria, nel contesto della società ebraica antica, con la complicità di Giuseppe, l’uomo onesto, generoso e lucidamente razionale che le fu destinato in marito, compie per salvare se stessa e il suo bambino. 
Miryam è la ragazzina ebrea narrata nei Vangeli in pochi scarni passaggi il cui profilo e le cui vicende vengono ricostruite dall’immaginazione femminile di una donna contemporanea che vede nell’amore terreno il vero senso dell’esistere umano e che trova nel libero arbitrio l’esercizio della propria ragione in relazione a domande metafisiche e alla fede. Una storia universale che va oltre il tempo per raggiungere ed entrare in risonanza con gli animi delle donne di oggi. Storia di Miryam è la storia del concepimento del figlio di Maria come non si è mai sentita prima.  Una giovane donna, due uomini, una madre, un’amica in un intreccio emozionante di amore, passione e ribellione.

Le ragioni degli altri (2015- pubblicato da Armando Curcio nel 2018) – Si tratta di un moderno racconto corale, in cui le vite dei vari personaggi si intersecano fra loro scambiandosi i punti di vista, parlando uno dell’altro in un reciproco gioco di specchi teso a dar voce alle ragioni degli altri. Tuttavia i vari personaggi non hanno lo stesso peso, ma si irraggiano da un unico centro, quella della protagonista, Clodel e di suo figlio. Un libro articolato sia per l’intreccio dei personaggi sia per l’incastro delle voci narranti. Strutturato su continui sbalzi narrativi dalla prima alla terza persona, conduce il lettore nel labirinto di un gioco prospettico fatto di salti dentro e fuori la psicologia dei diversi caratteri. Rovesciamenti del punto di vista che hanno lo scopo di fornire una rappresentazione a tutto tondo del personaggio, descritto sia dall’interno della sua soggettiva consapevolezza, sia dallo sguardo esterno più completo ed oggettivo di un ipotetico osservatore. Sono qui rappresentate, in uno spaccato di grande attualità, varie esistenze: storie di donne che concepiscono da sole i loro figli con l’inseminazione artificiale e di donne ebbre di autonomia che consumano gelide esperienze di sesso in una notte, storie di relazioni omosessuali, di trans-gender, di bulli e vittime di bullismo, di autolesionisti, di uomini-oggetto sessualmente usati come dispensatori di seme e di uomini figli del cambiamento dei tempi non più capaci di gestire la loro virilità, fino a tematiche più tradizionali come il delitto passionale, la sottrazione della patria potestà, l’adozione, l’occultamento della paternità biologica, l’adescamento e l’abuso di minori. Temi talvolta drammatici non privi di accenti ironici ed umoristici e mai caratterizzati da risvolti nichilistici. Il ritmo del racconto è spesso incalzante e la narrazione viene qua e là insaporita da momenti spiccatamente erotici e talvolta truculenti.

Libri in corso di stesura finale

Figli mancati (2017) : affronta le storie difficili di una serie di ragazzi con famiglie problematiche il cui trait d’union è la comune professoressa di psicologia di un istituto professionale: i ragazzi frequentano tutti, taluni negli stessi anni, taluni in anni diversi la stessa scuola. Daniel, il bambino ‘esposto’, figlio abbandonato davanti al negozio di McDonald che viene adottato dal poliziotto chiamato al momento del ritrovamento. I tre fratelli Arianna, Iacopo ed Elia, i figli di Giunone, tre fratelli sottratti dall’assistenza sociale alla madre obesa dichiarata incurante per le sue difficoltà a muoversi. Amal e Ikram, le ragazze senza velo, due sorelle algerine nate in Europa punite dal padre con la rasatura dei capelli per il rifiuto del velo. Agnieszka, la bambina ‘selvaggia’, bambina ucraina ritrovata dall’assistenza sociale allo stato selvaggio nel fienile della casa del padre, suo unico famigliare. Liang, il ragazzo nella cruna dell’ago, una studentessa liceale cinese nata in Europa sottratta alla famiglia dal padre per lavorare nella fabbrica nonostante i suoi risultati eccelsi a scuola. Danush, il ragazzo dei materassi, la storia di un bambino immigrato ad un anno con la madre dall’Albania, che dopo 12 anni di stenti morirà lasciandolo sulla strada. Bianca, la bambina di cera, la ragazza di famiglia borghese che scappa di casa e diventa una punk’a’bestia,


Libri in corso di seconda stesura

Le gravi madri (2017): Tre madri e i loro figli. Madri figlie di altre madri. Madri presenti, assenti, troppo presenti, ossessive, noncuranti, ipercuranti. Storie di vita che si intrecciano in un arco di tempo che va dagli anni ’70 del Novecento ad oggi. Storie di carriere in ascesa o in rovinosa caduta, storie di eterni adolescenti alla ricerca del proprio posto nel mondo, storie di amori e delusioni, di fedeltà e tradimenti, di gravidanze non volute, di adozioni mai rivelate, di distruttive battaglie legali per l’affido dei figli, di perfidi scambi di neonati nella culla, storie di stalking e di molestie pedofile, di ragazzi abusati, storie di senzatetto e di persone ai margini della società, storie di donne sole e di donne sempre alla ricerca. Storie tutte a loro modo segnate dalle tracce che, pur senza volerlo, “gravi madri” hanno lasciato sui loro figli. (“I nostri genitori hanno determinato  le nostre ferite, le nostre ferite ci sono genitrici”. James Hilman.)

Libro in corso di prima stesura

Il corpo parla: la vita di persone il cui malessere esistenziale si esprime attraverso il corpo.

Convenzionali ha il piacere di intervistarla per voi.

Da dove nasce Le ragioni degli altri? Che cosa rappresentano gli altri per lei?

Questo romanzo nasce dallo stupore per Le vite degli altri, che poi, in effetti, era il suo titolo originale. Ad un certo punto mi sono resa conto di aver collezionato un ventaglio variegato di storie di vita, osservazioni e testimonianze che avevo avuto modo di raccogliere nelle mie diverse esperienze di viaggio, nei miei studi all’estero, nel mondo dell’arte prima e dell’insegnamento dopo. Ogni incontro era per me una sorpresa, una gemma che ad attenderne l’apertura sbocciava sotto i miei occhi e a scrutarla mi rivelava il suo meraviglioso interno. Reale e immaginario. Ogni esistenza è un mondo denso e intenso che l’esperienza tesse col filo di seta, prezioso e resistenze, dei vissuti. Di questi mondi della nostra contemporaneità io volevo raccontare, fantasticare sulle loro ragioni. Perché non c’è verità nella nostra conoscenza. Ciò che cogliamo nelle storie delle vite degli altri non è che un’interpretazione soggettiva fatta della materia delle nostre credenze, delle nostre aspettative, dei nostri desideri e delle nostre paure, che vi proiettiamo dentro. E il romanzo è lo strumento che meglio coglie questa verità: verità interpretata. Dunque volevo ricostruire, inventandone le ragioni, le cause, l’origine, quelle vite che incrociando sulla mia strada mi avevano attratta, ammaliata, accalappiata.  E volevo renderle prototipo. Caso particolare che testimonia di tanti casi analoghi e simili, che ritornano sotto altri nomi ed altre fisionomie, ma che alla fine nel loro nocciolo essenziale si ritrovano nel minimo comun denominatore di un modello universale. Storicamente universale. Poiché ogni esemplare di vita è il precipitato storico della sua epoca. La lesbica, il transgender, il bullo, lo stalker, l’autolesionista, il pedofilo, il tossicodipendente, l’immigrato, il senzatetto, le donne single, le madri che concepiscono con l’inseminazione artificiale, le famiglie omosessuali, ricomposte, monoparentali… sono figure legate al loro tempo. Alcune sono sempre esistite ma assumono caratteri diversi a seconda dell’epoca in cui vivono, altre sono novità assolute sorte dalle innovazioni tecnologiche e culturali della modernità.


Parlando con le persone, scavando nei loro racconti, interrogando e frugando nei loro vissuti ci si rende presto conto che ogni esistenza non solo è un microcosmo complesso, un coagulo affascinante di emozioni, pensieri, bisogni e aspirazioni tutto da scoprire, ma anche che a seconda del punto di vista da cui la si guardi assume colori e forme diverse. E questo è il personaggio di un romanzo: il prototipo di una vita nella quale i lettori possono ritrovarsi. Più ci si addentra nella vita di un individuo, poi, più ci si accorge che, attraverso una fitta rete di relazioni, si intreccia a quella degli altri individui. Quelle vite degli altri che tanto mi intrigavano diventavano così un poliedrico gioco di specchi in cui l’essere di ognuno si definisce non solo in base a sé stesso, ma anche in base a ciò che gli altri vedono di lui. Ecco allora Le ragioni degli altri.

Dov’è la ragione quando si dialoga, si litiga, ci si lascia?


La ragione ha il suo luogo nel soggetto. Dunque non c’è una ragione, ci sono una, nessuna, centomila ragioni. È proprio questo che ho cercato di esprimere nel mio Le ragioni degli altri. Ed ho cercato di farlo tanto a livello dei contenuti quanto a livello narratologico utilizzando una voce narrante poliedrica, che continuamente balza da un narratore esterno ad uno interno, da un narratore che si rende complice del lettore ad uno che lo tradisce e balza fuori dal noi che prima li univa svelandogli dettagli e retroscena di cui lui solo sa.

La nostra è una società capace di empatia?


No. Sebbene le teorie sperimentali della psicologia abbiano verificato l’esistenza di neuroni specchio, il che dimostrerebbe il fatto che l’empatia è innata, tuttavia ogni comportamento innato nell’uomo, a differenza di quello animale che è rigido ed immodificabile, è plastico, modificabile in base all’esperienza che compie. L’apprendimento, la capacità di cambiare adattandosi all’ambiente, è infatti la caratteristica peculiare dell’essere umano, che non a caso ha predominato e vinto, indiscusso dominatore del mondo, su tutti gli altri esseri viventi. Pertanto anche l’empatia lo è. Modificabile, intendo. Se è vero che ha una base innata è pur vero che è modificabile dall’ambiente, dunque dal contesto storico-sociale in cui si esplicita. Nel nostro, nella società occidentale liberista, forgiato sul principio morale – e biologico– dell’egoismo, dove cioè la sopravvivenza sociale giustifica il primato dell’io sugli altri, l’empatia trova il suo spazio d’esistenza nella sfera del privato, nell’intimo delle proprie emozioni e dei propri affetti, ma nei confronti dell’altro in senso puro – l’estraneo –  no.

Il suo romanzo tocca molti temi: che importanza riveste al giorno d’oggi l’amore?

L’amore nel senso tradizionale del termine, nel senso in cui il filosofo Platone ha disegnato per noi all’origine della cultura occidentale, l’amore ideale, solido, eterno, l’unione con la metà mancante che ci completa, al giorno d’oggi, è utopia. Letteralmente, sentimento senza luogo.  È miraggio, desiderio etereo cui si tende. Cui ci si avvicina, lo si sfiora, forse si riesce a toccarlo perfino, ma che non si riesce ad afferrare e tantomeno a trattenere. Nella contemporaneità, per dirla con il sociologo Bauman nella società liquida, l’amore è esso pure diventato liquido. Non dura, galleggia sulla zattera di un sentimento che ci transita da una fase ad un’altra della vita, si consuma, ci consuma, e muore. E poi viene sostituito con uno nuovo, insieme a noi, che rinasciamo a nuova vita.  La legge e i costumi, che si adeguano al movimento del reale, sono cambiati e ce lo consentono. Ci legittimano a viverlo in questo modo senza più paure e sensi di colpa.

Il sesso? Il desiderio?

Il sesso da sempre è la vitalità che innerva la carne del nostro essere animale. È desiderio, brama. È piacere che conduce al benessere se appagato, frustrazione che conduce a malessere e all’aggressività se inappagato. Il sesso in senso più genuinamente freudiano è il desiderio per eccellenza, è l’energia che sta alla base di ogni nostra azione, di ogni nostra scelta, è ciò che ci muove, ci scuote, sbattendoci poi vilmente a terra o lanciandoci, sublimati, verso il cielo. Dipende da come, verso cosa canalizziamo quell’energia. Senza questa energia psico-sessuale non ci sarebbe l’arte (energia canalizzata nella creatività), la scienza (energia canalizzata nell’attività intellettuale), il volontariato sociale, la religione perfino. Il desiderio, con Freud, e con tutta la psicanalisi che ne segue, è sessualità. O meglio la sessualità non è altro che desiderio. Libido. Eros. Energia psichica che scorre nelle vene del nostro corpo. Perché corpo e psiche sono un tutt’uno. Non c’è l’uno senza l’altro. Non c’è vita senza desiderio. Ma nella nostra società della mercificazione, dove tutto è ridotto a merce, è anche la più preziosa merce di scambio e il più potente strumento di ricatto.

La colpa?

Colpa o senso di colpa? La colpa è il venir meno di una responsabilità che si è coscientemente e liberamente assunta. La si può riconoscere. La si può non riconoscere. Gli altri possono imporcela, scaraventandocela addosso come proiezione della loro propria assunzione di responsabilità, che però non ci riguarda. In questo senso, allora, ci sono due tipi di colpa. Una in senso morale, interna alla coscienza, quella che si è formata in noi con l’educazione dei genitori, che è puramente personale e non perseguibile. E c’è una colpa in senso legale, convenzionale, stabilita, oggettiva, quella che serve alla conservazione della società, e che perciò viene perseguita con la legge. Le due colpe spesso entrano in conflitto, si pensi al mito di Antigone.  È  ciò che sta alla base della distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. Il senso di colpa invece è quel peso opprimente con cui la nostra coscienza morale ci schiaccia per frenare le nostre pulsioni (quell’energia sessuale di cui si parlava sopra) quando queste non riescono ad essere canalizzate e dirompono allo stato puro, nella loro più cruda animalità. Di questa animalità ho parlato in Le ragioni degli altri attraverso un paio di personaggi secondari, che compaiono fulmini e… fulminanti, proprio per la truculenza della loro pulsione non governata.

L’ossessione?

L’ossessione è la fissazione assoluta e coatta su un’idea. Alla sua origine sta ancora quella pulsione erotica, di cui abbiamo parlato prima, desiderio, mancanza che chiede di essere colmata. Quell’ energia psichica che muove, smuove, ci agita e percuote, che non può essere ignorata, ma che nondimeno può essere indirizzata. Può essere diretta verso oggetti vili e allora diventa malattia, pericolosa nevrosi, oppure verso oggetti nobili e allora diventa fonte di creatività e devozione. L’ossessione è quella che spinge ai suoi delitti il serial killer, ma è anche quella che muove in modo sorgivo la mano dell’artista, dello scienziato, del missionario. L’ossessione è il rapimento della psiche da parte di un’idea che dapprima si insinua e poi si insedia nella coscienza. È un assedio invadente e tenace, prepotente ed esondante. L’idea ti chiama a sé con seduttiva dolcezza, ti solletica l’orecchio, sussurra, suggerisce, ti invita a seguirla, e poi ti cattura. Pretende tutto per sé. Attenzione, tempo, cura. È tirannica come un neonato. (Ma ti è cara,  la ami). Non ti lascia mai, di giorno, di notte, entra nelle tue azioni, nei tuoi pensieri coscienti, in quelli inconsci, anima i tuoi sogni, ti penetra fra le fibre del corpo, si fa largo sgomitando in mezzo alle tue relazioni. Non hai un momento per i tuoi figli, per il tuo compagno, per i tuoi amici, non per Gabriele Ottaviani che ti chiede un’intervista. Non ti dà tregua. Finché non l’hai divorata, spolpata, ridotta al midollo, finché non l’hai consumata, finché non ne è rimasta neanche una briciola, non puoi fare altro.

Poi, ti senti bene. Come dopo un parto.

La violenza?

È ancora una pulsione. È una delle modalità in cui la nostra energia psichica si manifesta.  Violenza è la pulsione sessuale (desiderante, libidica, erotica) che non riuscendo a trovare una via ‘umana’ per sfogarsi in modo alternativo, si sfoga in modo arcaico, bestiale. La violenza non è solo fisica ma anche psicologica, e questa, fra le due, di certo è la più subdola perché non porta la stigmate di un livido, di un’escoriazione, di un braccio rotto, e nondimeno comporta sofferenze anche più gravi.

La paura?

La paura è il senso di impotenza di fronte ad un pericolo che mette a rischio la nostra vita, pericolo individuato che sappiamo riconoscere come tale e dal quale possiamo pertanto tenerci a distanza. La paura non è dei vili è degli oculati, è lo strumento di cui ci equipaggia la biologia per difenderci dal rischio e tener salva la nostra vita. Chi non ha paura non è coraggioso come si crede, bensì un avventuriero che non ha cara la vita.

La speranza?

La speranza è il peggiore dei mali. Fra tutte le emozioni e i sentimenti umani è quella che resta sul fondo del vaso di Pandora, proprio perché la più temibile. La speranza induce ad attendersi qualcosa di meglio eppure è vano aspettarsi un futuro migliore perché nel momento in cui si realizza ci delude sempre, perché nella speranza noi proiettiamo tutti i nostri desideri impossibili.  E la delusione ci abbate, ci schianta al suolo, ci ammazza. Tuttavia l’uomo non può vivere senza questo effimero sentimento perché è ciò che ci proietta verso il futuro e, come ci ha insegnato l’esistenzialismo, non c’è presente senza tensione verso il futuro.

Il dolore?

Il dolore è mancanza. Vuoto, lacuna, fame. È il bisogno non appagato, è frustrazione, gioia mancata, privazione. È illusione delusa.

Il pregiudizio?

Il pregiudizio è uno stereotipo sovraccaricato di un giudizio di valore assoluto. Buono-cattivo, bello-brutto, sano-malsano, giusto-ingiusto. Lo stereotipo non è altro che uno schema irrigidito che non ammette eccezioni.  Se lo stereotipo è il cemento armato nel quale rimaniamo imbrigliati poiché inibisce la nostra curiosità, la spinta ad esplorare e a conoscere tutto ciò che è nuovo, ovvero ciò che fuoriesce dagli schemi, il pregiudizio ci autorizza a disprezzare, ovvero allontanare ed annientare, ciò che è diverso da noi. Nuovo e diverso si identificano nella nostra mente nel minimo comun denominatore di ciò che è ignoto e che in quanto tale temiamo. Tant’è vero che quando ci avviciniamo e curiosi ci lasciamo andare all’esplorazione di ciò che non conosciamo ecco che, visto da vicino, ci diventa familiare e non ci spaventa più. Stereotipi e pregiudizi nascono dalla paura dell’ignoto e del diverso, e dal bisogno di autoaffermazione di chi, sapendo di valere poco o nulla, non trova alto modo di prevalere se non affondando gli altri. Facile.

Perché scrive?

Scrivo per eccesso di libido. Sempre in senso psicanalitico, intendo. Desiderio, voluttà, bisogno vitale. Scrivere è una forma d’arte. Tutta l’energia che a fiotti mi scuote, sopraffacendomi con un eccesso di vitalità, io la scarico nello scrivere. Questa è la fonte del perché su cui mi interroga. La meta è il lettore. La possibilità di entrare in risonanza con gli altri attraverso le mie parole, veicoli di umani sentimenti e pensieri e desideri che agogno condividere con gli altri. Cosa possibile se il personaggio funziona, se è credibile, se è riuscito. Per dirla con Hemingway, un personaggio è riuscito se riesce ad essere umano. Solo così si innesca quel fenomeno psicologico definito identificazione.

Qual è il ruolo dello scrittore nella contemporaneità?

Bella domanda. Qual è il ruolo dello scrittore nell’epoca contemporanea non saprei dirlo. Ci sono tanti ruoli, così è sempre stato, in base alla poetica letteraria che lo ispira. Non c’è un ruolo che la società gli possa delegare, non in un paese libero almeno. Non c’è un unico ruolo che i lettori gli richiedano di svolgere perché ogni lettore è diverso dall’altro e cerca nella lettura cose diverse. Potrei dire quale vorrei che fosse il mio. Cioè: il narratore delle vicende umane.  Vorrei riuscire, e vorrei riuscirci davvero bene, a dare voce alle emozioni, ai pensieri, ai sentimenti, alle ambizioni e ai cedimenti che impregnano quelle vicende e farne di ognuna un prototipo nel quale i lettori possano riconoscerci. E perciò sentirsi meno soli e meno insignificanti nel marasma e nell’infinita sconfinatezza dell’esistenza. Io cerco questo.

Qual è la situazione culturale italiana?

Domanda da porre ad un sociologo. Per poter rispondere dovrei fare una ricerca storica e sociale, attingere alle statistiche di enti accreditati, rielaborare tutti questi dati raccolti, rifletterci sopra e infine riuscire ad elaborare una tesi mia. Cosa che richiederebbe troppo tempo ed io il mio lo impiego per scrivere e per compiere ricerche sui soggetti di cui scrivo. Se mai scriverò un libro che abbia a che fare con la situazione culturale italiana le risponderò.  (ride)

Il libro e il film del cuore, e perché?

Ho un libro ed un film del cuore per ogni fase della mia vita. Nel momento in cui ho scritto Le ragioni degli altri il libro era Il bacio della medusa di Melania Mazzucco, perché ho sentito risuonare nella sua la mia scrittura: quella tensione della creatività per cui le parole si riversano in modo alluvionale dall’anima. L’abbondanza delle emozioni che tracimano dai pensieri, la ricchezza della frase non secca, non anoressica, ma grassa di aggettivazioni, di figure retoriche, di ridondanze, di attenzione alla melodia, alla sonorità delle parole. Affinché affiorino sfumature, slittamenti di senso, evocazioni. Un romanzo in cui la potenza della parola sia affidata alle briglie capaci dello scrittore, pur senza togliere spazio alla libertà di immaginazione del lettore. Perché non è solo con l’asciuttezza dell’eloquio, con l’alveo vuoto della parola, che si può scatenare l’immaginazione. Concepisco il romanzo come il luogo in cui chi legge può scivolare nelle parole come sulle onde di un mare che non si assopisce, indugiando su quelle che più sente affini, affezionate o affascinanti per usarle come trampolino per la propria creatività immaginifica e lanciarsi “verso l’infinito ed oltre” (per citare un famoso cartone animato). Il film, per sua natura più sintetico ma anche più visivo, non è stato uno solo. Ma in quel periodo pensavo molto a America oggi e The Hours, per l’intreccio dei personaggi, per la molteplicità poliedrica dei punti di vista, per l’architettura narrativa e a Pulp Fiction, per gli aspetti di violenza parossistica cui mi sono ispirata.

By Gabriele Ottaviani

Convenzionali

lunedì 12 marzo 2018

Nero – Dramma in provincia. Giancarlo Giuliani racconta

Il nuovo social thriller di Giancarlo Giuliani con la non troppo amata Pescara attuale sullo sfondo

Giancarlo Giuliani, è nato a Pescara in anni troppo lontani per essere citati”, mi dice con consueta letizia in grado di contagiare l’umore e rasserenare, guardandomi dritto negli occhi con iridi grigioazzurre altrettanto sorridenti che comunicano energia ed intraprendenza.
I suoi limpidi occhi esprimono la sua filosofia di vita di scrittore, poeta, letterato, grecista, latinista, cultore infaticabile di lingue e letterature straniere contemporanee, traduttore, saggista, esperto d’editing editoriale, insegnante di Lettere e di scrittura creativa presso i Licei, scopritore infaticabile di giovani talenti autoriali.
Pur risiedendo nel capoluogo adriatico, non ha mai reciso il profondo legame con l’Aquila, martoriato centro dell’entroterra appenninico, che frequenta assiduamente, non disdegnando di recarsi dovunque possa saziare la sua fame di esperienze.
Durante gli anni del Liceo viene segnalato per le sue abilità nella scrittura. Un piccolo volume di poesie esce quando aveva 12 anni. Viene da famiglia benestante. Si laurea in Lettere classiche (vecchio ordinamento) all’Università D’Annunzio di Chieti con il massimo dei voti e la lode. Discute una tesi in Sociologia dell’Arte. Durante gli anni dell’Università si appassiona alla lotta politica e si avvicina a Lotta Continua. Consegue l’abilitazione all’insegnamento in Lettere classiche, vincendo cattedra in Concorso nazionale. In precedenza, aveva conseguito l’abilitazione in Lettere per la scuola media, sempre con il massimo punteggio. Dopo aver insegnato Fotografia e grafica nei corsi professionali della Regione Abruzzo, intraprende l’insegnamento nei Licei, ininterrottamente, dal 1979 al 2014.
Giancarlo è marito di Annarita, che condivide le idee politiche di fondo. Laureata in Filosofia, ha nutrito passione per il vecchio PCI, non essendo convinta delle modalità di lotta dei gruppi extraparlamentari. Si possono immaginare le lunghe discussioni familiari.
L’incontro con Giancarlo Giuliani, intellettuale e scrittore, è occasione ghiotta, degustando insieme un ottimo caffè, per comprendere meglio il perché si stia dedicando, nelle sue ultime prove letterarie, dopo originali, suggestive opere narrative e poetiche, ai temi della criminalità e situazioni appartenenti alle mutevoli e indecifrabili condizioni di vita del nostro tempo. Infatti, a Gennaio di quest’anno, Giuliani pubblica “Nero – Dramma in provincia” nella collana “Giallo” delle Edizioni Tabula fati (Chieti, pagine 160, € 13), presentato Venerdì 16 Febbraio presso la sala Figlia di Jorio del Palazzo delle Provincia di Pescara.
Con quale termine si può opportunamente indicare l’ultima opera di Giuliani ? Espressione della letteratura poliziesca? Sembra, leggendo il romanzo, riduttivo. Confacente pare descriverlo con una «etichetta» non specifica; in effetti, la narrazione di Giuliani abbraccia tutte le tipologie di questo genere letterario – spesso fra loro molto diverse: mystery, procedural, legal thriller, spy-story, hard-boiled ecc. – che nei paesi di lingua anglosassone viene denominato thriller, detective o crime novel, in quelli di lingua tedesca kriminalroman, francese noir o polar, spagnola novela negra. Come è stato correttamente detto, l’avvincente trama, propone “la vita di una tranquilla città di provincia sconvolta da una serie di omicidi, opera di un insospettabile serial killer; dalla fabula, presentata all’inizio dal punto di vista del killer, si scivola presto verso un’analisi delle radici di scelte così estreme. Il libro è la rappresentazione delle parti non conciliate di ciascuno di noi, delle cause dei nostri disagi, nel momento in cui esse emergono con forza e spingono a comportamenti solo apparentemente aberranti”.
Nel presentare questo genere di libri, certo, non va commesso l’errore di svelare, non bisogna cadere nella tentazione di descrivere oltremisura. Tuttavia, il libro in questione – che a noi piace definire social thriller – è una scoperta e – va detto con franchezza – non solo nel genere “giallo”, mediante le rivelazioni e i colpi di scena che, susseguendosi con andatura incalzante, nella loro concatenazione in tre capitoli (“Bisturi”, “L’ombra di N.” – già pubblicati autonomamente ed ora rieditati in “Nero”– e “Il ritorno di Gaia”) divengono fondamentali per il coerente sviluppo della trama.
Il disegno narrativo, in realtà, fin dalle prime pagine, svela una seconda dimensione, incuriosendo ulteriormente il lettore, perché penetra con efficacia – attraverso sublimi pennellate retoriche – nell’antropologia d’una relazionalità provinciale, quella pescarese nella fattispecie, assimilabile, nel “male”, ai non-luoghi metropolitani della contemporaneità globale.
L’impianto del romanzo, senza smarrire la lucidità scenografica, si apre al realismo sociale (le allusioni sono, da un lato, all’opera pittorica di Lorenzo Viani, 1881-1936, dall’altro al legal thriller “La grande truffa” di John Grisham, edito da Mondadori, da Gennaio nelle librerie) con l’ideazione di approfonditi elementi psicologici e culturali dei protagonisti che captano dalla cronaca omicidiaria pescarese di questi tempi interessanti prototipi. Con l’ambigua e carsica reciprocità dei contegni dei personaggi, Giuliani ci restituisce un vitale affresco delle miserie umane e di un’etica individuale che da esse, caparbiamente, risorge, quasi che la degenerazione, in alcune persone, incontrando forme di vita “istituzionali” e un “dover essere”, assuma sembianze di mani tese per il riscatto.
Come afferma con cura Maria Elena Cialente, a proposito di “Nero”, «c’è un elemento di raccordo che accomuna la vita dei protagonisti di Nero, un fil rouge che va oltre la linea di sangue lasciata dal bisturi di Marco Naldi e di Gaia Altieri, così come da alcuni personaggi secondari: il dolore. Un dolore sordo, rancoroso: il dolore della perdita, delle aspettative tradite, della violenza ancor più atroce e ingiustificabile se agita da chi, al contrario, avrebbe dovuto proteggere. Ma è anche un dolore morale, che nasce dalla sete di giustizia, dal bisogno di ricomporre in una struttura più accettabile e comprensibile, le dilanianti incongruenze del mondo, dal tentativo di addomesticare in qualche modo il male, anche qui spesso concluso nel cerchio della sua ottusa banalità. La sete di vendetta accomuna i personaggi la cui condotta può suscitare sdegno nel lettore, ma anche un ufficiale di polizia che non riesce più a domare il fantasma che lo strazia dentro: la frustrazione dovuta al continuo procrastinarsi di una giustizia che tarda a manifestarsi diventa metafora dell’universale impossibilità di ricondurre la vita ad una sequenza di fatti comprensibili e, in qualche misura, accettabili. E in questo “pasticciaccio” di gaddiana memoria che è la vita, il “giallo” si pone come strumento gnoseologico e di ricerca di un ordine. Tuttavia in “Nero”, con disincantato distacco, il narratore ci chiarisce da subito chi siano i responsabili e forse anche le loro motivazioni: il gomitolo aggrovigliato che lega i delitti efferati si dipana dinanzi agli occhi del lettore con armoniosa chiarezza. Il narratore onnisciente, che sa più dei suoi personaggi, lascia solo il commissario Giorgi dinanzi al mistero del movente. Ma il lettore è davvero tranquillizzato dalle spiegazioni fornite? C’è veramente un modo per rendere comprensibile e accoglibile nella dimensione dell’umano il male, sia pur frutto della sete di giustizia? Giuliani sembra lasciarci soli dinanzi a questi interrogativi: Marco Naldi si riduce ad una creatura fragile e indifesa che sarà sacrificata dalla donna che crede di amarlo; Gaia Altieri, la cui bellezza è solo apparentemente stridente con il gorgo nero che si trascina dentro, vive la sua stessa bellezza come una dannazione. Donna fatale e strega, Gaia non avrà la consolazione del riscatto e del risarcimento affettivo a cui in realtà ambisce, perché privata anche dell’unico, vero bene in cui le sia capitato di imbattersi dopo l’incontro con Ludovica. Ma Gaia Altieri non avrà neanche l’opportunità di redimersi e pentirsi, di fare del luogo di reclusione uno spazio in cui finalmente confrontarsi con il mostro che, come in ognuno di noi, le si dibatte dentro. Romanzo avvincente, capace di inchiodare il lettore fino all’ultimo rigo, “Nero” è una storia di solitudini che si incontrano senza riconoscersi e illuminarsi: un tentativo di discesa nelle paludi tetre e maligne dell’animo umano da cui non si fa ritorno senza la guida di quella ragione e di quella capacità di empatia che, seppur sotto scacco, si pongono come unici strumenti di riduzione del mondo e della collettività a qualcosa di quantomeno tollerabile».
Avviamo il dialogo.
Gentile Giancarlo, puoi parlarmi della tua formazione professionale, quali sono e come sei arrivato ad acquisire le tue competenze?
Mi chiedi una risposta impegnativa. Tutto in realtà ha avuto inizio quando, avevo 6 anni, mio padre mi arredò la stanza con due pareti a libreria, piene di libri. Non disse nulla, non diede prescrizioni. Un giorno mi trovò seduto a terra mentre strappavo pagine illustrate da un prezioso (sul momento ovviamente non me ne rendevo conto) volume sui miti germanici. Invece di inquietarsi, si sedette a terra vicino a me e mi aiutò a strappare le pagine che volevo poi conservare. Fu quello il momento in cui cominciai a trovare familiari i libri. Ben presto sono diventato un lettore direi vorace.
La scelta degli studi classici e l’interesse per la Sociologia vanno di pari passo con la passione per l’Astrofisica: fin da relativamente piccolo non ho mai concepito barriere tra le varie branche della cultura.
Dove vivi e lavori?
Vivo a Pescara, città che ben poco amo, e lavoro, adesso che ho lasciato l’insegnamento, come editor e consulente di alcune case editrici.
Leggendo alcune tue opere letterarie e poetiche, s’avverte la sensibilità artistica, coniugata ad una solidissima erudizione, tale da generare un’esaltazione della parola e dell’immaginario narrativo; quale delle due attività che ti sono proprie – l’insegnamento e la scrittura – prevarrà sull’altra ? Oppure saranno sempre complementari?
Viene subito da dire “complementari” e probabilmente è così. Ma alla radice di tutto c’è il fatto che concepisco la cultura come condivisione. Se dalla vita ho, senza presunzione spero, avuto il dono della cultura, considero mio dovere aiutare chiunque ne abbia voglia a trovare la propria strada. Di qui la scelta dell’insegnamento, dopo aver considerato la via della vita politica in gruppi extraparlamentari.
Come è nata l’idea di realizzare “Nero – Dramma in provincia”, che poi non è romanzo del tutto nuovo, considerando “Bisturi” e “L’ombra di N. – Radiodramma in 26 quadri” (2015) che sono una sorta di prologo, editi entrambi per Tabula fati?
Per caso, credimi. Non avrei mai pensato che la mia scrittura potesse prendere anche questa direzione. Ho letto un ponderoso volume, in americano, sulla “mente” dei serial killer e ho pensato che, nel solco del mio interesse per la natura umana, potesse essere interessante costruire delle storie sull’argomento.
Dopo le impegnative e riuscite prove di poesia (ricordiamo, tra le ultime raccolte, “Nel mio regno non vi sono filosofi“) e dei romanzi storici “Diospolis. Una storia del VI secolo a. C.” e “Nemesis. Una storia del tempo antico”, come mai la scelta della letteratura poliziesca – ut ita dicam – e di un aggancio a temi sociali e psicologici per raccontare tragedie umane che sono prodotte nella vita di relazione, spesso nascondendo la piena trasparenza delle personalità in gioco?
È un po’ quello che ho detto prima: non pongo limiti di alcune genere, così ritengo che occorra considerare tutti i lati della natura umana, anche quelli più oscuri. Inoltre, a ben rileggere “Diospolis” e “Nemesis”, si potrebbe notare che i lati cosiddetti oscuri dell’animo umano sono affrontati anche in quei due romanzi, sia pure con la distanza data dall’ambientazione.
Non piazzo barriere tra la realtà sociale, in tutte le sue dinamiche e l’apprezzamento per le libere forme d’espressione culturali quali l’arte, la letteratura, il teatro, il cinema che portano luce e conoscenze, a volte sublimando le tangibili vicende umane ascendendo a grande altezza morale e spirituale; ritengo che occorra considerare tutti i lati della natura umana, anche quelli più oscuri; la scrittura si presta a questa dialettica realtà-immaginazione, la prima, caratterizzata soprattutto per la varietà dei temi, la seconda, con variegate scelte formali, che permettono di declinare in modi diversi il richiamo alla realtà; le possibilità espressive sono davvero tante.
Diventato di uso comune a partire dal 1929, anno in cui Lorenzo Montano e Luigi Rusca diedero vita, per Mondadori, alla collana «I Libri Gialli» il termine thriller può essere riferito a “Nero – Dramma in provincia” oppure non contiene tutto della narrazione; meglio designare questa creazione con ciò che appare, avvinti dalla trama, l’intento dell’autore: un social thriller con la non troppo amata Pescara attuale sullo sfondo?
Hai proprio ragione. Mi piace la definizione di “social thriller“. Aggiungo solo che ritengo Pescara una città che mi piacerebbe non fosse entrata, per varie ragioni, nella mia vita. Ma va bene così, era scritto, probabilmente.
Pagina dopo pagina, in “Nero” si manifestano verità ultime che sempre sfuggono, o forse, che si preferisce non scoprire, temendo di trovare in esse anche la propria. Giuliani costringi il lettore a una scelta decisiva: continuare a seguire le tracce, conducendo una vita di impulsi e razionale furbizia, emancipandosi da una vita destinata alla solitudine, oppure tentare finalmente un’autenticità limpida, faticosa, una coerenza negli affetti, una lealtà che tuttavia pare ormai di non poter recuperare votandosi ad un’idea d’umanità – proprio perché socialmente determinata – non edulcorata, mai pregna solo di buone intenzioni o di mercantile redenzione. Ho interpretato bene?
Talmente bene che mi piacerebbe che mi scrivessi un’ampia recensione. Non mi permetto di dire che io sia riuscito in quello che tu metti in evidenza, ma certamente ve ne era l’intenzione.
In contrapposizione al noir, quando le indagini raccontate portano all’individuazione e all’eventuale punizione del colpevole dei crimini narrati, l’intreccio di “Nero – Dramma in provincia” lascia vedere altro, quell’altro che colora l’esistenza di ciascun protagonista del dramma esistenziale. Un cammino narrativo che conduce dal male al bene ed anche, viceversa, dal dolore del male all’accettazione della personalità sociale che codetermina gli Io. È così nelle tue intenzioni?
Non avevo un’intenzione precisa, all’inizio, ma credo che alla fine sia venuto fuori proprio quello che tu sottolinei. Una volta scritta, infatti, la prima scena, è stato come se si aprisse una diga. I tre capitoli di “Nero”, secondo alcuni tre brevi romanzi, in verità, sono stati scritti in meno di 20 giorni. Ovvio che poi vi sia stato un lavoro attento e artigianale, uso questo termine con orgoglio.
Sempre a proposito del nuovo libro “Nero – Dramma in provincia” appena presentato a Pescara (17.02) ed uscito a Febbraio che cosa puoi dirci che non sia stato già detto dai recensori?
Che era nato per essere letto ad alta voce. Era la mia aspirazione più vera, ma non ho accesso alle sacre porte della radio.
A proposito di nuove idee e progetti, qualcosa è trapelato, come sta andando la stesura della nuova silloge? Puoi fornire, donare qualche anticipazione? Che collegamenti ha con le altre prove d’autore? Il ruolo di Professore l’hai dismesso? Puoi parlarne in dettaglio?
Il poemetto che sto scrivendo parte da alcuni stimoli della lingua e cultura islandese, altra mia passione ancora “in atto” e segue il percorso iniziatico di un viandante alla ricerca di se stesso. Il titolo è “Poema minimo”; è un poema in realtà non tanto minimo, visto che consta già, a oggi, di 842 versi. Racconta l’itinerario mentale, tra sentieri diritti e ritorni improvvisi, di un viandante in cerca di risposte che sa già che non troverà mai. Eppure, sente che l’essenza della vita, la sua stessa individualità, dipendono proprio dal cercare, indipendentemente dalla fiducia nell’esito. C’è influenza della lingua e della cultura norrena, di cui sono appassionato, ma anche l’eco della mia ineliminabile curiositas per tutto ciò che non conosco. Non l’ho scritto nel curriculum, ma sto studiando anche l’islandese.
Se si sceglie la professione di insegnante per un forte bisogno interiore, si resta professori per la vita. È così per me. Ho rifiutato di occuparmi di un’azienda di costruzioni elettriche e telefoniche, di famiglia, per ESSERE, non “fare” il professore di lettere. Continuo con corsi di scrittura e laboratori vari, smetterò solo se le circostanze me lo imporranno.
In merito alla professionalità docente pensi che si possa aprire a nuovi orizzonti anche mentali nella scuola di oggi?
Sono pessimista. DEVE aprirsi, ma ci sono forti resistenze in chi ha scelto la comoda routine invece che il mettersi ogni giorno in gioco. Così, la vita scolastica diventa spesso vuota ripetizione, senza che si voglia (non dico “si riesca” perché spesso ne manca l’intenzione) darle vita aiutando giovani menti a trovare se stesse.
Usi dei programmi o tecniche di scrittura creativa per realizzare i tuoi progetti?
Assolutamente no. La stessa parola “creativa“, associata a “scrittura” è per me quasi inconcepibile. La creatività non si apprende e i programmi-guida per la composizione, quasi tutti americani, tendono a costruire stereotipi. Custodisco in me l’antica vocazione all’artigianato, al limare quella improvvisa esplosione nella mente che è un primo verso o un’idea.
Quali sono i libri o documenti che approfondisci o che leggi come interlocutori dello sviluppo del tuo pensiero letterario?
Non so rispondere. Sono un lettore vorace, credo di averlo già detto, ho letto più di duemila libri e a casa ne ho ancora 2-300 da leggere. Oltre a ciò, ho cercato esperienze di vita che mi insegnassero a “stare” nel mondo e tra le persone. Ho una fortissima e incancellabile vocazione alla condivisione e, già detto da altri, non so essere “felice” se vedo qualcuno che non lo è. Bisogna lottare perché tutti abbiano uguali possibilità. Si viene spesso sconfitti, ma la lotta, in questo senso, ha comunque valore di per sé.
Un’ultima domanda: cosa pensi degli scrittori italiani contemporanei viventi e, più in generale, dell’attuale produzione letteraria nazionale?
Se si riesce a distinguere il libro da supermarket e a isolare quello che nasce da un vero bisogno di scrittura e di espressione, probabilmente si riesce a trovare anche molto di buono, ma nessun discorso sul libro può prescindere da considerazioni sui canali e sulle motivazioni commerciali, sull’accesso ai mezzi di comunicazione, insomma a molto di ciò che circonda la scrittura e che spesso, a mio parere, la mortifica riducendola a una splendida confezione senza però vero contenuto.
Termina questa lunga chiacchierata con Giancarlo Giuliani che ringrazio pubblicamente, anche a nome del team di Mentinfuga, per avermi concesso un po’ del suo tempo.
Giovanni Dursi
Chiunque voglia approfondire e discutere con Giancarlo Giuliani può mettersi in contatto con lui tramite il suo web site Verb-um (http://www.giulianigiancarlo.it/).
Bibliografia dell’autore
Dentro e oltre le parole (antologia/rapporto), Palermo 1980
Quotidiano indicibile (antologia/rapporto), Palermo 1980
Quale immagine? (Note sul ruolo della fotografia nella società attuale), Pescara 1980
Ulisse non è mai partito (poesie), Roma 2008
Liber Alchemicus (poesie), Pescara 2010
Libro Perduto (poesie), Pescara 2011 (in parte tradotto in lingua rumena)
Bisturi (Radiodramma in 30 quadri), Pescara 2011 (ora in Nero (Dramma in provincia), Tabula fati, Chieti 2017)
Caos Ipermetrico (poesie), Tabula fati, Chieti 2012
Diospolis. Una storia del VI secolo a.C., Tabula fati, Chieti 2013
Nel mio regno non vi sono filosofi (poesie), Tabula fati, Chieti 2017
L’ombra di N. (Radiodramma in 26 quadri), Tabula fati, Chieti 2014 (ora in Nero, Tabula fati, Chieti 2017)
Nemesis. Una storia del mondo antico, Tabula fati, Chieti 2016
Nero (Dramma in provincia), Tabula fati, Chieti 2017
Traduzioni:
Alano di Lilla, Quasi Liber, IkonaLiber, Roma 2013
Alano di Lilla, De Planctu Naturae, IkonaLiber, Roma 2013 (e-book)
Arthur Schnitzler, Der Schleier der Pierrette, IkonaLiber, Roma, 2014

By mentinfuga - Marzo 2018