menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
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lunedì 12 dicembre 2022

Recensione di “Nascaredda”, romanzo di Rossano Borzillo (BookSprint Edizioni, 2022), Lanciano 10.12.2022

Alcuni anni or sono, ho avuto l’occasione di leggere una delle prime stesure del libro di Rossano Borzillo che sollecitai a continuare nella scrittura di un’opera definibile, secondo i canoni, romanzo di formazione con rilevanti contenuti biografici e che, tuttavia, s’apre con sorprendente - al contempo - ironia e drammaticità ad un autentico scandaglio di un’epoca (in particolare il periodo di tempo che intercorre tra la fine degli anni ‘60 del Novecento e l’attualità) e di generazioni “insofferenti” e dedite ad organizzare e sognare la trasformazione sociale.

Sono felice che l’originale scritto abbia avuto il suo compimento nella recente pubblicazione. Un libro che va letto e, eventualmente, recensito, promosso in iniziative di pubbliche discussione.

Dopo la marcia editorialmente trionfale di “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” (2019) di Remo Rapino (vincitore della 58^ Edizione del Premio Campiello), e le diverse affermazioni in campo letterario di autori di Lanciano, quali Bruno Montefalcone, Giuseppe Rosato, Emiliano Giancristofaro (per limitarci ad alcuni contemporanei), s’auspica che anche “Nascaredda” (BookSprint EDIZIONI, 2022), esordio narrativo di Rossano Borzillo, possa riscuotere gli apprezzamenti dovuti, di critica e di pubblico.

Questo libro, opera prima di Rossano Borzillo, mette in rilievo una doppia spinta tematica e linguistico stilistica: da una parte la tendenza all’anarchia e alla deformazione, anche ad una evidente e simpatica libertà sintattico-grammaticale, dall’altra un certo richiamo al rigore, prevalentemente cronologico, e al normativismo (estetico e linguistico), nel senso proprio di fulminee frasi che sembrano rendere giustizia di quel “circo lessicale” nel quale poco prima il lettore si trova ed subitaneamente indotto ad apprezzare, risultandone rapito e quasi stordito, incedendo pagina dopo pagina nella lettura.

La leggerezza, la rapidità, l'esattezza, la visibilità e la molteplicità sono cinque dei tratti stilistici distintivi che, leggendo l'opera, sono rintracciabili nei capitoli e, sarà un caso, sono correlati ai valori che Italo Calvino raccomandò nelle “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio” – originalmente elaborate per un ciclo di conferenze a Harvard – raccolte e pubblicate postume nel 1988. L'opera che ne è uscita forma una poetica, una testimonianza delle teorie letterarie di Italo Calvino.

Non sembri bizzarro accostare Borzillo a Calvino. Chi si sofferma sulle mere vicende narrate, sulle plurime “storie” rievocate in quanto realmente vissute nei decenni trascorsi in quel di Lanciano, Urbino e Copenaghen, chi si limita al “like non like” avventurandosi nella lettura di “Nascaredda”, rischia di non cogliere il senso dell'accostamento. Potrà essere chiarito utilizzando alcune parole dello stesso Calvino: «Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni ? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili» (da Italo Calvino, op.cit., 1988).

A mio parere, certo non può compararsi la vasta produzione scritta di Calvino che spazia dalla narrativa (romanzi, racconti, novelle) alla saggistica e si estende dal 1945 fino alla sua morte nel 1985. È anche nota, altresì, la predilezione di Calvino per il disegno, e quindi per l'immagine visiva, e per il linguaggio tagliente e scorciato che si scorge già agli inizi manifestandosi nel campo della caricatura e in alcune vignette pubblicate sul Bertoldo, anni prima dell'uscita del primo romanzo; qui, possiamo osar ricordare che Borzillo, formatosi come scultore presso l'Accademia di belle arti di Urbino, ha sviluppato nel tempo un suo linguaggio artistico pittorico – di questa esperienza, in parte travagliata, ne abbiamo riscontro nel romanzo – che trasferisce ora nella scrittura.

Le parole di Calvino trovano, in quest'ultima forma espressiva di Borzillo, appunto la scrittura – quantomeno nella sintonia delle intenzioni –, una prova schietta, verace, d'una configurazione creativa distante anni luce dalle odierne forme di “marketing editoriale di influenza” che, a titolo d'esempio, ha visto, alcuni anni or sono, un successo di vendite della produzione letteraria seriale di Federico Moccia, tra l'altro conterraneo d'adozione essendo stato anche Sindaco di Rosello.

Per quanto riguarda la lingua – veicolo principale che trasporta il lettore dentro la peculiare storia di “Nascaredda” al centro della quale ritengo ci sia l'amore di Bruno per Naria - non va molto oltre il fondo di corretta colloquialità affabile, e quel che ne esorbita (forme dialettali o neoforestierismi) rimane sempre a livello di germoglio ed eccezione, quasi ad evocare una timidezza del “dire”.

Anche la prassi neologistica e soprattutto la formazione di alterati valutativi non arriva a un grado di deformazione estremistica tale da poter mettere a rischio la comprensibilità del testo. Anzi, superate le prime trenta pagine, si riesce avidamente e con interesse crescente a scorrere tutte le altre.

Un discorso a parte merita l’uso del borzillese pretto, certo non ultravernacolare, che veicola insieme – e non senza contraddizioni – una mitologia identitaria dell’origine e una mitologia postmoderna della trasparenza e della chiarezza. Trasparenza e chiarezza che nella trama, nelle vicende narrate, l'asse portante del romanzo, rifulge brillantemente. Questo è, a mio giudizio, l’aspetto migliore di “Nascaredda”: un “francescanesimo” attualizzato in una curvatura letteraria, un po' picaresco, certo, ma convincente nella semplicità dell'argomentare, non proponendosi come “sacro modello” o recependone uno in particolare reperibile all'interno del mercato editoriale internazionale contemporaneo.

Siamo in presenza di una osata, meditata rottura di schemi narrativi che non evolve in velleitarie aspirazioni d'innovazione stilistica o in presunti originalissimi contenuti i quali (prevedibilmente) “devono” emozionare, “devono” stupire i lettori, come quando si prendono farmaci appositamente per guarire dal torpore patologico, facilmente rintracciabili in tanta, troppa carta straccia che viene stampata per vendere. Tale rottura in “Nascaredda” si nota nell’intensità descrittiva, nel ritmo incalzante degli episodi raccontati, in quel genuino fuoco d’artificio di termini che Borzillo innesca, io so, dopo anni di meticolosa e sofferta composizione del testo, di revisioni ed integrazioni, di cambi nella prospettiva editoriale e nel “telos”.

Come scrivono Ginevra Amadio e Luca Cirese a proposito delle opere di Luciano Bianciardi, riferendosi al “romanzo “L’integrazione” (1960) insieme a “Il lavoro culturale” a (1957) e La vita agra (1962), che compongono la “trilogia della rabbia”, Bianciardi è sempre asincrono e fuori contesto. Profondamente maremmano, stretto tra un desiderio di fuga e un’endemica incapacità di adattamento, capace di testimoniare al tempo del “miracolo all’italiana” miserie e bagliori di una trasformazione epocale. Indimenticabili ancora oggi alcune pagine che scrive nella sua «storia della diseducazione sentimentale in Italia, al tempo del Miracolo», come Luciano Bianciardi annunciò il capolavoro che ha compiuto sessanta anni”. Ebbene, anche Borzillo s’avventura controcorrente in un “racconto vero, aggressivo, chirurgico”, ben sapendo che nella “società liquidissima” di questa parte del mondo, è permesso di “ignorare” qualsiasi libro, concetto, comportamento difforme o semplicemente per inedia – ed alcuni si ostinano a chiamarla “libertà d’opinione” - “non lesina crudeltà espressiva in un impasto linguistico rabbioso, tra parodia e naturalismo sordido, per smascherare il “ben fatto”, il “decoroso” mediante bruschi contrasti, nello stridio di combinazioni impossibili”.

Anche “Nascaredda”, a me pare, “reca tracce di un’ubriacatura nemica di ogni economia mentale, sia a livello sintattico, dove le parole rompono le relazioni, si disallineano prima di finire la proposizione, sia sul piano semantico. Le combinazioni arrivano così a rallentare il tempo, per indagare un’epoca che si muove e sfugge. Per comprenderla, occorre dunque disintegrare schemi e sudditanza ideologica a categorie già date”.

Sembra, per questa sottostante simile natura dello scritto di Borzillo a quella di Bianciardi, di poter rintracciare analogicamente, in “Nascaredda” una particolare verve autorale, quella di un Charles Bukowski frentano, un esponente, per così dire, di un genere di letteratura dell'immanenza in grado di raccontare efficacemente il “presente” niente affatto edulcorato, imprigionato da una razionalità strumentale, bensì che, al contrario, in questo tipo di narrazione dell'immediatezza, l'autore diventa effettivamente libero di esporsi – senza dubbio passionalmente più che provocatoriamente (considerato che “provocatorio” è stato ritenuto, ad esempio, Achille Lauro, sostenendo che il travestimento faccia del performer un artista musicale, un cantante o, addirittura, un genio della composizione) – anche alle ingiurie dell'eventuale sconfitta, alle invettive, sempre livorose e gratuite, tipiche del perbenismo borghese, ancor più in una cittaduzza di provincia come Lanciano, perbenismo che è vocato alla repressione ed all'autorepressione e che alla fine uccide le persone, stigmatizzandole come avviene solo in queste lande di marginalità rispetto alle metropoli.

Il parallelo, forse ardito, con Bukowski è probabilmente autorizzato esclusivamente sotto il profilo di scrittore nonsense, narratore esordiente nel caso di Borzillo, certo non perché anche in “Nascaredda” avviene la descrizione di prestazioni sessuali, di mitiche ubriacature, di evacuazioni “liberatorie” e di puntate all’ippodromo, ma termina qui. Tuttavia, e non è il Bukowski frentano a sostenerlo, come lo scrittore statunitense, anche in “Nascaredda” « ... è il novantacinque per cento vero e il cinque per cento narrazione. È solo un po’ levigato, intorno ai bordi ...» (cit. Charles Bukowski, “Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle”, Fernanda Pivano, Intervista a Bukowski, Sugarco, 1991).

In realtà, siamo in presenza di un corposo testo di 609 pagine che testimonia un'autentica disposizione alla conoscenza, un libro che mette in discussione, testandone la verità nell'arco di quasi un decennio, l'evanescenza delle comunicazioni interpersonali, soprattutto da quando esse sono mediate da strumenti tecnico-elettronici, le quali non evolvono quasi mai in consapevolezza, in avveduta implicazione sentimentale o socio-politica, come viceversa accade, in modo genuino, ai protagonisti delle storie di cui scrive Borzillo che sono esattamente corrispondenti ai fotogrammi vitali che l'autore nel suo romanzo è brillantemente in grado di rammemorare disegnandone con meticolosa precisione i contorni di personalità, lasciando apprezzare il variegato spessore, nel racconto, mai spettacolarmente enfatizzato, degli Ego e delle relazioni che essi instaurano.

Per questi motivi se, come è stato scritto altrove, “la parola cirrosi sta a Bukowski come un vestito di Prada a Cristiano Ronaldo”, è possibile parafrasare tale affermazione dicendo che se la bellezza non è nei Musei, nelle gallerie d'arte varia o nelle case private, dove poterla trovare ? La mia risposta è: nella dignità osservativa, “pragmatica”, oltreché comportamentale, e, conseguentemente, nella risata e nella tenerezza, come pure in una sorta di matura innocenza, che costituiscono insieme la qualità principale dello scritto, corrispondente alla qualità morale non solo del messaggio implicito nel romanzo, ma dell'uomo che si è fatto scrittore rifuggendo dalle periferie della vita sociale come destino e riuscendo coraggiosamente a rintracciare una possibilità di ribaltamento dell'alienante vivere quotidiano, una concreta destinazione del corso esistenziale, frequentando assiduamente l'utopia, cioè ciò che non è stato ancora realizzato, ma che è immanente, seppur silente, in ciascuno di noi.

Se la narrazione di Borzillo sembra fragile e precaria essa, in verità, non è che un riflesso dell'onestà intellettuale, della delicatezza propria di ogni utile irriverenza, di ogni gesto che osa il cambiamento, è un riverbero della difficoltà ad uscire da violente e ossessive forme d'omologazione, non solo linguistica (si ponderino nuovamente in proposito, le idee di Pier Paolo Pasolini, alcune delle quali – sui processi di “acculturazione” - le espresse il 9 Dicembre 1973, sul Corriere della Sera, titolando il suo intervento “Sfida ai dirigenti della televisione”; questo articolo è pubblicato nel saggio “Scritti corsari” del 1975).

In definitiva, la narrazione di Borzillo è il portato di una ripercussione della complicazione insita nell'arginare e contrastare efficacemente quell'essere circondati – tutti – da un fondale di cartapesta tipico di Hollywood o di Cinecittà, come nel noto film “The Truman Show” (diretto da Peter Weir nel 1998), ove annegare la malinconia, la tristezza e la timidezza, stati emotivi che pur sono avvertiti fin da bambino, declinate nelle modalità frentane (la tristemente nota “lancianesità”, da alcuni malintesa forma antropologica di cui essere orgogliosi …), indotto com'è stato il nostro autore a diventare cittadino di questo vasto mondo troppo in fretta, trascurando giocoforza la principale indole artistica.

Si è, dunque, in presenza di una coriacea attitudine narrativa forgiata nelle difficoltà, nonostante l'autore di “Nascaredda” le abbia abilmente dissimulate con inesauribili scorte di autoironia e di forza interiore – che dovrebbe essere imitata dalle cosiddette nuove generazioni - nel mostrare la vacuità di alcuni stereotipi incarnati. Il tradizionale struscio lancianese è una calzante testimonianza di suddetti stereotipi.

“Nascaredda” non parla di luoghi comuni, i protagonisti della sua giostra verbale, in bilico tra miseria, assurdità e follia, non godono del lusso di una rete di protezione e nemmeno l'autore si traveste da scrittore o da portavoce del popolo. Parla di sé, rielabora le proprie esperienze, le insaporisce, ma senza fingere.

A differenza di altri affermati scrittori, Borzillo non scrive una sceneggiatura per una fiction, esibisce con noncuranza sia difetti che debolezze, in quanto utili a capire di sé, le incoerenze e le crudeltà che albergano in tutti; non cerca di piacere a tutti i costi mostrandosi migliore di quello che è; al contrario, mette al riparo la propria umanità grazie ad un disincanto camuffato da cinismo. Non ci tiene ad atteggiarsi ad artista, nonostante lo sia.

Concludendo si può dire che la “verità” è un elemento che caratterizza il romanzo, “verità” peraltro ricercata come espressione letteraria dell'autenticità che dovrebbe contaminare la vita quotidiana, in tutte le sue forme, un valore che Borzillo, a mio avviso, intende umilmente trasmettere al prossimo.

Tale “verità” si rivela in varie forme e si manifesta nella sua scrittura e nei mezzi linguistici che lo scrittore predilige indagando lo spazio-tempo del suo mondo interiore. Auspico che qualche regista cinematografico ne curi la trasposizione filmica, ma senza accentuare il registro interpretativo surrealista o immaginifico; preferirei se ne occupasse un redivivo Francesco Rosi piuttosto che un epigono di Federico Fellini.

Per dirla con Orazio (poeta romano, 8 Dicembre 65 a. C., 27 Novembre 8 a. C.) - Strēnŭă nōs ēxērcĕt ĭnērtĭă (Epistulae I 11, Hor. Epist. I 11; ci tormenta una faticosa inattività -, Borzillo si è emancipato con questa opera prima da una rischiosa patologia dell’animo che Orazio, con felice ossimoro, ha definito appunto strēnŭă ĭnērtĭă, quella invadente “noia smaniosa”, espressione di scientifica nettezza che addita il sintomo eminente di un male noto: la smania che ci spinge a vagare qua e là alla ricerca di non sappiamo bene cosa, nel tentativo di trovare soddisfazione a desideri di cui non sappiamo la mira.

Non c'è altro da affermare, restando nell'entusiastica attesa di successivi componimenti. 

Prof. G. Dursi 

domenica 19 aprile 2020

Grazie Luis


Ironia e realtà nei libri di Sepúlveda

In una intervista, Luis Sepúlveda dichiarava di considerarsi “scrittore di stampo cervantino, un ‘nipotino’ del grande Cervantes, colui che più di chiunque altro è stato un maestro nell’uso dello strumento dell’ironia, un’ironia intelligente e sensibile, al contrario del sarcasmo - che è sempre vigliacco e offensivo” 1.
Il ridondante ricordo pubblico di questi questi giorni e la sovrabbondanza di “conoscitori” dell'opera sepúlvediana, dopo la sua morte, fa capire che dell'ironia c'è bisogno.
A proposito di Luis Sepúlveda Calfucura, scrittore, giornalista, sceneggiatore, poeta, regista e attivista cileno naturalizzato francese, analizzando tutti gli scritti - effettivamente letti - dello scrittore e passando in rassegna certa pubblicistica minore (stampa, aneddotica divulgata radio-televisivamente, post sui social network), risulta che di parte della produzione letteraria, artistica, testimoniale e del repertorio di interventi ed interviste, espressione nel corso degli anni della biografia sepúlvediana, della violenza subita, dell’orientamento rivoluzionario, della lotta anti-sistema, della sua militanza per le libertà, delle sue idee e dei suoi comportamenti, non c’è traccia.
Forse, in queste pittoresche circostanze, Luis, spettatore del tramestio intorno al suo trapasso, avrebbe abbandonato la pura ironia di cui è stato capace, per usare un “sano” sarcasmo.
É l'ironia, invero, il notevole lascito socio-culturale di Luis, un metodo corrosivo di lettura veritiera della realtà umana che conduce sovente a rilevare l'infondatezza di certi stereotipi sulle differenze, sulle discriminazioni e sui confini che, separando, escludono; ironia che permette di rintracciare il carattere di mera opinione, subdola ed interessata, spacciata per conoscenza, del caratteristico linguaggio del potere e delle élite. Inoltre, l'ironia è anche la chiave per entrare nel suo universo creativo ed emotivo che aiuta, husserlianamente2, a Wirwollen auf die “Sachen selbst” zuŗcückgehen !
Luis non vuole affatto accontentarsi di pure e semplici parole, pur cesellate ad arte, perché la scrittura è vita, perché la vita “parla”, basta saperla ascoltare, saperla interrogare. La sua narrazione non s'avvale di intuizioni indirette, d'una potente architettura razionale all'uopo dispiegata, non è perizia da sceneggiatore, tanto meno fantasia obbligatoriamente illogica, viceversa è un prezioso voler tornare “alle cose stesse”, un lavoro, antropologico prima che letterario, di riduzione eidetica, ovvero un sublime comunicare – ossia, nobile umana commistione di abnegazione “nello scavo” e fervore solidaristico – attrezzato nel “dire” generoso. Si tratta del suo genuino rappresentare con la scrittura il passaggio dalla considerazione cronachistica delle vicende come tali alla loro essenza nel vissuto personale e sociale che le coglie incastonandole e collocandole abilmente nella memoria.
In un altro passo dell'intervista richiamata, Sepúlveda afferma: “Io cerco di scrivere dal punto di vista di una sana ironia fatta di amor e umor. In più sono cileno, e devo dire che una particolarità dell’uomo cileno è quella di ironizzare sempre soprattutto su se stesso - a differenza degli argentini. Se un argentino viene lasciato dalla moglie cercherà subito uno psicanalista e al massimo scriverà un tango tristissimo, un cileno invece darà una festa per gli amici per raccontare, trasformare l’abbandono cercando delle spiegazioni e ridere anche di questo. Negli anni del carcere, che vi assicuro sono stati molto duri, non ci trattavano bene, ci torturavano e una delle torture più comuni era quella di strapparci le unghie dei piedi, ma anche lì quando tornavamo alle nostre celle con i piedi sanguinanti e dolenti non era raro sentire qualcuno che diceva “Sono stato dal podologo stamani, una vera bestia, ma non gli ho certo lasciato la mancia!” [ … ] “I romanzi non vengono scritti dall’autore ma dai personaggi, lo scrittore si limita a seguirli nel loro percorso”.
La “trilogia dell'amicizia” della quale “Gabbianella” fa parte assieme a “Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza” (Ugo Guanda Editore, 2013) e “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà” (Ugo Guanda Editore, 2015) è una delle espressioni migliori di intima connessione tra scrittura e vita, di una concezione dell'arte del raccontare storie come atti umani perché politici, mai evasione consolatrice o alienante, d'una determinata ed autorevole convinzione di voler tornare alle cose stesse, di un impegno etico nello spronare il genere umano a fornire una migliore prova di sé.
In particolare, nell'emblematico libro “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” (Salani Editore, 1996) Luis narra l'inverosimile favolistico, ma con una inusitatamente efficace aderenza alla realtà. È l'altrove che descrive, eppure è dell'immanenza che sa trattare perché svela l'oggettiva valenza della diversità palesandola come utopia, come qualcosa che non è stato ancora compiutamente apprezzato, presentando una fratellanza da realizzare ancora, tuttavia presente, constatabile, quindi possibile e che può germogliare grazie alla “coscienza”, alla forza dei proponimenti soggettivi, alla messa in valore dell'ardimento individuale e all'affezione personale per l'altro di cui ciascuno è ricco.
Ecco, l'assenza dell'empirico che nasconde il “senso”, del quotidiano algoritmico accadere, del banale prevedibile, evoca energicamente un desiderio, mai fuga dalla realtà, che ha le sembianze della manipolazione benefica dell'argilla; esattamente come quel vero e proprio imprinting esistenziale che contraddistingue l'infanzia, quell'operare con le mani che i bambini iniziano molto presto, come forma di conoscenza degli oggetti: da sempre al centro dell’interesse e della loro curiosità, costituisce uno strumento, per maturare identità, autonomia e autentica conoscenza, che pare smarrirsi con la “adultità” e che Luis recupera e indelebilmente dona ai lettori come prescrizione non autoritaria.
A questo proposito, la trama va ricordata, perché la metafora scuote ancora. Il libro s'apre con l'impeto di Kengah, una gabbiana che cerca pesce per nutrirsi nel mare del Nord ricco di giacimenti di petrolio e di gas naturale, mentre penetra le onde. Lasciata sola nell'impresa dallo stormo che s'allontana, riemersa dai flutti, scopre d'essere impedita nel volo da una chiazza di petrolio che rischia di tarpargli le ali penetrando nella pelle. A fatica, con il greggio addosso, ascende verso il cielo e giunge ad Amburgo, precipitando tramortita su un balcone di una casa.
Qui Kengah incontra Zorba, un gatto, esemplare d'una specie dissimile di cui non diffida, a cui lei lascia in custodia, al culmine estremo d'una lucidità che sta per perdere, l’uovo che depone. La gabbiana, perdendo le forze strappa una promessa al gatto: maturare l’uovo, prendersi cura del nascituro e di insegnargli a volare. Il gatto si rende conto della follia dell'ultima esigenza dichiarata dalla gabbiana morente; certo, può tentare l'accudimento e avere successo nell'occuparsi del pulcino, può essere un riferimento nella sua vita, ma, senza dubbio, non sa insegnargli a volare, visto che è un gatto e non ha idea di come si faccia.
Zorba capisce che la gabbiana sta per morire e delira, ma quella che sembrava una richiesta impossibile da esaudire, pazientemente comprendendola, pare potersi realizzare. Il gatto, avvalendosi dei suoi amici Diderot, Colonnello e Segretario, tutti strambi personaggi, con dedizione e inclinazione sentimentale, riesce nell'impresa prendendosi cura di Fortuna, la piccola gabbianella, “come se fosse uno di loro, una loro figlia”. Tuttavia, resta l'ardua esperienza dell'insegnargli a volare. Per quanti sforzi facciano, Zorba e i suoi amici da soli non riescono a far spiccare il volo alla gabbianella, hanno bisogno di qualcuno che sia in grado di dargli una mano. A questo punto i gatti sono costretti a rompere un tabù e a parlare in una lingua diversa dalla loro, vanno così a chiedere aiuto all’unico individuo che pensano sia in grado di far mantenere la promessa: un uomo, un poeta dall’animo nobile e sensibile che riesce a comprendere la loro richiesta. Luis, riesce a porre l’accento sul doppio volto dell’uomo, che oltre a essere il responsabile dell’inquinamento dei mari, è in grado di fornire il suo aiuto e cambiare le cose, mostrando la sua parte sensibile e il suo rapporto simbiotico con l’ambiente circostante (rif. a Rossella Caso, Tra gatti e gabbiani. Un incontro tra infanzia e intercultura, Aracne, 2013; saggio incentrato sulla lettura pedagogica della favola di Luis Sepúlveda).
Questo è solo un aspetto della storia, poiché nel libro sono tanti i protagonisti e tante le contraddizioni che costringono ad intessere legami, a costruire rapporti che si susseguono, primo tra i quali quello della scoperta della diversità e della necessità di trovare un punto comune che riesca ad avvicinare (rif. a Rossella Caso, op. cit.), partendo dalla problematica esercitazione della comunicazione e della condivisione. Un vero e proprio “festeggiare le differenze”, come accade talvolta nella vita sociale, come dovrebbe accadere sempre nella scuola pubblica alla quale bambini e adolescenti vengono affidati. Il messaggio, apparentemente onirico, bensì utopistico, veicola, facendo breccia, la categoria del “possibile”. L'opera di Luis agisce come specchio rivelando l'indole di ciascuno, lo spessore morale, la capacità di accantonare l'ego per far posto al “noi”.
Tanti piccoli gabbiani nelle nostre scuole (rif. a Rossella Caso, op. cit), una realtà incontestabile, un'evenienza che fa comprendere che ogni relazione, ogni convivenza è sempre un incontro interculturale, un'amalgama tra diversi.
Ci si deve chiedere: i nuclei familiari e la scuola sono pronti a collaborare e ad accogliere la “diversità” come un'opportunità antropologica ? Non sempre di questo compito si è tutti consapevoli; le forme ed espressioni della relazione tra diversi non è impostata, in modo scontato, per attuare l'inclusione.
La “cura” degli studenti che le figure genitoriali ritengono debba essere svolta dagli insegnanti a volte non corrisponde alle intenzioni dell'integrazione solidale. Gli insegnanti educano alla libertà ed alla responsabilità, altri disfano la tela policromatica. La scuola pubblica, costituzionalmente orientata e improntata ad un un principio etico interculturale, spesso viene smentita, nel suo operato, da altre più influenti agenzie diseducative.
Che si renda evidente grazie allo scotimento di Luis, senza ipocrisie o cedendo al fascino delle rimozioni, questo dato di fatto: la scuola pubblica è e deve continuare ad essere un ambiente interculturale - che va salvaguardato per quello che è - nel quale gli stereotipi, quasi come piante velenose, non devono mettere radici, strutturando percorsi di incontro e sviluppando il pensiero divergente. Il romanzo di Sepúlveda, classico della letteratura non solo per l’infanzia, racchiude una straordinaria visione della “civiltà”, dai toni tenui, struggenti, ma anche vigorosi; abbiamo tra le mani un capolavoro che rende protagonista il lettore sospingendolo a riflettere e ad agire inglobando esigenze culturali ed etiche, a partire dai binomi di notevole rilevanza quali identità/alterità, noi/loro, accoglienza/rifiuto (rif. a Rossella Caso, op. cit). La gabbiana morente è il mondo adulto, i gatti sono l'équipe educante protesa nell'attività di insegnamento, la gabbianella rappresenta la generazione prossima, esito e causa, all'unisono, dei miglioramenti a portata di mano.
Un testo così polisemico e immaginifico che, come nella migliore tradizione delle fiabe, si apre per regalarci un ventaglio di significati sui quali poter ampiamente rappresentare prioritariamente quelli smarriti e discutere poi come poterli recuperare.
Pertanto, così Kengah diventa paradigma di ogni migrante che — come tragicamente sappiamo — non riesce a realizzare il suo desiderio e trova la morte in circostanze avverse. L'altro interpellato e che interviene nella vita però offre una seconda opportunità: la gabbiana assegna agli altri il dono di un modo inedito e migliore di convivere fra diversi. La condizione di orfanezza della gabbianella che si crede un gatto; la società felina che si interroga su questa strana creatura ma non la discrimina, anzi la protegge e la guida; i cattivi topi che guardano con altezzosità e intolleranza ciò che i gatti stanno facendo: un microcosmo che replica simbolicamente ciò che accade nel mondo, le cui dinamiche evidenziano la difficoltà del confronto, del dialogo e dell’integrazione. Dunque un libro che può essere proficuamente — e, aggiungiamo, gioiosamente — usato per insegnare a pensare ai nostri figli e alunni in maniera critica e intelligente, a riflettere proiettando sentimenti ed emozioni in un mondo distante che tuttavia è vicino all’immaginario dei meno “educati”, i più giovani (rif. a Rossella Caso, op. cit).
Luis, in definitiva, esorta alla collaborazione nell'abbattere i muri. Collaborazione innanzitutto tra chi elabora pedagogicamente per mestiere l'inclusione, progetta la formazione posta nella concreta prassi della vita scolastica di ogni giorno e coloro che dovranno accogliere i frutti di tale prezioso lavoro.
Il lascito socio-culturale, di cui all'inizio, può essere riassunto in questa massima, nota allo scrittore cileno al quale siamo grati: “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Questa frase, resa celebre da Karl Marx, è in realtà presa dagli Atti degli apostoli (cfr. At 4, 35).
È Luis stesso a dircelo dando la parola alla vita, rispondendo alla domanda circa il ruolo della produzione letteraria (Intervista a Luis Sepúlveda di Elena Torre, cit. in nota) ed alludendo all'impegno nella costruzione di reti interculturali contro tutte le forme di oppressione, di colonizzazione e di razzismo: “La letteratura ha una missione etica o serve solo a raccontare storie ?” Credo innanzitutto che uno scrittore debba narrare non da un punto di vista individuale ma collettivo: deve avere come punto di partenza un generoso ‘noi’. L’opera di uno scrittore trova la sua più profonda giustificazione etica non tanto nelle cose grandi, ma in quelle piccole nella forma e grandi nel contenuto. Qualche anno fa uscivo da una libreria di Parigi e venni avvicinato da un ragazzo che avrà avuto vent’anni. Mi disse che aveva letto Un nome da torero, forse uno dei miei romanzi dove ho messo più di me stesso. Mi chiese se avevo un minuto da dedicargli e dal momento che ce l’avevo siamo andati a prendere un caffè. Vedevo che era molto emozionato, non riusciva a parlare così l’ho spronato a farlo. Mi ha raccontato di essere il figlio di Perez, massimo dirigente del Mir, ucciso dalla dittatura. Mi ha raccontato dell’odio che provava per suo padre perché era sempre assente, perché non lo accompagnava alle partite di calcio, non lo andava a prendere a scuola come tutti i suoi compagni. Leggendo il mio libro aveva capito chi fosse stato realmente suo padre e per cosa si era battuto, per cosa era morto. E allora non solo aveva capito, ma lo aveva amato, rispettato e di lui era divenuto orgoglioso. Ho realizzato proprio in quel momento la carica etica profonda della letteratura, un dovere a cui non posso certo sottrarmi”.
Giovanni Dursi © Aprile 2020
Docente M. P. I. di Filosofia e Scienze umane

1 Intervista a Luis Sepúlveda di Elena Torre, http://www.mangialibri.com/.
2 Si utilizzano le opere di E. Husserl in traduzione italiana, in questo caso con riferimenti alle edizioni della Husserliana. La traduzione italiana di Ricerche logiche è di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, 19823, vol. I,p. 267.

lunedì 13 agosto 2018

Claudia Provenzano, scrittrice di nitido talento

Claudia Provenzano è autrice del romanzo Le ragioni degli altri, ma non solo: ecco infatti la sua bibliografia.


Storia di Miryam (2007- pubblicato da Armando Curcio nel 2016)- vincitore del premio Franz Kafka Italia 2017, è la storia laica e profana della maternità di Maria di Nazareth, nota come la madre di Gesù, senza arrivare però a toccare il momento della natività. In questo libro la sua figura di donna è resa utonoma, completamente svincolata dalla quella del figlio cui è tradizionalmente sempre associata. Storia di Miryam è una ricostruzione letteraria della biografia di Maria e della sua gravidanza spiegata attingendo alle fonti storiche del Vangelo e dell’Antico Testamento, senza fare alcun riferimento a spiegazioni divine e spiritualistiche. Maria è la controfigura reale dell’icona eterea della Madonna della tradizione religiosa cattolica. E’ una giovane donna di spiccata sensibilità esistenziale, che si interroga sulle credenze e i costumi del suo tempo, sui principi teologici del bene e del male e sull’esistenza di Dio con la freschezza di un’intelligenza incontaminata, fino a sfidare con determinazione, non senza paura, le convenzioni e le regole imposte dalla cultura patriarcale dell’epoca. In questa storia si disegna il profilo di una ragazza di quattordici anni dai tratti umani e del suo amore per Gabriele, un ragazzo reale, in carne ed ossa. Si narra del concepimento naturale e illegittimo di un bambino e della difficile scelta che Maria, nel contesto della società ebraica antica, con la complicità di Giuseppe, l’uomo onesto, generoso e lucidamente razionale che le fu destinato in marito, compie per salvare se stessa e il suo bambino. 
Miryam è la ragazzina ebrea narrata nei Vangeli in pochi scarni passaggi il cui profilo e le cui vicende vengono ricostruite dall’immaginazione femminile di una donna contemporanea che vede nell’amore terreno il vero senso dell’esistere umano e che trova nel libero arbitrio l’esercizio della propria ragione in relazione a domande metafisiche e alla fede. Una storia universale che va oltre il tempo per raggiungere ed entrare in risonanza con gli animi delle donne di oggi. Storia di Miryam è la storia del concepimento del figlio di Maria come non si è mai sentita prima.  Una giovane donna, due uomini, una madre, un’amica in un intreccio emozionante di amore, passione e ribellione.

Le ragioni degli altri (2015- pubblicato da Armando Curcio nel 2018) – Si tratta di un moderno racconto corale, in cui le vite dei vari personaggi si intersecano fra loro scambiandosi i punti di vista, parlando uno dell’altro in un reciproco gioco di specchi teso a dar voce alle ragioni degli altri. Tuttavia i vari personaggi non hanno lo stesso peso, ma si irraggiano da un unico centro, quella della protagonista, Clodel e di suo figlio. Un libro articolato sia per l’intreccio dei personaggi sia per l’incastro delle voci narranti. Strutturato su continui sbalzi narrativi dalla prima alla terza persona, conduce il lettore nel labirinto di un gioco prospettico fatto di salti dentro e fuori la psicologia dei diversi caratteri. Rovesciamenti del punto di vista che hanno lo scopo di fornire una rappresentazione a tutto tondo del personaggio, descritto sia dall’interno della sua soggettiva consapevolezza, sia dallo sguardo esterno più completo ed oggettivo di un ipotetico osservatore. Sono qui rappresentate, in uno spaccato di grande attualità, varie esistenze: storie di donne che concepiscono da sole i loro figli con l’inseminazione artificiale e di donne ebbre di autonomia che consumano gelide esperienze di sesso in una notte, storie di relazioni omosessuali, di trans-gender, di bulli e vittime di bullismo, di autolesionisti, di uomini-oggetto sessualmente usati come dispensatori di seme e di uomini figli del cambiamento dei tempi non più capaci di gestire la loro virilità, fino a tematiche più tradizionali come il delitto passionale, la sottrazione della patria potestà, l’adozione, l’occultamento della paternità biologica, l’adescamento e l’abuso di minori. Temi talvolta drammatici non privi di accenti ironici ed umoristici e mai caratterizzati da risvolti nichilistici. Il ritmo del racconto è spesso incalzante e la narrazione viene qua e là insaporita da momenti spiccatamente erotici e talvolta truculenti.

Libri in corso di stesura finale

Figli mancati (2017) : affronta le storie difficili di una serie di ragazzi con famiglie problematiche il cui trait d’union è la comune professoressa di psicologia di un istituto professionale: i ragazzi frequentano tutti, taluni negli stessi anni, taluni in anni diversi la stessa scuola. Daniel, il bambino ‘esposto’, figlio abbandonato davanti al negozio di McDonald che viene adottato dal poliziotto chiamato al momento del ritrovamento. I tre fratelli Arianna, Iacopo ed Elia, i figli di Giunone, tre fratelli sottratti dall’assistenza sociale alla madre obesa dichiarata incurante per le sue difficoltà a muoversi. Amal e Ikram, le ragazze senza velo, due sorelle algerine nate in Europa punite dal padre con la rasatura dei capelli per il rifiuto del velo. Agnieszka, la bambina ‘selvaggia’, bambina ucraina ritrovata dall’assistenza sociale allo stato selvaggio nel fienile della casa del padre, suo unico famigliare. Liang, il ragazzo nella cruna dell’ago, una studentessa liceale cinese nata in Europa sottratta alla famiglia dal padre per lavorare nella fabbrica nonostante i suoi risultati eccelsi a scuola. Danush, il ragazzo dei materassi, la storia di un bambino immigrato ad un anno con la madre dall’Albania, che dopo 12 anni di stenti morirà lasciandolo sulla strada. Bianca, la bambina di cera, la ragazza di famiglia borghese che scappa di casa e diventa una punk’a’bestia,


Libri in corso di seconda stesura

Le gravi madri (2017): Tre madri e i loro figli. Madri figlie di altre madri. Madri presenti, assenti, troppo presenti, ossessive, noncuranti, ipercuranti. Storie di vita che si intrecciano in un arco di tempo che va dagli anni ’70 del Novecento ad oggi. Storie di carriere in ascesa o in rovinosa caduta, storie di eterni adolescenti alla ricerca del proprio posto nel mondo, storie di amori e delusioni, di fedeltà e tradimenti, di gravidanze non volute, di adozioni mai rivelate, di distruttive battaglie legali per l’affido dei figli, di perfidi scambi di neonati nella culla, storie di stalking e di molestie pedofile, di ragazzi abusati, storie di senzatetto e di persone ai margini della società, storie di donne sole e di donne sempre alla ricerca. Storie tutte a loro modo segnate dalle tracce che, pur senza volerlo, “gravi madri” hanno lasciato sui loro figli. (“I nostri genitori hanno determinato  le nostre ferite, le nostre ferite ci sono genitrici”. James Hilman.)

Libro in corso di prima stesura

Il corpo parla: la vita di persone il cui malessere esistenziale si esprime attraverso il corpo.

Convenzionali ha il piacere di intervistarla per voi.

Da dove nasce Le ragioni degli altri? Che cosa rappresentano gli altri per lei?

Questo romanzo nasce dallo stupore per Le vite degli altri, che poi, in effetti, era il suo titolo originale. Ad un certo punto mi sono resa conto di aver collezionato un ventaglio variegato di storie di vita, osservazioni e testimonianze che avevo avuto modo di raccogliere nelle mie diverse esperienze di viaggio, nei miei studi all’estero, nel mondo dell’arte prima e dell’insegnamento dopo. Ogni incontro era per me una sorpresa, una gemma che ad attenderne l’apertura sbocciava sotto i miei occhi e a scrutarla mi rivelava il suo meraviglioso interno. Reale e immaginario. Ogni esistenza è un mondo denso e intenso che l’esperienza tesse col filo di seta, prezioso e resistenze, dei vissuti. Di questi mondi della nostra contemporaneità io volevo raccontare, fantasticare sulle loro ragioni. Perché non c’è verità nella nostra conoscenza. Ciò che cogliamo nelle storie delle vite degli altri non è che un’interpretazione soggettiva fatta della materia delle nostre credenze, delle nostre aspettative, dei nostri desideri e delle nostre paure, che vi proiettiamo dentro. E il romanzo è lo strumento che meglio coglie questa verità: verità interpretata. Dunque volevo ricostruire, inventandone le ragioni, le cause, l’origine, quelle vite che incrociando sulla mia strada mi avevano attratta, ammaliata, accalappiata.  E volevo renderle prototipo. Caso particolare che testimonia di tanti casi analoghi e simili, che ritornano sotto altri nomi ed altre fisionomie, ma che alla fine nel loro nocciolo essenziale si ritrovano nel minimo comun denominatore di un modello universale. Storicamente universale. Poiché ogni esemplare di vita è il precipitato storico della sua epoca. La lesbica, il transgender, il bullo, lo stalker, l’autolesionista, il pedofilo, il tossicodipendente, l’immigrato, il senzatetto, le donne single, le madri che concepiscono con l’inseminazione artificiale, le famiglie omosessuali, ricomposte, monoparentali… sono figure legate al loro tempo. Alcune sono sempre esistite ma assumono caratteri diversi a seconda dell’epoca in cui vivono, altre sono novità assolute sorte dalle innovazioni tecnologiche e culturali della modernità.


Parlando con le persone, scavando nei loro racconti, interrogando e frugando nei loro vissuti ci si rende presto conto che ogni esistenza non solo è un microcosmo complesso, un coagulo affascinante di emozioni, pensieri, bisogni e aspirazioni tutto da scoprire, ma anche che a seconda del punto di vista da cui la si guardi assume colori e forme diverse. E questo è il personaggio di un romanzo: il prototipo di una vita nella quale i lettori possono ritrovarsi. Più ci si addentra nella vita di un individuo, poi, più ci si accorge che, attraverso una fitta rete di relazioni, si intreccia a quella degli altri individui. Quelle vite degli altri che tanto mi intrigavano diventavano così un poliedrico gioco di specchi in cui l’essere di ognuno si definisce non solo in base a sé stesso, ma anche in base a ciò che gli altri vedono di lui. Ecco allora Le ragioni degli altri.

Dov’è la ragione quando si dialoga, si litiga, ci si lascia?


La ragione ha il suo luogo nel soggetto. Dunque non c’è una ragione, ci sono una, nessuna, centomila ragioni. È proprio questo che ho cercato di esprimere nel mio Le ragioni degli altri. Ed ho cercato di farlo tanto a livello dei contenuti quanto a livello narratologico utilizzando una voce narrante poliedrica, che continuamente balza da un narratore esterno ad uno interno, da un narratore che si rende complice del lettore ad uno che lo tradisce e balza fuori dal noi che prima li univa svelandogli dettagli e retroscena di cui lui solo sa.

La nostra è una società capace di empatia?


No. Sebbene le teorie sperimentali della psicologia abbiano verificato l’esistenza di neuroni specchio, il che dimostrerebbe il fatto che l’empatia è innata, tuttavia ogni comportamento innato nell’uomo, a differenza di quello animale che è rigido ed immodificabile, è plastico, modificabile in base all’esperienza che compie. L’apprendimento, la capacità di cambiare adattandosi all’ambiente, è infatti la caratteristica peculiare dell’essere umano, che non a caso ha predominato e vinto, indiscusso dominatore del mondo, su tutti gli altri esseri viventi. Pertanto anche l’empatia lo è. Modificabile, intendo. Se è vero che ha una base innata è pur vero che è modificabile dall’ambiente, dunque dal contesto storico-sociale in cui si esplicita. Nel nostro, nella società occidentale liberista, forgiato sul principio morale – e biologico– dell’egoismo, dove cioè la sopravvivenza sociale giustifica il primato dell’io sugli altri, l’empatia trova il suo spazio d’esistenza nella sfera del privato, nell’intimo delle proprie emozioni e dei propri affetti, ma nei confronti dell’altro in senso puro – l’estraneo –  no.

Il suo romanzo tocca molti temi: che importanza riveste al giorno d’oggi l’amore?

L’amore nel senso tradizionale del termine, nel senso in cui il filosofo Platone ha disegnato per noi all’origine della cultura occidentale, l’amore ideale, solido, eterno, l’unione con la metà mancante che ci completa, al giorno d’oggi, è utopia. Letteralmente, sentimento senza luogo.  È miraggio, desiderio etereo cui si tende. Cui ci si avvicina, lo si sfiora, forse si riesce a toccarlo perfino, ma che non si riesce ad afferrare e tantomeno a trattenere. Nella contemporaneità, per dirla con il sociologo Bauman nella società liquida, l’amore è esso pure diventato liquido. Non dura, galleggia sulla zattera di un sentimento che ci transita da una fase ad un’altra della vita, si consuma, ci consuma, e muore. E poi viene sostituito con uno nuovo, insieme a noi, che rinasciamo a nuova vita.  La legge e i costumi, che si adeguano al movimento del reale, sono cambiati e ce lo consentono. Ci legittimano a viverlo in questo modo senza più paure e sensi di colpa.

Il sesso? Il desiderio?

Il sesso da sempre è la vitalità che innerva la carne del nostro essere animale. È desiderio, brama. È piacere che conduce al benessere se appagato, frustrazione che conduce a malessere e all’aggressività se inappagato. Il sesso in senso più genuinamente freudiano è il desiderio per eccellenza, è l’energia che sta alla base di ogni nostra azione, di ogni nostra scelta, è ciò che ci muove, ci scuote, sbattendoci poi vilmente a terra o lanciandoci, sublimati, verso il cielo. Dipende da come, verso cosa canalizziamo quell’energia. Senza questa energia psico-sessuale non ci sarebbe l’arte (energia canalizzata nella creatività), la scienza (energia canalizzata nell’attività intellettuale), il volontariato sociale, la religione perfino. Il desiderio, con Freud, e con tutta la psicanalisi che ne segue, è sessualità. O meglio la sessualità non è altro che desiderio. Libido. Eros. Energia psichica che scorre nelle vene del nostro corpo. Perché corpo e psiche sono un tutt’uno. Non c’è l’uno senza l’altro. Non c’è vita senza desiderio. Ma nella nostra società della mercificazione, dove tutto è ridotto a merce, è anche la più preziosa merce di scambio e il più potente strumento di ricatto.

La colpa?

Colpa o senso di colpa? La colpa è il venir meno di una responsabilità che si è coscientemente e liberamente assunta. La si può riconoscere. La si può non riconoscere. Gli altri possono imporcela, scaraventandocela addosso come proiezione della loro propria assunzione di responsabilità, che però non ci riguarda. In questo senso, allora, ci sono due tipi di colpa. Una in senso morale, interna alla coscienza, quella che si è formata in noi con l’educazione dei genitori, che è puramente personale e non perseguibile. E c’è una colpa in senso legale, convenzionale, stabilita, oggettiva, quella che serve alla conservazione della società, e che perciò viene perseguita con la legge. Le due colpe spesso entrano in conflitto, si pensi al mito di Antigone.  È  ciò che sta alla base della distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. Il senso di colpa invece è quel peso opprimente con cui la nostra coscienza morale ci schiaccia per frenare le nostre pulsioni (quell’energia sessuale di cui si parlava sopra) quando queste non riescono ad essere canalizzate e dirompono allo stato puro, nella loro più cruda animalità. Di questa animalità ho parlato in Le ragioni degli altri attraverso un paio di personaggi secondari, che compaiono fulmini e… fulminanti, proprio per la truculenza della loro pulsione non governata.

L’ossessione?

L’ossessione è la fissazione assoluta e coatta su un’idea. Alla sua origine sta ancora quella pulsione erotica, di cui abbiamo parlato prima, desiderio, mancanza che chiede di essere colmata. Quell’ energia psichica che muove, smuove, ci agita e percuote, che non può essere ignorata, ma che nondimeno può essere indirizzata. Può essere diretta verso oggetti vili e allora diventa malattia, pericolosa nevrosi, oppure verso oggetti nobili e allora diventa fonte di creatività e devozione. L’ossessione è quella che spinge ai suoi delitti il serial killer, ma è anche quella che muove in modo sorgivo la mano dell’artista, dello scienziato, del missionario. L’ossessione è il rapimento della psiche da parte di un’idea che dapprima si insinua e poi si insedia nella coscienza. È un assedio invadente e tenace, prepotente ed esondante. L’idea ti chiama a sé con seduttiva dolcezza, ti solletica l’orecchio, sussurra, suggerisce, ti invita a seguirla, e poi ti cattura. Pretende tutto per sé. Attenzione, tempo, cura. È tirannica come un neonato. (Ma ti è cara,  la ami). Non ti lascia mai, di giorno, di notte, entra nelle tue azioni, nei tuoi pensieri coscienti, in quelli inconsci, anima i tuoi sogni, ti penetra fra le fibre del corpo, si fa largo sgomitando in mezzo alle tue relazioni. Non hai un momento per i tuoi figli, per il tuo compagno, per i tuoi amici, non per Gabriele Ottaviani che ti chiede un’intervista. Non ti dà tregua. Finché non l’hai divorata, spolpata, ridotta al midollo, finché non l’hai consumata, finché non ne è rimasta neanche una briciola, non puoi fare altro.

Poi, ti senti bene. Come dopo un parto.

La violenza?

È ancora una pulsione. È una delle modalità in cui la nostra energia psichica si manifesta.  Violenza è la pulsione sessuale (desiderante, libidica, erotica) che non riuscendo a trovare una via ‘umana’ per sfogarsi in modo alternativo, si sfoga in modo arcaico, bestiale. La violenza non è solo fisica ma anche psicologica, e questa, fra le due, di certo è la più subdola perché non porta la stigmate di un livido, di un’escoriazione, di un braccio rotto, e nondimeno comporta sofferenze anche più gravi.

La paura?

La paura è il senso di impotenza di fronte ad un pericolo che mette a rischio la nostra vita, pericolo individuato che sappiamo riconoscere come tale e dal quale possiamo pertanto tenerci a distanza. La paura non è dei vili è degli oculati, è lo strumento di cui ci equipaggia la biologia per difenderci dal rischio e tener salva la nostra vita. Chi non ha paura non è coraggioso come si crede, bensì un avventuriero che non ha cara la vita.

La speranza?

La speranza è il peggiore dei mali. Fra tutte le emozioni e i sentimenti umani è quella che resta sul fondo del vaso di Pandora, proprio perché la più temibile. La speranza induce ad attendersi qualcosa di meglio eppure è vano aspettarsi un futuro migliore perché nel momento in cui si realizza ci delude sempre, perché nella speranza noi proiettiamo tutti i nostri desideri impossibili.  E la delusione ci abbate, ci schianta al suolo, ci ammazza. Tuttavia l’uomo non può vivere senza questo effimero sentimento perché è ciò che ci proietta verso il futuro e, come ci ha insegnato l’esistenzialismo, non c’è presente senza tensione verso il futuro.

Il dolore?

Il dolore è mancanza. Vuoto, lacuna, fame. È il bisogno non appagato, è frustrazione, gioia mancata, privazione. È illusione delusa.

Il pregiudizio?

Il pregiudizio è uno stereotipo sovraccaricato di un giudizio di valore assoluto. Buono-cattivo, bello-brutto, sano-malsano, giusto-ingiusto. Lo stereotipo non è altro che uno schema irrigidito che non ammette eccezioni.  Se lo stereotipo è il cemento armato nel quale rimaniamo imbrigliati poiché inibisce la nostra curiosità, la spinta ad esplorare e a conoscere tutto ciò che è nuovo, ovvero ciò che fuoriesce dagli schemi, il pregiudizio ci autorizza a disprezzare, ovvero allontanare ed annientare, ciò che è diverso da noi. Nuovo e diverso si identificano nella nostra mente nel minimo comun denominatore di ciò che è ignoto e che in quanto tale temiamo. Tant’è vero che quando ci avviciniamo e curiosi ci lasciamo andare all’esplorazione di ciò che non conosciamo ecco che, visto da vicino, ci diventa familiare e non ci spaventa più. Stereotipi e pregiudizi nascono dalla paura dell’ignoto e del diverso, e dal bisogno di autoaffermazione di chi, sapendo di valere poco o nulla, non trova alto modo di prevalere se non affondando gli altri. Facile.

Perché scrive?

Scrivo per eccesso di libido. Sempre in senso psicanalitico, intendo. Desiderio, voluttà, bisogno vitale. Scrivere è una forma d’arte. Tutta l’energia che a fiotti mi scuote, sopraffacendomi con un eccesso di vitalità, io la scarico nello scrivere. Questa è la fonte del perché su cui mi interroga. La meta è il lettore. La possibilità di entrare in risonanza con gli altri attraverso le mie parole, veicoli di umani sentimenti e pensieri e desideri che agogno condividere con gli altri. Cosa possibile se il personaggio funziona, se è credibile, se è riuscito. Per dirla con Hemingway, un personaggio è riuscito se riesce ad essere umano. Solo così si innesca quel fenomeno psicologico definito identificazione.

Qual è il ruolo dello scrittore nella contemporaneità?

Bella domanda. Qual è il ruolo dello scrittore nell’epoca contemporanea non saprei dirlo. Ci sono tanti ruoli, così è sempre stato, in base alla poetica letteraria che lo ispira. Non c’è un ruolo che la società gli possa delegare, non in un paese libero almeno. Non c’è un unico ruolo che i lettori gli richiedano di svolgere perché ogni lettore è diverso dall’altro e cerca nella lettura cose diverse. Potrei dire quale vorrei che fosse il mio. Cioè: il narratore delle vicende umane.  Vorrei riuscire, e vorrei riuscirci davvero bene, a dare voce alle emozioni, ai pensieri, ai sentimenti, alle ambizioni e ai cedimenti che impregnano quelle vicende e farne di ognuna un prototipo nel quale i lettori possano riconoscerci. E perciò sentirsi meno soli e meno insignificanti nel marasma e nell’infinita sconfinatezza dell’esistenza. Io cerco questo.

Qual è la situazione culturale italiana?

Domanda da porre ad un sociologo. Per poter rispondere dovrei fare una ricerca storica e sociale, attingere alle statistiche di enti accreditati, rielaborare tutti questi dati raccolti, rifletterci sopra e infine riuscire ad elaborare una tesi mia. Cosa che richiederebbe troppo tempo ed io il mio lo impiego per scrivere e per compiere ricerche sui soggetti di cui scrivo. Se mai scriverò un libro che abbia a che fare con la situazione culturale italiana le risponderò.  (ride)

Il libro e il film del cuore, e perché?

Ho un libro ed un film del cuore per ogni fase della mia vita. Nel momento in cui ho scritto Le ragioni degli altri il libro era Il bacio della medusa di Melania Mazzucco, perché ho sentito risuonare nella sua la mia scrittura: quella tensione della creatività per cui le parole si riversano in modo alluvionale dall’anima. L’abbondanza delle emozioni che tracimano dai pensieri, la ricchezza della frase non secca, non anoressica, ma grassa di aggettivazioni, di figure retoriche, di ridondanze, di attenzione alla melodia, alla sonorità delle parole. Affinché affiorino sfumature, slittamenti di senso, evocazioni. Un romanzo in cui la potenza della parola sia affidata alle briglie capaci dello scrittore, pur senza togliere spazio alla libertà di immaginazione del lettore. Perché non è solo con l’asciuttezza dell’eloquio, con l’alveo vuoto della parola, che si può scatenare l’immaginazione. Concepisco il romanzo come il luogo in cui chi legge può scivolare nelle parole come sulle onde di un mare che non si assopisce, indugiando su quelle che più sente affini, affezionate o affascinanti per usarle come trampolino per la propria creatività immaginifica e lanciarsi “verso l’infinito ed oltre” (per citare un famoso cartone animato). Il film, per sua natura più sintetico ma anche più visivo, non è stato uno solo. Ma in quel periodo pensavo molto a America oggi e The Hours, per l’intreccio dei personaggi, per la molteplicità poliedrica dei punti di vista, per l’architettura narrativa e a Pulp Fiction, per gli aspetti di violenza parossistica cui mi sono ispirata.

By Gabriele Ottaviani

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