menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
Visualizzazione post con etichetta Tecnologie. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Tecnologie. Mostra tutti i post

mercoledì 11 aprile 2018

Pensiero critico - Media education, come creare il “cittadino scientifico” nella società digitale

La Media Education concorre alla formazione del “cittadino scientifico” della network society proprio perché l’uso delle nuove tecnologie deve comportare un’attitudine critica e riflessiva nei confronti delle informazioni, l’uso responsabile dei mezzi di comunicazione, un interesse a impegnarsi in reti con scopi culturali.

Il pioniere degli studi sulla comunicazione sociale e precursore del World Wide Web, Marshall McLuhan, circa la non neutralità dei mass media affermò cheil medium è il messaggio” [1]. In altri termini: un insieme di risorse informative che la rete rende disponibili prevede una comunità di individui che usa consapevolmente Internet per comunicare, informarsi, apprendere ed effettuare transazioni; prevede un’organizzazione culturale delle conoscenze e competenze, immanenti all’insieme di risorse informative rese fruibili dalla rete, che possa esprimersi in modalità coscienziali.

La network society e le contraddizioni tra “pensiero” e “applicazioni”

Le contraddizioni tra procedure, tecnica (funzionalità) e pensiero critico (abilità che permette di indagare cercando riscontri oggettivi e di verificare le informazioni acquisite, di valutare e interpretare dati e esperienze al fine di giungere – autonomamente – a conclusioni chiare e precise), tra “efficacia operativa” e “razionalità” e, generalizzando, tra “lavoro manuale” e “lavoro intellettuale”, non sono storicamente una novità. Tuttavia, l’asse portante dell’attuale network society, sembra divaricare in modo accentuato la “fruizione” dal “senso”, il “lessico” dalla “semantica”, permeando le relazioni sociali con la peculiare dicotomia, pedagogicamente nociva per lo sviluppo culturale della società, tra le “abilità” e le “esperienze della riflessione”.

Nella contemporaneità, essere edotti sull’evidente contraddizione tra il “pensiero”, generato e sostenuto dal sistema tecnico-economico, e le “applicazioni” è di fondamentale importanza per saper valutare le informazioni che si vogliono gestire e ben progettare le azioni che si intendono intraprendere. Si tratta non di una velleitaria singola life skills, ma di un insieme organico di sotto skills che portano il soggetto a saper svolgere diverse operazioni:
  • la chiarificazione come capacità di vagliare e mettere a fuoco la questione e attribuire ad essa un significato
  • l’analisi come capacità ad articolare la problematicità della questione nei suoi aspetti diversi, analizzandone anche i punti impliciti
  • la valutazione, il saper accertare il valore delle fonti di informazione verificandone l’attendibilità, l’accordo tra esse, la credibilità
  • l’influenza come capacità di ampliare i dati di partenza, tramite inferenze e deduzioni
  • il controllo come abilità nel saper monitorare il ragionamento durante tutto il processo

Capacità di critica e gestione delle tecnologie: la Media Education

L’assenza della capacità di critica – nel campo dell’I. C. T. – si rileva, esemplificando, nella scarsa considerazione delle derive mercantili indotte dall’obsolescenza programmata, quella strategia produttiva che causa la “svalutazione economica di un bene o di uno strumento di produzione derivante dal progresso scientifico e tecnologico che ne fa immettere continuamente sul mercato di nuovi e più sofisticati”. Esercitare la critica, viceversa, vuol dire discernere, distinguere consentendo alla mente di suddividere gli oggetti di pensiero in ricevibili e non-ricevibili, di produrre rappresentazioni attendibili della realtà, di non cedere alla logica che rende precocemente obsoleto ciò che ha un ciclo di vita più esteso [2].
Il ragionamento allude ad una necessità storico-sociale: conciliare le prassi sociali di produzione e consumo (comprese le innovazioni tecniche) con lo sviluppo cognitivo e di personalità individuale e collettiva per definire in modo rigoroso una persona come digital-addicted.
La conoscenza e la capacità di padroneggiare e gestire strumenti tecnologici non è scindibile dalla capacità di veicolare ed interpretare i contenuti che vengono trattati con i diversi media, dai libri (strumenti quest’ultimi ben lontani dallo scomparire, anche perché spesso valido antidoto a certa superficialità mediatica) ai mezzi digitali.
Il potenziale scientifico insito nella riorganizzazione odierna dei sistemi di produzione  e riproduzione della formazioni economico-sociali ha posto le basi allo sviluppo delle reti di telecomunicazione, alla nascita dei circuiti integrati e dei microprocessori, allo sviluppo dei protocolli di comunicazione digitale e, infine, all’avvento di interNET (come infrastruttura di telecomunicazioni) e del WEB (come ragnatela di contenuti digitali legati tra loro attraverso collegamenti ipertestuali), ma non ha innescato contestuali percorsi di “cittadinanza scientifica”.
È così emersa la network societycome forma dominante di organizzazione socio-economica della nostra epoca -, ma ancora tardano ad apparire i “cittadini scientifici” essendo deficitari della consapevolezza necessaria nel distinguere l’alfabetizzazione digitale dell’essere online dal saper usare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informatica (TSI) in ambito lavorativo, comunicativo e nel tempo libero; nell’essere consapevoli di come le TSI possono incentivare la creatività e l’innovazione; nel comprendere le problematiche legate all’efficacia delle informazioni disponibili e dei principi giuridici ed etici che si pongono nell’uso interattivo delle TSI.
La Media Education [3] trova oggi il terreno di intervento nel concorrere alla formazione del “cittadino scientifico” della network society proprio perché l’uso delle TSI deve comportare – evitando “passività”, “alienazione”, “subalternità” -, un’attitudine critica e riflessiva nei confronti delle informazioni disponibili, l’uso responsabile dei mezzi di comunicazione interattivi, un interesse a impegnarsi in comunità e reti con scopi culturali, sociali e/o professionali.
È noto che esiste «una vera e propria funzione attiva o formativa messa in atto dai media sul pubblico, perché, al di là della discordanza tra le teorie degli effetti dei media, non si può dubitare del fatto che essi abbiano la capacità di trasmettere messaggi, fornire modelli di comportamento, mettere in risalto opinioni e valori» [4]; non è altrettanto chiaro che su questa dimensione empirica si debba innestare un’intenzionalità socializzatrice nonché d’istruzione e di coerenti percorsi curricolari didattici, educativa e formativa; non è del tutto condivisa la necessità di  introdurre processi semplici e lineari riassumibili in due cardini: “orizzontalità” e “knowledge experience”.

Media Education, media literacy e pensiero critico

L’attuale tematizzazione culturale e pedagogica della Media Education, a partire dall’uso stesso di questa efficace dizione, si deve a Len Masterman nei primi anni Novanta, collocandosi in una zona di incrocio fra Cultural Studies ed “educazione attiva”, il concetto di “Sistema formativo” e di educazione alla cittadinanza. L’aspetto  più recente della Media Education risiede nella sua identità epistemologica che tiene insieme l’alfabetizzazione (media litercy) e il “pensiero critico”, l’educazione dei soggetti come fruitori e come produttori di messaggi, la multimedialità come ricombinazione degli elementi della dimensione extragenetica, artificiale, culturale della condizione umana, come “attualità antropologica” che incorpora una strategia didattica pervasiva dove i media di longeva configurazione e nuova generazione interagiscono nei processi di socializzazione e, precipuamente, d’insegnamento e apprendimento [5].
Conseguentemente, l’orizzonte della Media Education non è riducibile al solo fare qualche “buona esperienza” utilizzando una certa strumentazione tecnologia, ma a come l’organizzazione sociale e le istituzione delegate alla formazione sono in grado di assumere i media come parte integrante della propria fisiologia d’inclusione sociale e di metodologie apprenditive, investendo risorse e competenze per migliorare la formazione nelle conoscenze e nelle competenze di cui la scuola ha la prerogativa pedagogica [6]. La Pedagogia della Media Education mette in evidenza la necessità di uscire dal paradigma difensivista, tipico di una cultura che vedeva nei media soprattutto i caratteri dell’aggressione culturale. La Media Education [7] oggi si propone come strategia di empowerment, di emancipazione culturale, persino di uscita dalla subalternità d’una gerarchia sociale cristallizzata.

La Media Education e l’oligarchia delle produzioni digitali

Ancor più efficace il ruolo della Media Education risalta quando si osservano fenomeni costitutivi d’una nuova e potente oligarchia planetaria delle produzioni digitali [8]. InterNET ne rappresenta l’intelaiatura, e i suoi utenti, vale a dire circa tre miliardi di persone, la forza lavoro utilizzata. Le nuove tecnologie digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana, le portiamo addosso e controllano tutti gli ambienti della vita sociale, dai luoghi di lavoro ai templi del consumo. La Media Education propone una riflessione sui dispositivi attraverso i quali questa oligarchia e queste tecnologie catturano e colonizzano l’immaginario umano a fini di profitto economico e di controllo sociale. Può mettere in luce il risvolto di tutto ciò, ovvero l’emergere di una nuova e impercepita sudditanza di quel popolo virtuale che, riversando ingenuamente messaggi, fotografie, selfie, ansie e desideri su piattaforme e social-network, contribuisce con le sue stesse pratiche a rafforzare forme di dominio, discriminazioni, esclusione scoiale. Non conosciamo ancora le conseguenze sui tempi lunghi di questo ulteriore passaggio del modo di produzione di beni e servizi Chiara invece appare la necessità di immaginare pratiche di decolonizzazione personale e collettiva per istituire nei luoghi ordinari della vita varchi di liberazione dall’ignoranza.
Ripercorrendo la micro-fisica dei processi innescati dai dispositivi digitali che mediano l’attività lavorativa – smartphone, piattaforme, sistemi gestionali, registri elettronici – si esplorano alcune metamorfosi radicali che, mentre rovesciano il rapporto millenario tra gli umani e i loro strumenti, sconvolgono ciò che fino a ieri è stato chiamato familiarmente chiamato “lavoro”. Alcuni territori chiave – la digitalizzazione della scuola, della professione medica, dei servizi, dei trasporti condivisi, dei grandi studi legali e delle banche – assunti come analizzatori, raccontano l’impatto trasformativo delle nuove tecnologie e il disorientamento dei lavoratori. Ma, nello stesso tempo, fanno emergere le linee su cui questo processo procede: la cattura degli atti, la dittatura dei dati, il trionfo della quantità e le narrazioni sostitutive con cui esso si racconta. Eventi di stringente attualità.
Proprio riflettendo su queste tendenze che velocemente attraversano la condizione umana fino al punto di chiamare in causa il singolo, infine, la Media Education può intervenire con efficacia per contrastare quattro pericolose tendenze generali – l’autismo digitale, l’obesità tecnologica, l’ethos della quantità, lo smarrimento dei limiti – e si chiede se non sia forse giunto il momento, dopo le ambigue interpretazioni del Novecento, di cominciare a distinguere il progresso sociale dal progresso tecnologico [9].

Note
[1]  Cfr. Understanding Media: The Extensions of Man, 1964.
[2] Cfr. A. Maestri, F. Gavatorta, Content evolution. La nuova era del marketing digitale, FrancoAngeli Edizioni, 2015.
[3] La Media Education è un’attività, educativa e didattica, finalizzata a sviluppare una informazione e comprensione critica circa la natura e le categorie dei media, le tecniche da loro impiegate per costruire messaggi e produrre senso, i generi e i linguaggi specifici, in grado di orientare verso l’uso consapevole dei media e dei dispositivi tipici dell’Information and Communications Technology.
[4] Rif. a D. Felini, Pedagogia dei media, Questioni, percorsi e sviluppi, Editrice La Scuola, Brescia, 2004.
[5] Cfr. a cura di R. Farné, Le buone pratiche di Media Education nella scuola dell’obbligoUna ricerca empirica in Emilia-Romagna, 2010; reperibile al link: http://www.corecomragazziemiliaromagna.it/pdf/media_education.pdf
[6]Op. cit.  Le buone pratiche di Media Education
[7] Rif. J. Gonnet, Educazione, formazione e media, Armando, Roma, 2001. P.C. Rivoltella, Media education. Modelli, esperienze, profilo disciplinare, Carocci, Roma, 2001. D. Buckingham, 2006, Media education. Alfabetizzazione, apprendimento e cultura contemporanea, Erikson, Trento, 2006.
[8]Approfondite analisi su questi temi sono contenute in R. Curcio, L’IMPERO VIRTUALE – COLONIZZAZIONE DELL’IMMAGINARIO E CONTROLLO SOCIALE, Sensibili alle foglie, 2015; a cura di R. Curcio, L’EGEMONIA DIGITALE – L’IMPATTO DELLE NUOVE TECNOLOGIE NEL MONDO DEL LAVORO, Sensibili alle foglie, 2016; R. Curcio, LA SOCIETÀ ARTIFICIALE – MITI E DERIVE DELL’IMPERO VIRTUALE, Sensibili alle foglie, 2017.
[9] Cfr. opere citate in nota 8.
Fonte: 
AGENDA DIGITALE

mercoledì 26 aprile 2017

Salone internazionale del libro - 2017 - Torino

 

IL SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO DI TORINO

L'appuntamento con il Salone Internazionale del Libro di Torino si rinnova ogni anno a maggio nei quattro padiglioni di Lingotto Fiere. Un capolavoro di architettura industriale, il comprensorio del celebre stabilimento Fiat con la rampa elicoidale e la pista sul tetto. Disegnato fra il 1915 e il 1922 e ammirato da Le Corbusier, dal 1985 il complesso è stato trasformato da Renzo Piano in centro espositivo, congressuale e commerciale.
Il Salone è promosso dalla Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura presieduta da Mario Montalcini. Direttore Editoriale dal 1998 al 2016 è stato Ernesto Ferrero. Dal 14 ottobre 2016 è Nicola Lagioia.
Dai 100.000 passaggi dichiarati e 553 espositori della prima edizione nel 1988, il Salone è cresciuto fino ai 127.596 visitatori e i 1.000 espositori attuali.
Una forza fondata su quattro diverse identità in equilibrio fra loro. Il Salone di Torino è al tempo stesso la più grande libreria italiana del mondo, un prestigioso festival culturale, un essenziale punto di riferimento internazionale per gli operatori professionali del libro e un importante progetto educational dedicato alla promozione del libro e della lettura presso i giovani lettori.
Tutti elementi che, da sempre, gli permettono di affrontare con entusiasmo qualunque sfida all'insegna dell'innovazione e del cambiamento.

sabato 18 febbraio 2017

Autoproduzioni multimediali indipendenti

“Duepuntozero”, parliamo di autoproduzioni multimediali indipendenti [speciale Zic+video+foto] - By

http://www.zic.it/
Le foto dell’ultima giornata di Duepuntozero, i video e audio degli incontri con Radio Onda d’Urto, Andrea Ronchi e Simone Aliprandi. Infine, il nostro numero speciale con le riflessioni di Smk, Zic e RadioAlSuolo.

10259702_10201952265626817_8645972205372613504_nDopo la prima bolognese di “Vite al centro” e poi il Rèvolution touR con Wu Ming e la presentazione de “L’Armata dei Sonnambuli”, sabato scorso “Duepuntozero – Autoproduzioni multimediali indipendenti” si è chiuso con tre incontri a cura di RadioAlSuolo, Zic.it e Smk anticipati dal pranzo autogestito targato Eat the rich.
Il primo incontro, “Radio 2.0: info e musica in movimento”, ha visto la partecipazione di Radio Onda d’Urto da Brescia. Poi “Informazione e tutele legali” con l’avvocato Andrea Ronchi ed infine “Licenze Creative Commons e multimedia”, con Simone Aliprandi (responsabile del progetto Copyleft-Italia.it). Al termine degli incontri, la tre giorni sulle autoproduzioni multimediali indipendenti si è conclusa con i vinili di Bologna Calibro 7 Pollici e Folpower (Cannonball Allnighter).
Pubblichiamo i video del primo e del terzo incontro, l’audio del secondo e le foto della giornata. Inoltre, mettiamo a disposizione dei nostri lettori lo speciale di Zic con le riflessioni del nostro giornale, di RadioAlSuolo e di Smk sul mondo dell’autoproduzione indipendente.
> Scarica il numero speciale di Zic / Duepuntozero: pdf
(oppure leggi i testi in fondo a questa pagina)
> Guarda il video dell’incontro “Radio 2.0: info e musica in movimento”:
> Ascolta l’audio dell’incontro “Informazione e tutele legali”:
> Guarda il video dell’incontro “Licenze Creative Commons e multimedia”:
> Guarda le foto della terza giornata:

> I testi dello speciale cartaceo realizzato da Zic in occasione di Duepuntozero:
logo-smk-traslaEra il 29 aprile 2009, quando mostravamo per la prima volta al pubblico il nostro primo
documentario lungometraggio: “La Resistenza Nascosta. Viaggio nella scena musicale di Sarajevo”. In quel preciso momento nasceva SMK Videofactory. Un progetto collettivo, un percorso autodidattico che ci ha permesso di individuare e sperimentare, in un’epoca di crisi economica e culturale, nuovi modelli di autoproduzione cinematografica, riuscendo a realizzare, tra i vari format video, anche 6 documentari lungometraggi:
– La Resistenza Nascosta (2009)
– Tomorrow’s Land (2011)
– Una Follia Effimera (2012)
– Kosovo versus Kosovo (2012)
– Green Lies (2014)
– Vite al Centro (2014)
Da dove si è partiti
Il desiderio di condivisione ma anche e soprattutto la consapevolezza delle difficoltà concrete che i freelance e i creativi vivono in questo momento storico sono ragioni importanti della nascita del nostro gruppo. L’esigenza di creare un collettivo nasce da due necessità complementari: da una parte, mettere in condivisione pratiche e saperi volti alla creazione di opere audiovisive, dall’altra, provare a sperimentare forme di produzioni orizzontali e dal basso per sviluppare narrazioni politicamente e socialmente impegnate.
Tutto questo, in un momento in cui la forte precarizzazione del mondo del lavoro e le trasformazioni in atto in ogni tipo di mercato hanno reso più urgente la ricerca di nuove strade, sia lavorative che creative, spesso vanificando o rendendo molto difficili percorsi di reale autonomia e autodeterminazione. Per SMK i due livelli hanno finito con il coincidere: l’autoproduzione si sta trasformando in una sperimentazione di autoreddito e il processo politico ha finito con il pervadere le pratiche artistiche da cui siamo partiti (audiovisivi). La
necessità di sostenere delle opere ci ha fatto scoprire la necessità di costruire reti di relazione solide come premessa per la buona riuscita di una prassi tanto lavorativa quanto politica. In un momento in cui qualsiasi modello di business si fonda sul web 2.0, sul lavoro di integrazione di reti e sulla costruzione di network di utenze, abbiamo riscoperto il brivido di scommettere su pratiche di relazione e condivisione dirette, fondate sul mutuo riconoscimento, la solidarietà e l’orizzontalità come condizioni senza le quali di un processo di produzione partecipato e partigiano.
Dove si è arrivati
Da questo punto di partenza inizia tutto il ragionamento e la pratica sperimentale: come riuscire ad autoprodurre documentari e film, sganciandosi dalle logiche di produzione mainstream e contemporanemente come avviare efficaci pratiche autodistributive che rendano sostenibile il percorso? Nel 2011 SMK Videofactory firma il suo primo vero documentario collettivo: Tomorrow’s Land, che racconta la storia del Comitato di Resistenza Popolare del villaggio palestinese di At-Tuwani. Con quell’esperienza il gruppo si affaccia per la prima volta al mondo del crowdfunding. Utilizzando per la prima volta il portale di Produzioni dal Basso vengono raccolti circa 250 coproduttori (sia in rete che in serate di dibattito off-line). Il meccanismo è molto semplice: 10 euro per ogni quota di coproduzione e 1 DVD del film per ogni quota.
Gli strumenti usati sono semplici e per nulla nuovi: il meccanismo del dono e la colletta popolare, riadattati e perfezionati all’interno del web 2.0. L’esperimento riesce in pieno, permettendo cosi al gruppo di portare a termine il lavoro di produzione del film. Il passo successivo è stato quello rispetto all’autodistribuzione: attraverso la costruzione di una fitta rete di circoli, centri sociali, sale d’essai prende corpo il network che porterà poi alla nascita di Distribuzioni dal Basso. A distanza di 2 anni Tomorrow’s Land rimane l’esperimento fondativo delle pratiche di autoproduzione di SMK Videofactory: oltre 200 date di proiezione pubbliche in tutta Europa, 3000 DVD autodistribuiti e decine festival (partecipati e o vinti) in tutto il mondo. L’esperimento è riuscito. E la cosa importante è soprattutto il fatto che è un modello diffondibile e utilizzabile da altre realta emergenti sul piano nazionale.
La logica conseguenza è la scelta delle licenze Creative Commons. Una scelta che risulta sia pratica che politica. Pratica, perché è diventata un nuovo strumento di autodeterminazione culturale e creativa, in un momento in cui è palese la totale inefficacia dei modelli di copyright per i freelance e gli emergenti, che oltre non tutelare affatto i “piccoli”, spesso divengono per questi un ulteriore ostacolo da superare. Politica, perché rimarca la scelta ponderata di un modello che privilegia la diffusione delle opere creative ai meri ed esclusivi meccanismi di profitto. Distinguendo, senza averne paura, la sostanziale differenza tra profitto commerciale e le formule di sostenibilità e di autoreddito.
logo-rossoLa riflessione scaturita dagli esperimenti di autoproduzione ed autodistribuzione porta a un ragionamento di ampio respiro sul potenziale dei meccanismi di coproduzione popolare, di donazione e rapporto responsabile con gli utenti e della forza che emerge sempre più dall’utilizzo delle licenze Creative Commons. Il gruppo decide cosi, ad aprile 2013, che è arrivato il momento per fondare Distribuzioni Dal Basso. Il portale ha come obbiettivo quello di sostenere la circolazione di film e documentari indipendenti realizzati dalla nuova generazione di freelance, nata sull’onda del fenomeno Creative Commons e dei nuovi meccanismi di produzione basati sul crowdfunding. In altre parole, il tentativo è ora quello di stabilizzare il meccanismo di autodistribuzione e di fare in modo che tante altre realtà indipendenti possano usufruirne, andando graduatalmente a formare un network nazionale di freelance.
Il futuro
La sfida a questo punto è rappresentata dalla capacità di rendere sostenibili sul lungo periodo processi di inclusione sociale che permettano la continuazione di un processo generativo di idee e di rappresentazione critica della realtà senza che ciò resti una mera opzione volontaristica e di sacrificio; in altre parole si tratta di comprendere come rendere sempre più stabile questo percorso di autoproduzione senza snaturarne il senso complessivo di matrice “popolare” e “dal basso”, riuscendo nel medesimo tempo a mantenerlo economicamente sostenibile pur facendolo crescere e maturare.
* * * * * * * * * *
adesivo1Raccontare un mondo mutevole e fluido come quello dei movimenti, dei collettivi, dei centri sociali. E, al contempo, dare voce a chi non ce l’ha mai, a chi paga il conto più salato della crisi, a chi è ai margini, a chi subisce lo smantellamento del welfare. La sfida di Zic.it, raccogliendo il testimone dell’esperienza cartacea di Zeroincondotta, nasce da una necessità che sentivamo e sentiamo non aggirabile per una città come Bologna: creare uno strumento di comunicazione ed informazione che aiuti a dare spazio alle esperienze di autorganizzazione ed autogestione, in modo trasversale e senza vincoli di appartenenza o “di area” (esperienze di questo tipo, non c’è dubbio, erano e sono preziosissime: ma secondo noi non sufficienti).
Uno strumento libero e indipendente che, però, a queste caratteristiche imprescindibili sappia affiancare un metodo in grado di fornire alcune giuste garanzie a chi cerca informazioni, soprattutto in rete, dove il rischio di imbattersi in approssimazione, “bufale” e overload informativo è spesso dietro l’angolo. L’autoproduzione e di un giornale quotidiano
on line, dunque, come combinazione di sperimentazione e affidabilità, di autonomia e credibilità, facendo tesoro delle precedenti esperienze di mediattivismo ma cercando anche di superarne i limiti, attraverso la costante elaborazione di una “deontologia” (passateci il termine) tutta dal basso, incardinata su concetti e pratiche mutuate dai percorsi di autorganizzazione ed autogestione: orizzontalità del processo decisionale, cooperazione, condivisione dei saperi, scambio con l’esterno e capacità di tradurre l’eterogeneità in ricchezza. La redazione c’è, ma si vede il meno possibile.
Dal 2007 ad oggi, così, sulle pagine di Zic hanno trovato spazio, giorno dopo giorno, migliaia di articoli, fotografie ed appuntamenti segnalati, centinaia di video e file audio: materiale in massima parte pubblicato sotto Licenza Creative Commons, che consente di condividerlo e rielaborarlo, escludendo però ogni finalità commerciale. Un impegno, costante e volontario, premiato da un numero crescente di visitatori e che in diverse occasioni ha anche consentito a Zic di “bucare” il muro dell’informazione cosiddetta ufficiale, costringendo anche i media mainstream a fare i conti con notizie da noi pubblicate. Questo, però, non vuol dire affatto che si sia delineato un modello compiuto, che non ha bisogno di aggiornarsi e rimettersi in discussione. Tra vecchi e nuovi limiti, i miglioramenti possibili non mancano e, allo stesso tempo, ciò che ci circonda impone un confronto continuo con sfide inedite ed altrettanto inedite opportunità.
Proviamo ad elencarne alcune:
– l’evoluzione tecnologica e del web 2.0 favorisce, ma allo stesso tempo impone, un’elevata capacità di risposta sul fronte della multimedialità: in termini quantitativi, qualitativi e di tempestività. Tenere insieme questi tre aspetti richiede competenze e strumentazioni, per altro in continuo aggiornamento. Un’indubbia ricchezza, da questo punto di vista, è rappresentata dalle connessioni che vanno via via sviluppandosi con le altre esperienze di comunicazione e autoproduzione che come Zic hanno casa a Vag61.
– l’impronta “citizen journalism” con cui Zic ha inaugurato la presenza sul web ha faticato a trovare sbocco, probabilmente superata dall’affermarsi della “self-communication”. Come garantire forme di interattività con i lettori, favorendo le condizioni per un loro contributo alla realizzazione del progetto, senza modificare gli standard di qualità ed affidabilità a cui cerca di attenersi? La mediazione redazionale, attuata caso per caso, necessariamente limita le potenzialità “in ingresso”. Più ampie quelle “in uscita”: la Licenza Creative Commons permette a chiunque di condividere e rielaborare i contenuti pubblicati su Zic.
– la trama di connessioni creata dai social network, sempre più fitta e versatile, moltiplica esponenzialmente la velocità e il raggio di diffusione dei contenuti. E’ necessario stare al passo: per sfruttare al meglio le potenzialità di trasmissione di quanto pubblichiamo; per non subire i tempi di una filiera della notizia che si è sensibilmente accorciata. Questo, però, evitando il rischio di “schiacciare” sul modello social la progettualità più articolata di Zic, che trova nel sito la sua espressione organica.
– se la copertura e la diffusione delle notizie riguardanti Bologna può dirsi consolidata, per ovvi motivi appare più frastagliato il campo relativo alle informazioni provenienti da fuori città. La natura prevalente di Zic è quella di quotidiano locale, ma quali sono i margini per tendere ad un allineamento?
– le pratiche dell’autoproduzione, dell’autogestione e dell’autorganizzazione non sono sufficienti per ottenere un quotidiano a costo zero. La gratuità d’accesso e l’assenza di messaggi pubblicitari, d’altro canto, escludono le due fonti principali di entrata per una realtà web. Intensificare i canali di autofinanziamento, tradizionali e di più recente diffusione (vedi crowdfounding), può consentire la disponibilità di migliore e maggiore strumentazione tecnica (informatica e multimediale), implementare il progetto, aumentarne la riconoscibilità ed aprire eventuali percorsi di autoreddito che, se messi in atto con intelligenza, potrebbero consentire di dedicare maggiori energie al giornale.
– l’andamento delle visite rivela che Zic può contare su un’elevata fidelizzazione dei propri lettori e su un graduale aumento del loro numero. Compatibilmente con il già affrontato tema delle risorse a disposizione, però, è sicuramente possibile migliorare la conoscenza e la consultazione del giornale potenziando gli strumenti di promozione sia off che on line.
* * * * * * * * * *
RadioAlSuolo-LogoLa radio è stata, e noi crediamo abbia tutto il potenziale di esserlo ancora, lo strumento delle più importanti rivoluzioni e resistenze culturali e sociali. L’aspetto che ci ha coagulato attorno all’esperimento, che costituisce questo progetto, è una peculiarità che a noi sembra caratterizzare il mezzo radiofonico rispetto ad altri media, ossia la sua capacità di favorire in maniera trasversale l’espressione e la diffusione dei nuovi linguaggi giovanili e delle nuove forme culturali. Non trascurando tuttavia alcune culture non mainstream del passato che a noi sembrano avere, all’oggi, ancora qualcosa da dire.
L ‘autogestione come scelta politica e come modus operandi. L’unica che a nostro avviso potesse rispettare adeguatamente la sensibilità, che ci accomuna, verso il mondo; l’unica che fosse in grado di veicolare contenuti musicali e politici, i primi in grado di aprire un varco in quella che è l’offerta mainstream, i secondi non dettati dagli appetiti mediatici del momento; l’unica che potesse soddisfare il bisogno di realizzare tutto ciò in maniera orizzontale e collettiva. L’autoproduzione come necessità: D.I.Y or DIE! Ma da questa necessità cerchiamo di trarre dei punti di forza, ovvero attraverso il passaggio informale di competenze ci appropriamo del “know how” senza doverlo esperire con i ritmi imposti anche, e forse soprattutto, nell’ambito dei media in questa società multitasking.
Dove vogliamo arrivare
L’obbiettivo è quello di essere un collettore politico e culturale, mantenendo alta l’attenzione sui temi che hanno finora costituito il cardine dei nostri interessi, ossia aspetti sociali, culturali, d’informazione e d’intrattenimento a cui è sottesa una visione partigiana e critica del reale.
Contraddizioni e limiti
Lavorare in maniera “hobbistica” diventa una lotta quotidiana per riuscire a realizzare tutti i progetti che desideriamo costringendoci ogni volta a confrontarci con la scarsità di mezzi e risorse. Per approfondire alcuni contenuti infatti, sentiamo la necessità di un grado di conoscenza che presuppone il tempo per un’autoformazione continua.
Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedInShare on Google+Share on Tumblr

Articoli correlati

sabato 8 ottobre 2016

YES Women Empowerment in STEM

Nuovo eBook Wister: YES We_STEM

L’8 Marzo 2016 il MIUR, con il sostegno della sede italiana della Commissione Europea, ha lanciato il progetto “Le studentesse vogliono contare! Il mese delle Stem” promuovendo iniziative e approfondimenti per combattere gli stereotipi di genere e le discriminazioni.
“Il mese delle Stem” (acronimo di Science, Technology, Engineering and Mathematics) vuole sensibilizzare gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado allo studio delle discipline scientifiche e tecnologiche, superando il divario di genere.

La rete WISTER (Women for Intelligent and Smart TERritories) ha colto l’occasione per organizzare presso la sede della Commissione Europea a Roma un evento intitolato Yes WE STEM (Women Empowerment in STEM) i cui lavori hanno generato questo eBook. Infatti, i contributi dei vari capitoli dell’ebook  vanno oltre gli interventi dell’evento e racchiudono ulteriori approfondimenti, elaborazioni e dati. E proprio le competenze, l’esperienza, la sensibilità, l’impegno e lo sforzo di ciascuna/o  delle autrici e degli autori hanno permesso di costruire un libro che rappresenta un prodotto editoriale ricco e originale, curato da Luciana d’Ambrosio Marri, Flavia Marzano e Emma Pietrafesa.
L’introduzione di Simonetta Di Pippo, Direttrice dell’Ufficio per gli Affari dello Spazio Extra-Atmosferico delle Nazioni Unite (UNOOSA) e le conclusioni diCatalina Oana Curceanu, prima Ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Laboratori Nazionali di Frascati (Roma) e membro del Foundational Question Institute  (FQXi), rendono questo eBook ancora più prezioso.

giovedì 11 agosto 2016

Smart working, arriva il diritto di disconnessione da email e smartphone

Una soluzione già approvata dal Governo francese contro l’invasione lavorativa nella vita privata

Lo smart working si prepara a diventare legge dello Stato. La Commissione Lavoro di Palazzo Madama ha approvato un testo di legge che presenta significative differenze rispetto all’originario presentato dal governo. In particolare, nelle ultime modifiche del testo viene introdotto il diritto alla disconnessione da email e smartphone quando sono fuori dal posto di lavoro. 

TRE DIRITTI FONDAMENTALI – “Il lavoro agile non va confuso con il telelavoro, che è una prestazione svolta da casa e regolata da una direttiva europea – commenta Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro in Senato e relatore del disegno di legge. “Il testo che abbiamo definito prevede che la prestazione dello smart worker venga eseguita senza la rigida determinazione di tempo e luogo”. Con un’attenzione particolare agli smart workers che devono potersi avvalere di tre diritti fondamentali: quello alla sicurezza, quello alla disconnessione e quello alla formazione in modo tale da dominare al meglio le proprie competenze.
BENEFICI – Se lo smart working funziona, l’azienda ci guadagna in termini di produttività. Il datore di lavoro risparmia sulle spese di gestione degli spazi e sulle spese per l’energia. “Ma ci guadagnano tutti” spiega Francesco Seghezzi, ricercatore Adapt, al Sole24Ore – pensiamo solo all’abbattimento dell’inquinamento, che deriva dal viaggio di andata e ritorno dall’ufficio. Senza dimenticare la riduzione di stress e l’aumento di benessere del lavoratore”.
RISCHI- Chi lavora da remoto corre alcuni rischi dai quali deve essere messo al riparo. “La creatività che deriva dal lavorare in team, ad esempio, è un valore aggiunto che può essere recuperato con connessioni e piattaforme di scambio adeguate”, continua Seghezzi. Lo smart worker rimane comunque un dipendente dell’azienda e tagliare i ponti con l’azienda madre può essere controproducente. Le imprese devono possedere infrastrutture adeguate con cui condividere informazioni.
DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE – Altro rischio per i nuovi lavoratori potrebbe essere quello di sentirsi obbligati alla connessione digitale continua. In Francia, a questo proposito, è stato introdotto il diritto di disconnessione: norma recepita in Italia anche nelle ultime modifiche del testo.
“Con un accordo aziendale tra dipendente e datore – aggiunge Seghezzi – è possibile stabilire regole che lascino tempi liberi dalla connessione con l’ufficio”. Viene dunque stabilito il diritto alla disconnessione, nei tempi di riposo, dagli strumenti tecnologici di lavoro, un lavoro che è eseguito in parte dentro l’azienda, in parte all’esterno, con i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Si prevede che l’orario deve essere stipulato in forma scritta non più “a pena di nullità” ma “ai fini della regolarità amministrativa e della prova”.
Anche il diritto alla sicurezza del posto di lavoro e dell’attività connessa alla tipologia di lavoro per la legge in arrivo sono un diritto fondamentale. Sempre con un accordo tra azienda e lavoratore si potrà stabilire il diritto di visita di un operatore che certifica la sicurezza del luogo di lavoro e la buona salute del lavoratore stesso.
                                  Fonte:
http://quifinanza.it/lavoro/smart-working-arriva-il-diritto-di-disconnessione-da-email-e-smartphone/77248/
 

lunedì 4 luglio 2016

Dal fondamentalismo digitale alla sua critica - Un contributo di Bernardo Parrella

Per una critica e una cultura della Rete partecipate e autonome (pure in Italia?)

Creare alternative all’economia liberista, alle cyber-omologazioni e ai nuovi info-monopoli: yes we can !

Lo tsunami dell’innovazione high-tech ha contribuito non poco a mandare in frantumi ogni possibile programma per un’economia globale adeguata alle esigenze degli oltre sette miliardi di persone oggi in circolazione sul pianeta. Pur a fronte di dinamiche più ampie e imprevisti vari, nel complesso è evidente come in questi anni siano venute sempre meno le promesse di prosperità e benessere diffuso sull’onda del progresso tecnologico (quantomeno nelle società occidentali e al di là dei minimi vantaggi offerti da internet e device sparsi). L’emergere dell’élite digitale ha pesato (e pesa) parecchio in una distribuzione della ricchezza sempre più verticale anziché orizzontale come ci si aspettava (1% vs. 99%). In altri termini, come chiarisce il critico mediatico e docente newyorchese Douglas Rushkoff nel suo libro fresco di stampa Throwing Rocks at the Google Bus, le conseguenze di «questo tornado tecnologico… stanno intrappolando l’umanità intera». Ovvero:
È ora di ottimizzare l’economia rispetto agli stessi esseri umani che si presume debba servire.
Dove è il sottotitolo del libro a mettere il dito nella piaga: «in che modo la crescita è diventata il nemico della prosperità». Perché, tanto per essere chiari, non è che i venture capitalist investano in una start-up per vantarne la proprietà o dare spazio a un qualche progetto, bensì per rivenderla — nei tempi più stretti e con il massimo di ricavi possibili. La crescita è il mantra obbligatorio. Conquistare, subito, ampia visibilità e massa critica. Contano soltanto gli steroidi digitali:
L’azienda finisce per virare dalla sua mission originaria onde poter crescere al punto da mettere a segno un “home run” , sotto forma di acquisizione o entrata in borsa. E i finanziatori preferiscono vederla morire piuttosto che farla vivere con una vittoria modesta.
Un quadro dove convergono fattori apparentemente disparati: big data e ‘tutto gratis’, robot e intelligenza artificiale, algoritmi nelle piattaforme social e nelle transazioni azionarie, le pratiche monopoliste delle mega-corporation e la cosiddetta ‘sharing economy’, fino al costante rischio di nuovi tracolli economici, come già accaduto con lo scoppio della bolla dot-com d’inizio 2000, la crisi di Wall Street con ripercussioni mondiali del 2008/9 e il recente collasso dell’Eurozona.


                           Murales a San Francisco (da Wikipedia)
Attenzione, però, rimarca Rushkoff: la colpa non va addossata unicamente a Google & co, ai suoi dirigenti e impiegati, che diventano invece facile bersaglio del 99% e si beccano i sassi tirati contro gli autobus che li trasportano ogni giorno da San Francisco negli uffici di Mountain View (le proteste di piazza risalenti a un paio d’anni fa e a cui allude il titolo del volume). Ovviamente il problema è ben più complesso, anzi:
L’economia digitale del XXI secolo viene tuttora gestita con un sistema operativo basato sulla macchina da stampa del XIII secolo.
Il riferimento più ampio è alla cultura imperante a livello economico, oltre che socio-politico, dove gli azionisti impongono simili crescite verticali assolutamente insensate, dove contano solo i ‘capital gain’ rispetto a più modesti ma sicuri dividendi, dove non si esita a inglobare o far fuori nottetempo i diretti rivali. Già, come se la crescita non abbia limiti: il miraggio dell’era post-capitalista veicolato dalle politiche neo-con e neo-liberiste, prontamente abbracciate fin dai suoi albori dalla Silicon Valley – come descrivevano nel 1995 gli accademici britannici Richard Barbrook e Andy Cameron in “The Californian Ideology”, critica acuta del neo-liberismo dot-com superata solo in parte e tuttora cruciale per la memoria storia del digitale. E pur se oggi quell’egemonia dei tech-libertariani non è più così possente e subisce critiche (e abbandoni) diffusi, cosa potrà mai sostituirla? Forse una miriade di teorie e pratiche scioltamente interconnesse (con gli obbligatori agganci offline), o magari una varietà di spazi iper-frantumati tanto quanto la “balcanizzazione” dell’odierna internet?

In altri termini, la complessa molteplicità tra cause/effetti di diversa origine evidenziata da Rushkoff rivela comunque uno “zoccolo duro” nell’inarrestabile innovazione high-tech (o presunta tale) non vanno certo sottovalutate. Tanto per restare nell’area di San Francisco, dove la gentrificazione innescata dal tecno-boom aveva preso piede già a inizio anni ‘90 (ne sono stato testimone diretto), questi problemi continuano ad aumentare a dismisura, anziché ridursi. La popolazione di homeless è alle stelle, per non parlare dei precari in tutti i sensi, con costi (e qualità) della vita davvero impossibili, anche per chi ha un’occupazione stabile.
Non a caso una recente inchiesta curata da Vox propone il titolo Essere senza tetto è un lavoro a tempo pieno”, e vi si legge fra l’altro che «i prezzi degli affitti in quest’area tecnologica sono aumentati in maniera ben più rapida che nel resto del paese», per via della forte richiesta e delle strette normative per la costruzioni di nuovi alloggi. E pur se il problema degli homeless a San Francisco risale agli anni ‘80 (il primo centro d’accoglienza venne aperto nel 1983), oggi è in corso «un’epidemia di sfratti»:
Prima del 2011, ogni mese venivano sfrattate 300–350 persone, ora siamo a oltre 600. Dal 2013 gli sfratti in cui l’affittuario non ha commesso alcuna infrazione del contratto sono saliti del 115%.

(da indybay.org)
Mentre l’avanzata a testa bassa dell’high-tech è quantomeno una con-causa di simili problemi sul territorio, continuano tuttavia a essere sottovalutate le ricadute complessive dell’era digitale. Giusto per fare qualche esempio:

Dopo le rivelazioni di Snowden, sappiamo bene di essere sotto sorveglianza diffusa ma il messaggio generale è che non c’è nulla da temere; le maggiori piattaforme di social media continuano a consolidarsi e occupare altri spazi (fino al capitalismo-piattaforma); cresce il trend del passaggio dal PC a smartphone/tablet con tecnologie sempre più opache e basate sugli algoritmi, e l’annessa “balcanizzazione” della Rete (incluso l’ampliamento del Deep Web).

E ancora: già finito l’abbraccio tra movimenti di protesta quali Indignados e Occupy (o scenari tipo le Primavere Arabe) e i social media? Stanno forse emergendo app collaborative per amplificare o esaltare le manifestazioni di piazza? E a livello più individuale, che dire di una tecnologia che ci sommerge sotto una mole impressionate di dati? E delle continue corse all’aggiornamento di stato, all’estensione della cerchia dei follower e altre dinamiche di “reputazione”? Quali gli agganci (se esistono, o sono mai esistite davvero) di simili pratiche “narcisistiche” il legame con il quotidiano offline?
Si tratta insomma di proporre (o, meglio, rilanciare seriamente) una Net Critique ampia e articolata, di proporre quella critica a e di internet oggi apparentemente superata dalle spinte imprenditorial-economiche globali di cui sopra. Come avviene da tempo per la critica ai mass media dei nostri tempi (cinematografica, letteraria, culturale) dobbiamo riappropriarci di questi strumenti di lettura per (provare a) metterne in risalto le dinamiche meno apparenti e (cercare di) immaginarne gli scenari futuri.
Un approccio questo, attenzione, che non spetta unicamente ai ‘critici’ o agli ‘intellettuali’ (se mai esistono ancora), bensì all’intero popolo della Rete. Anzi, nell’attuale fase di stagnazione politico-culturale, tocca a ciascuno di noi elaborare e sostenere pratiche di riorganizzazione alternativa degli strumenti sociali in rete perché supportino i movimenti politici di base.
È quanto continua a suggerire fra l’altro Geert Lovink nel suo ultimo libro Social Media Abyss (di prossima uscita anche in Italia presso Egea, con traduzione del sottoscritto), che prosegue il percorso avviato nel 2004 con la fondazione dell’Institute of Network Cultures ad Amsterdam, oltre a docenze, interventi e libri successivi. E dove si affrontano in dettaglio domande scottanti, oltre a quelle accennate poco sopra, tra cui:

Come usare la Rete per rilanciare la politica e la cultura libertaria? Com’è possibile ripensare un modello comunicativo digitale senza subire l’omologazione dei social network? Cosa tiene insieme il culto del selfie e la passione per l’anonimato? In che senso la teoria critica è utile per la prassi politica in rete?

A riprova del fatto che, insieme all’impegno di molti altri ricercatori, esperti ed attivisti, esiste e cresce un movimento europeo per la critica alla cultura di Rete e alle sue trasformazioni (finanziamento dell’arte digitale, nuove forme di pubblicazione, estetica e politica dei video online, cultura dei motori di ricerca, riorganizzazione della conoscenza in rete). Mettendoci in guardia anche sui rischi di ‘retroguardia’ – in particolare rispetto a certe posizioni condivisibili ma fin troppo parziali o superficiali di critici Usa quali Sherry Turkle, Nicholas Carr, Andrew Keen o Jaron Lanier:
Poco ma sicuro: c’è bisogno di un approccio articolato per non cadere vittime della semplice rassegnazione del ‘romanticismo offline’ — posizione assunta fin troppo facilmente quando ci accorgiamo di non poter stare al passo e la routine prende il sopravvento.
Anche a rilancio delle critiche più articolate Rushkoff sul «tornado tecnologico… stanno intrappolando l’umanità intera», questo “laboratorio aperto europeo” rivela dunque un forte orientamento verso la prassi politica nelle pratiche comunicative digitali, integrando arte, mediattivismo e studi critici come strumenti di riprogettazione di una nuova convivenza civile, uno spazio di cittadinanza vivibile e inclusivo, non importa se urbano o online.
Proponendo altresì alternative concrete all’economia liberista e ai paradigmi di “colonialismo” digitale. Tra cui, per esempio, il MoneyLab di Amsterdam, un osservatorio sulle forme alternative di pagamento e gestione del denaro, oltre che sulle ‘economie del dissenso’ (ora che Bitcoin ha messo finalmente a nudo la propria anima elitaria e neo-con). E le varie realtà africane che andrebbero prese a modello proprio dal settore cyber ed economico occidentale, quali il successo del mobile money di M-Pesa, le animate discussioni online e la creazione di reti autogestite in Kenya, Uganda e altri paesi sub-sahariani.

Si tratta insomma d’insistere con la cultura critica del digitale in senso lato, con la decostruzione dall’interno del magma continuo di internet, con esperimenti di partecipazione civica. Un quadro che, per chiudere con alcune note “nostrane”, in Italia non sembra trovare troppa attenzione sia nell’ambito cultural-editoriale che nell’utenza di base. A livello “macro” le start-up innovative o i settori tradizionali ormai passati al digitale (come il giornalismo-informazione) sgomitano tra alleanze imprenditoriali e nuove trovate sostanzialmente finalizzate al “clickbait” (ignorando, per esempio, la strada dei micro-pagamenti ad articolo, così da superare anche culturalmente l’impasse provocato dal ‘tutto gratis’). Per non parlare di manovre a dir poco anacronistiche come la recente mega-fusione tra il gruppo de La Stampa e quello di Repubblica/Espresso.
Nell’epoca della decentralizzazione e del citizen journalism diffusi, si punta invece a ricreare regimi di monopolio utili soltanto agli interessi (e alle share di mercato) dei grossi gruppi editoriali e nient’affatto a quelli dei cittadini, degli ex-lettori, o della cultura in generale. Ancor più, ciò ribadisce il tradizionale approccio capitalista da pescecani e attori piglia-tutto menzionato all’inizio, teso a occupare spazio ovunque, attirare freelance e altri “precari” con buone idee ma costretti a lavorare per i Big pur di pagare l’affitto, e infine restringere o azzerare i progetti autonomi e dei singoli. Ciò appare particolarmente grave nell’odierno scenario digital-italiano, dove vanno comunque emergendo spinte innovative e maker d’ogni sorta, partecipazione civica e mondo open.
Già, proprio come scriveva pochi giorni fa qui su Medium me Eugenio Damasio qui su Medium:
Si apre un’epoca fatta di ritorno a dinamiche monopolistiche simili a quelle che Orson Welles , nel 1941, raccontava nel suo Citizen Kane. Un’epoca in cui, e non solo in campo giornalistico, la redistribuzione di ricchezza è sempre più limitata e i protagonisti rimangono invariati.
Oppure come diceva Emmanuele Somma, in riferimento ai “festeggiamenti” per i 30 anni di internet in Italia (i “pionieri” risalgono al 1986-7, l’era in cui dentro e fuori il Parlamento dominava la DC):
Bisogna dire le cose come stanno: di Internet in Italia non c’è nulla da festeggiare, tra censure di stato e velocità da paesi africani, tra provider imbroglioni e campioni solo di fuffa digitale. Vale la pena festeggiare la fiera delle vanità dei tanti parassiti che hanno salito — senza meriti — i gradini dei posti di comando? La rete in questi anni non è andata tecnologicamente avanti e ha fatto tanti passi indietro rispetto ai diritti digitali dei cittadini. Ma il peggio è che questa matrigna Italia incensa solo i furbetti e allontana chi è competente e appassionato.



Conclusioni possibili? Forse meglio pensare, più semplicemente e pragmaticamente, a percorsi praticabili sia a livello “macro” che individuali, fatti di trasversalità e contaminazione, decentramento e hacktivismo. Incluso magari un soggetto editoriale che sappia e voglia farsi carico delle istanze relative alla cultura e alla critica della Rete, rilanciando testi e notizie significative, coinvolgendo i protagonisti e le vicende italiane nelle dinamiche in corso a livello internazionali. Ben al di là di traduzioni casuali di libri da cassetta o simili estemporaneità come avvenuto finora.
Senza lasciare il campo in mano ad accademici, esperti o “intellettuali”, ma neppure ai circoli chiusi di correnti quali luddismo, situazionismo, marxismo e quant’altro, o limitarsi a dire “internet è politica”. Si tratta cioè di articolare/espandere le analisi proposte da autori come Rushkoff e Lovink, di riprendere esperimenti meno sexy come quelli di taglio “africano”, di superare collaborativamente il tipo approccio mainstream di privilegiare le “prime donne” alla Morozov (pur nella parziale rigorosità delle sue tesi sul “soluzionismo tecnologico”). Con l’obiettivo in progress continuo di offrire longreads, interventi, materiali di approfondimento, dibattiti aperti, conversazioni e così via. Un contesto più esteso (e la memoria storica) utili per stimolare al meglio l’eclettico ambito digitale nostrano, insieme a interventi collaborativi e strumenti bottom-up per una lettura meno ovvia e appariscente rispetto a un ampio ventaglio di referenti: dai professionisti super-indaffarati al mini-impero imprenditoriale, dai tantissimi individui interessati a capire meglio e darsi da fare fino ai nativi digitali e alla generazione Z sempre china sugli amati device “always on”.
Come scrivevo recentemente in un pezzo su CheFuturo per i 20 anni dalla Dichiarazione d’Indipendenza del Cyberspazio di John Perry Barlow:
Proprio in un’epoca di massima centralizzazione di testate, socialità, contenuti. Un appello al monitoraggio attento sui pericoli dei lucchetti alla conoscenza e del controllo diffuso, entrambi ormai integrati nei gadget di uso quotidiano. Un invito pressante ai cittadini vecchi e nuovi del cyberspazio a (ri)prendere in mano il ‘bene comune internet’, per attivarne al meglio le potenzialità creative e la partecipazione dal basso sul territorio. Insieme all’importanza di un approccio critico sul digitale nel senso più ampio, altra specie in via d’estinzione nell’online odierno. … Perché, altro motto tipico in Rete negli anni della Dichiarazione di Barlow e meritevole di un attento revival: what it is > is up to us.