menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
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sabato 6 maggio 2017

EMERGENZE E RESILIENZA NELLA SOCIETÀ CHE CAMBIA

Il convegno “EMERGENZE E RESILIENZA NELLA SOCIETÀ CHE CAMBIA” è promosso dall’Associazione P.E.A. (Psicologi Emergenza Abruzzo) e dal Centro Culturale SPAZIOPIÙ, realtà entrambe motivate a sviluppare una visione integrata basata sui fattori di protezione e valorizzazione della persona e della comunità. A seguito di esperienze maturate sul campo è nata l’esigenza di un confronto pubblico sul tema della RESILIENZA. Per resilienza – concetto affermatosi sempre più nell’ambito delle scienze psicologiche e sociali – si intende la capacità individuale di affrontare/superare le difficoltà e, in senso più ampio e variabile, la capacità di coping e di un buon adattamento della comunità nonostante l’esposizione a fattori di rischio, stress, traumi. Finalità della giornata sarà, quindi, quella di introdurre il concetto di COMUNITÀ  RESILIENTE, per evidenziare le possibili reazioni positive delle singole persone e dei gruppi agli eventi critici: secondo quest’ottica le comunità sono competenti e capaci di catalizzare le risorse necessarie per reagire agli eventi stressanti

FINALITA’
Il convegno vuole promuovere un confronto/condivisione tra le figure professionali coinvolte nel processo di prevenzione e superamento degli eventi critici, dal punto di vista sia individuale sia collettivo e nell’ambito del contesto pubblico e privato. Il concetto di resilienza di comunità muove, infatti, dalla scelta di lavorare in rete nella medesima direzione: quella dello stimolare le potenzialità creative del sistema sociale in risposta alle avversità, per raggiungere un nuovo equilibrio qualitativamente migliore rispetto all’originario

OBIETTIVI
  • Approfondire i concetti di resilienza e comunità resiliente
  • Conoscere l’identità lavorativa e le esperienze delle diverse figure che operano nel processo della prevenzione e della gestione dell’emergenza
  • Realizzare un confronto produttivo tra i know how degli operatori del sistema pubblico e privato
  • Contribuire a creare un clima di collaborazione, fiducia, flessibilità ed integrazione in un sistema di prevenzione competente ed efficace
  • Valorizzare la formazione come requisito di eccellenza

DESTINATARI
Per rispondere a possibili circostanze critiche è importante la preparazione non solo degli operatori dell’emergenza ma anche delle persone che compongono una comunità. Diventa, pertanto, essenziale il coinvolgimento non solo gli addetti ai lavori ma anche dei cittadini, nella convinzione che le singole persone e le comunità siano protagonisti attivi della promozione di comportamenti e reazioni pro-attive in un’ottica di resilienza e di empowerment di comunità

PROGRAMMA

Ore 9:30: Saluti delle Autorità
Dott. Tancredi Di Iullo, Presidente Ordine Psicologi Abruzzo
Dott. Mario Mazzocca, Assessore Regionale Protezione Civile
Dott. Antonio Blasioli, Vicesindaco con delega alla Protezione Civile – Comune di Pescara
Ore 9:40: “La protezione civile: cultura della prevenzione e adattamento al cambiamento climatico”  Dott. Mario Mazzocca Assessore Regionale Protezione Civile
Ore 10:00: Apertura lavori
“Rinascere nel cambiamento: una visione d’insieme per integrare le competenze”  Dott.ssa Federica Angelone, Direttivo SpazioPiù, socio Pea, Psicologa Psicoterapeuta Bioenergetica, Counselor; Dott.ssa Monica Isabella Ventura, Presidente Pea, socio SpazioPiù, Psicologa Psicoterapueta Bioenergetica, Esperta in Disaster Management
Ore 10:20: “Psicobiologia: resilienza e coscienza”  Dr.ssa Anna Rita Iannetti, Medico di Prevenzione Ausl Pescara, Esperto in Psicobiologia, Master in PNEI, Master in Medicina Biointegrata, Master in Ottimizzazione NeuroPsicoFisica e CRM Terapia
Ore 10:40: “Il Dispatch: dal dramma alla risposta” – Dr. Adamo Mancinelli,  Medico 118 Chieti, Responsabile Maxiemergenze Asl Chieti
11:00 – 11:15: Pausa caffè
Ore 11:15: La strada ed i rischi correlati. La resilienza negli operatori di Polizia Locale”  Dott.ssa Nicoletta Romanelli, Psicologa, Criminologa, CTU Tribunale di Sulmona, Consulente Polizia Locale, Socio Pea
Ore 11:35: Sostegno tra pari: aumentare la resilienza organizzativa e del singolo”  Dott. Berardino Beccia, D.G.S. Vice Dirigente Corpo Nazionale Vigili del Fuoco L’Aquila, Laurea triennale Psicologia, Master in Counseling dell’ Emergenza, Referente Nazionale per il Supporto Pari a Rigopiano
Ore 11:55: Più forze, un’unica direzione” – Stefano Nieddu, Scrittore e Formatore
Ore 12.15: Resilienza e Security” – Rosario Bonomo, Esperto in Security Consultant
Ore 12:35: Resilienza vs Happiness” – Alessandro Rasetta, PhD, Sociologo, Giornalista pubblicista, Innovation Manager, Corporate Happiness Consultant, Liaison Officier for PhD in Business and Behavioral Sciences at University G. D’Annunzio, CH-PE
Ore 12:55- 13:30: Discussione
Ore 13:30-14:30: Pausa Pranzo
Ore 14:30: “L’assistente sociale come esempio di rete e assistenza alla persona”  Dott.ssa Francesca Ficorilli, Assistente Sociale Coop. Sociale Horizon Service, Sulmona (AQ) 
Ore 14:50: “Nekyia: la rinuncia alla paura e la scelta di se stessi. Esperienze di resilienza  Dott.ssa Federica Angelone, Direttivo SpazioPiù, Socio Pea, Psicologa Psicoterapeuta Bioenergetica, Counselor
Ore 15:10: Sostenersi nel gruppo, navigare in emergenza”  Dott.ssa Monica Isabella Ventura, Presidente Pea, socio SpazioPiù, Psicologa Psicoterapueta Bioenergetica, Esperta in Disaster Management
Ore 15:30:  “Gruppo e Resilienza … Istruzioni per l’uso!”  Dott. Sebastiano Carticiano, Consigliere Pea, Psicologo, Psicologo Formatore Esperto in emergenza e formazione dei gruppi, Psicologo dello Sport
Ore 16:15: Equilibrio emozionale per i soccorritori attraverso la pratica della coerenza cardiaca”  Dr.ssa Silvia Di Luzio, Medico Chirurgo, Cardialoga Ausl Pescara, Formatrice, Mbit Coach
Ore 17:00: Dalla vulnerabilità alla Resilienza: il ruolo dei processi informativi, formativi e comunicativi in ambito organizzativo e sociale”  Dott. Luigi De Luca, Direttore del Centro di Formazione nazionale dei Vigili del Fuoco di Catania. Sociologo e Counselor, esperto nella relazione d’aiuto. Master in Psicologia dell’emergenza e Psicotraumatologia
Ore 17:20-18:00: Dibattito
Ore 18.00: Chiusura dei Lavori
spaziopiù

sabato 11 febbraio 2017

I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista

Dopo Teramo, Roma e Bolzano è esposta a Chieti la mostra “I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista” realizzata dalla Fondazione Università degli Studi di Teramo e curata dalla ricercatrice dell’Ateneo di Teramo Annacarla Valeriano e dallo storico Costantino Di Sante.

La mostra, promossa dall’associazione Chieti Nuova 3, si terrà nella sede del Liceo Classico “G.B. Vico” e sarà aperta al pubblico dal 2 al 19 febbraio dal martedì a domenica dalle 10.30 alle 12.30 e da martedì a venerdì anche dalle 17 alle 19.
La mostra foto-documentaria sarà inaugurata alla presenza dei curatori il 2 febbraio alle ore 17.30. Interverranno il preside del Liceo Classico “G.B. Vico” Paola Di Renzo, il direttore dell’Archivio di stato di Chieti Antonello De Berardinis e gli studenti del Liceo Classico.
L’idea di realizzare una mostra sulle donne ricoverate in manicomio durante il periodo fascista è nata dalla volontà di restituire voce e umanità alle tante recluse che furono estromesse e marginalizzate dalla società dell’epoca.
Ci è sembrato importante”, spiegano i curatori della mostra, “raccontare le storie di queste donne a partire dai loro volti, dalle loro espressioni, dai loro sguardi in cui sembrano quasi annullarsi le smemoratezze e le rimozioni che le hanno relegate in una dimensione di silenzio e oblio. Alle immagini sono state affiancate le parole: quelle dei medici, che ne rappresentarono anomalie ed esuberanze, ma anche le parole lasciate dalle stesse protagoniste dell’esperienza di internamento nelle lettere che scrissero a casa e che, censurate, sono rimaste nelle cartelle cliniche”.
È possibile prenotare visite guidate per studenti ai numeri 347 4521937 e 338 1734161.
I volti e le espressioni di donne internate in manicomio durante il regime, restituiti allo sguardo del visitatore da efficaci fotografie, condividono la sorte della condanna morale con il titolo dell’omonima opera di Baudelaire.
All’ingresso della sala ci accoglie “La geografia dei manicomi”, una cartina dell’Italia che traccia la presenza di tutte le strutture, sessantacinque manicomi distribuiti in diciassette regioni. La mostra è divulgativa e chiara, le testimonianze immediate. Occupa il primo piano, con una zona più ampia destinata alle foto e ai documenti cartacei originali, e una più piccola, delimitata da un cartongesso divisorio, che accoglie pannelli e locandine. Lo spazio è raccolto, l’esposizione è armonica nei colori. Nonostante i medico-tecnicismi dell’epoca, restituisce il senso, risignifica, costruisce una narrazione con l’osservatore. Il taglio è differente rispetto agli spazi che solitamente sono dedicati alle vite che hanno popolato le istituzioni totali. Più che le pratiche di internamento, è il clima di repressione che conduce all’internamento a essere co-protagonista dei volti. Sulla stessa tela confluiscono il volto dell’alienata e la sua cartella medica, uno stralcio di suo scritto al quale è accompagnata una traduzione in digitale per favorirne la comprensione, la diagnosi del medico, le informazioni cliniche, lettere di familiari o amati. Un amaro sorriso compare sulla bocca quando sui diari clinici si leggono i sintomi concausa delle diagnosi: loquace, incoerente, erotica, capricciosa, eccitata, indocile, impulsiva, petulante, piacente, rossa in viso, dedita all’ozio.
Dalla parte opposta della sala si ritrovano i manifesti della donna “pro familia” e degli almanacchi della massaia fascista, così da non destare dubbio che quelli elencati potessero essere sintomi sufficienti. Ci sono testi che danno modo di orientarsi nel contesto storico, nel quadro normativo in materia di leggi razziali e di condotte morali. Le vicende delle internate si svolgono tutte in Abruzzo, nell’Ospedale psichiatrico di Teramo che nacque nel 1323 e inaugurò la sezione psichiatrica nel 1881. Ha chiuso il 31 marzo del 1998 per effetto della legge Basaglia. Si stima che in questo periodo siano passati per questo manicomio circa ventiduemila “folli”, con un picco durante il ventennio fascista, periodo in cui, tra i direttori, ritroviamo anche Marco Levi Bianchini, fondatore della Società Italiana di Psicoanalisi.
Questa è la storia di donne che non sono riuscite ad adattare il loro animo alla remissività e alla pubblica esaltazione della funzione riproduttiva, come volevano gli slogan fascisti. Donne che uscivano la sera, destando pubblico scandalo, ritenute anaffettive con i figli e disinteressate alla famiglia. Donne che, dopo i conflitti bellici, hanno vissuto una repulsione per ogni attività che aveva caratterizzato in modo perpetuo la loro esistenza. In gran parte massaie, casalinghe, nate e cresciute in piccoli paesi e comuni, alcune con volti di bambine, un’età compresa tra i dodici e sessanta anni, anche se non sono mancati casi di bambine con soli due anni di vita. C’è Paolina, venti anni, povera, rinchiusa per “immoralità costituzionale”; Crocifissa G., trent’anni, casalinga, rinchiusa nel 1905; Adelaide D., che raggiunge la sorella in manicomio per il morso di un gatto nero; Chiara D., zingara e anche strega. Molte di queste donne hanno scritto lettere, grida mai giunte a destinazione, che ritroviamo allegate alle cartelle cliniche, sequestrate dalla direzione medica a scopo diagnostico (lettere e cartelle cliniche si possono ritrovare sul sito della Fondazione della Università di Teramo).
Come ha scritto una di queste donne, Haidè B., quarantacinque anni, casalinga e una diagnosi di “psicosi isterica”, «come naufrago che in una tempesta si appiglia alla prima tavola che gli capita davanti, così io immersa nelle barbarie inaudite, sono costretta a chiedere aiuto».Voci che rimarranno inascoltate fino a quando la riforma Basaglia non porrà fine alla barbarie inaudita dei manicomi civili. Si esce alla luce del giorno e ripercorrendo le scale che portano al lungo fiume si ha la sensazione di un conflitto continuo che sottende gli “eserciti della morale”, che non ha conosciuto armistizi di pace, neanche a guerra finita.
Approfondimenti e video

lunedì 4 luglio 2016

Note per la cultura - 6 - A volte capita di pensare, scrivere, agire ...

Serietà, a proposito della fatica del concetto. Gli stereotipi sulla realtà confliggono con il rigore di un pensiero esplorativo, indagatore, che tutto è propenso a spiegare senza pretendere di poterlo, esaustivamente, fare. La serietà risiede nella consapevolezza dei limiti, di lucide demarcazioni e dell'empiria e della ragione. L'esperienza conoscitiva non può che essere soggettiva, mai risolvendosi nel solipsismo. L'uso adeguato della ragione consente di superare i confini del “soggettivismo” aprendosi all'accertamento dimostrativo, alla diagnosi dei fatti dei quali ci si occupa, alla conquista di verità che allude all'oggettività, stabiliti metodi, criteri, lessico esplicativo e verificata la tenuta teorica di quanto si va ad apprezzare cognitivamente. 
Serietà intellettuale è, dunque, un sistema che integra l'intelligenza all'etica, genera le condizioni della ragione, orienta verso un atteggiamento disciplinato che non si fa irretire da scorciatoie pseudoculturali, da suggestive intuizioni, da esigenze personali, da squallidi interessi di supremazie pseudointelletuali. Serietà è umiltà, è immersione nella realtà, priva di forzature o velleità, è pronta revisione di percorsi erronei di conoscenza, è aprirsi all'incondizionato. La premessa alla serietà è la libertà, come autonomia di giudizio e come assunzione esplicita di responsabilità. Ogni deroga interpretativa presta il fianco all'ambiguità, ad una semantica distorcente, deviante, compromissoria. La matrice della conoscenza è l'onestà intellettuale, il libero ricercare che si oppone all'accondiscendenza o all'ignavia. La fatica del comprendere la realtà è spia rivelatrice d'una serietà colta operativamente nel suo incedere autorevole ed utile stratificando informazioni, creando un palinsesto – suscettibile di modifica ed integrazione – di significati che apre al “senso” ultimo dell'attività conoscitiva umana. La verità è dentro (si nasconde) un ricettacolo di artefatti di pensiero, un contenitore gnoseologico dell' “umano”, rappresentando la linea di separazione tra la logica e l'approssimazione retorica, tra dialettica ed i dogmi.

domenica 5 giugno 2016

Post-umano, ora

 By
http://www.kainos.it/numero6/emergenze/emergenze-pepperell-it.html

THE POSTHUMAN MANIFESTO
TO UNDERSTAND HOW THE WORLD IS CHANGING IS TO CHANGE THE WORLD

MANIFESTO DEL POSTUMANO
CAPIRE COME IL MONDO CAMBIA È CAMBIARE IL MONDO

di Robert Pepperell

Il MANIFESTO rivela l'interesse a mettere sotto l'occhio della critica il passaggio dell'umano, non a qualcosa che lo supera, ma a qualcosa che lo abbatte. Non über, ma post. L'attacco dell'assetto attuale del mondo all'essenza-uomo è radicale, di una radicalità aggressiva, violenta, di una violenza insidiosa, ed è totale, va ormai dal luogo di lavoro al tempo libero, viene dall'alto e dal di dentro. È una mobilitazione totale, della scienza e quindi della tecnica, della comunicazione e quindi del linguaggio, dell'immaginario e del reale insieme, dove quello che accade e quello che si racconta, la vicenda e lo spettacolo, si confondono. Per smascherare l'apparato di questo scenario occorre mettere in campo una strategia complessa di analisi. Ed è esattamente quello che va fatto, utilizzando vari livelli di analisi e diverse culture disciplinari, senza spaventarsi dell'impatto tecnico sul tempo di vita, dell'ibridazione della condizione umana sempre poiù articializzata ed articializzabile. Del resto, la "cultura" non è la dfimensione extragenetica, artificiale della condizione di vita umana ? L'epoca del post-umano è iniziata; nelle "cose" della storia e della vita quotidiana essa si mostra; non è necessario leggere mille libri per entrare in contatto con il nuovo mondo che ci circonda: basta leggere le pagine divulgative delle notizie scientifiche dei maggiori quotidiani. È già prossimo il tempo in cui ciascuno potrà ordinare via Internet tutte le protesi necessarie al buon funzionamento del suo corpo e tutti i farmaci che possono potenziare il suo apparato sensoriale e le sue funzioni cognitive. Ci saranno cliniche specializzate con medici ingegneri che applicheranno alla nostra massa cerebrale micro-chip che renderanno possibile suonare Beethoven senza aver studiato musica e che forniranno prodotti farmacologici «miracolosi» per stimolare le zone cerebrali, i neuroni e le sinapsi che presiedono alle sensazioni finora imputate alle persone umane. Votare in una cabina elettorale non sarà una scelta tormentata, ma l’effetto automatico di una reazione elettrochimica che trasmette stimoli ad una parte del cervello. Ibridazione con le macchine e «sacrificio al dio protesi» sono le nuove parole che delineano il lessico della narrazione post-umana. L "controcorrente" è già "corrente" ordinaria e l’illusione scientista tecnologica è un ennesimo tentativo di cancellare la questione del «cosa è un uomo» dall’agenda del pensiero occidentale. Codice genetico e codice binario vanno già a braccetto. Quando i "reperti biochimici" del nostro "vissuto" fisico e mentale saranno estraibili dalla psiche individuale e resi digitali, allora . . .
 

lunedì 14 marzo 2016

PORNdemia. La pornografia nell’arte

 
La pornografia nell’arte…
…a Paratissima 08
Ve la siete persa, non l’avete ancora vista, vorreste rivederla. Desideri esauditi, perché PORNdemia, la mostra ospitata da Paratissima e curata da Francesca Canfora e Daniele Ratti negli spazi dell’ex Moi, è qui.
Il porno come fenomeno sociale, culturale e artistico è al centro di questa esposizione, che racconta l’approccio dell’arte alla pornografia, conducendo il pubblico a superare lo shock estetico delle opere esposte per leggerne il messaggio profondo.
Nei lavori esposti il riferimento sessuale, anche quando esplicito, non è mai gratuito. Si passa dall’erotismo pionieristico di Carol Rama agli affreschi generazionali di Daniele Galliano alle immagini erotiche dell’icona pop Keith Haring (dalla collezione di Paolo Tonin), che denunciano i miti della civiltà dei consumi. Attratto dalla pornografia, Man Ray dipinge ispirandosi a De Sade e fotografa modelle, amiche e amanti. Vanessa Beecroft, invece, propone una nudità del tutto priva di erotismo. Il genio torinese di Carlo Mollino erompe nella ricca collezione di Polaroid realizzate negli anni ‘60, protagoniste fidanzate, amiche e prostitute ritratte nude in interni meticolosamente allestiti.
E ancora, una sezione dedicata al fumetto con opere di Milo Manara, Crepax e Frollo, e le opere di cinque artisti selezionati da Paratissima tramite un bando di concorso: Federica Bonani, Marco Corongi, Andrea Grucciart, Cristina Pirrone.




– Paratissima… C’est Moii!

sabato 12 marzo 2016

Note per la cultura - 5 - A volte capita di pensare, scrivere, agire ...

1. Sulla peculiarità della definizione ontologica della persona umana

Il dato di partenza della problematicità, enigmaticità o «ambiguità» dell'esperienza umana nel mondo rischia di collocare ogni definizione (meglio dire, intenzionalità chiarificatrice) nel contesto di una “metafisica influente” che ha dominato in modo contraddittorio e drammatico le vicende socio-culturali del ‘900, secolo nel quale le generazioni adulte dell’attuale contemporaneità sono cresciute e si sono formate culturalmente. Tuttavia, nel confronto e nell’onesta aspirazione all’accertamento delle verità sulla condizione umana, l'uomo viene collocato di necessità all'interno di un rapporto originario con l' “essere” e, solo all'interno di questo rapporto, può essere compreso e la sua esperienza acquista un senso.

La specifica collocazione umana nel mondo, la sua «situazione», è una via d'accesso che consente di indagare l'essere e se stesso nell’individualità e soggettività date, vale a dire in quella configurazione esistenziale tipicamente umana, artificiale ed extragenetica, definibile “cultura”. Altri tentativi – sempre possibili – aprono acriticamente all’influenza inestricabile d’una metafisica deteriore (teleologicamente dogmatica) secondo la quale l'uomo è in rapporto con l'essere, ma con un “essere” che resta alfine inoggettivabile, non circoscrivibile nella sua totalità, «altro» e, per certi versi necessariamente, trascendente. Questa inoggettivabilità dell'essere umano sta alla base di un’esauribilità di prospettive che da essa scaturiscono, tanto inopportune quanto inefficaci laddove lo scenario è la relazione d’aiuto, il sostegno e vicinanza alle giovani generazioni, la cura e la tutela dell’adolescenza, la rigenerazione dell’umano condividere, in una parola il “mutamento” d’emancipazione dalla tragedia novecentesca.
In secondo luogo, anche sostenendo che l'essere in cui l'uomo è collocato abbia i caratteri di un'ulteriorità irriducibile alla coscienza umana, sia dunque qualcosa di «altro», di «trascendente» rispetto all'uomo stesso poiché l'uomo non esaurisce mai la totalità dell'essere, ebbene l'essere è in questo senso presente nel rapporto, certo non nello stesso modo in cui è presente l'uomo. Uomo ed essere non sono due termini equivalenti, possono trovarsi antinomicamente uno di fronte all'altro, in una relazione di equipotenza o in una relazione estrinseca; in ogni caso, questa antinomia costitutiva di ogni osservabilità, di ogni atto conoscitivo, non può darsi una sussunzione dell’uomo all’essere.

2. Interpretazione ontologica sulle caratteristiche costitutive della persona


La questione di una ontologia della relazione è stata sollevata da Etienne Balibar in un testo del 1993 su Marx e più precisamente nel commento della VI tesi su Feuerbach che, come è noto, recita: «Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali»[Marx über Feuerbach], in Marx / Engels Gesamtausgabe, erste Abteilung, Band 5, hrsg. von V. Adoratskij, Glashütten im Taunus, Verlag Detlev Auvermann, 1970, p. 534; tr. it. di M. Rossi, in F. Engels, Ludwig Feuerbach, Roma, Editori Riuniti, 1985 (I ed. 1950), p. 84]. L’essenza umana è das ensemble der gesellschaftlicher Verhältnisse. Marx rifiuta, secondo Balibar, tanto la posizione nominalista che la posizione realista: «quella che vuole che il genere, o l’essenza, preceda l’esistenza degli individui, e quella che vuole che gli individui siano la realtà primaria, a partire dalla quale si astraggono gli universali»; in Marx sarebbe dunque presente in abbozzo una ontologia della relazione: la società sarebbe costituita/attraversata da una molteplicità di relazioni, cioè di «transizioni, trasferimenti, passaggi nei quali si fa e si disfa il legame degli individui con la comunità, che a sua volta costituisce essi stessi». Il solo contenuto effettivo dell’essenza umana starebbe nelle molteplici relazioni che gli individui intrattengono tra di loro. Balibar ritiene che così Marx prenda le distanze tanto dal punto di vista individualistico che da quello organicistico (olistico). Questa la ragione per cui Marx usa il termine francese «ensemble» e non quello tedesco «das Ganze». Allo scopo di rendere ancora più chiara la questione, Balibar propone di utilizzare una parola di Simondon per pensare il concetto di umanità nei termini marxiani: «il transindividuale». L’umanità sarebbe ciò che esiste tra gli individui. Balibar conclude: «le relazioni di cui parliamo non sono nient’altro che pratiche differenziate, delle azioni singole degli individui gli uni sugli altri». La più adeguata caratterizzazione costitutiva della “persona umana” scaturisce, pertanto, da un'affermazione difficilmente revocabile in dubbio che è rintracciabile nella Prefazione a "Per la critica dell'economia politica" (Gennaio 1859 - Opere complete, Vol. XXX, pagg. 298-299); Karl Marx, sostiene che «nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. 
E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca soprastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere costatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in una parola le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo». C’è una saldatura in itinere tra ontologia ed epistemologia che forgia la valenza problematica e le stesse categorie, entrambe connesse ai fondamenti, alle condizioni di validità, ai principi guida della conoscenza intorno all’uomo, ma soprattutto dalla conoscenza scientifica che distingue l’apprezzamento antropologico da una pur legittima Weltanschauung

3. Sul fondamento e caratteristiche della dignità della persona

Già in Hegel il problema dell'estraneazione – quello che in ultima istanza pare configurarsi come insieme d'ambiti individuativi d'indagine delle caratteristiche della dignità della persona umana - appare per la prima volta come problema della posizione dell'uomo nel mondo rispetto al mondo. Essa è tuttavia in lui, con il termine di alienazione (Entiiusserung), al tempo stesso la posizione di qualsiasi oggettività. L'estraneazione si identifica perciò, se viene coerentemente concepita, con il porre l'oggettività. Il soggetto-oggetto identico deve quindi, nella misura in cui supera l'estraneazione, superare al tempo stesso l'oggettività. Poiché tuttavia l'oggetto, la cosa, in Hegel, esiste soltanto come alienazione dell'autocoscienza, la sua riassunzione nel soggetto rappresenterebbe la fine della realtà oggettiva, quindi della realtà in generale. Anche in Storia e coscienza di classe Lukàcs sembra seguire Hegel nella misura in cui anche in questo libro l'estraneazione viene posta sullo stesso piano dell'oggettivazione (per far uso della terminologia dei Manoscritti economico-filosofici di Marx). Lo smascheramento nel pensiero dell'estraneazione era già allora nell'aria; ben presto esso divenne una questione centrale della critica della cultura che indagava la condizione dell'uomo nel capitalismo del presente. Per la critica filosofico-borghese della cultura, basti pensare a Heidegger, era del tutto ovvio sublimare la critica sociale in una critica puramente filosofica, fare dell'estraneazione per sua essenza sociale un'eterna "condition humaine", usando un termine invalso solo più tardi. È chiaro che questo modo di presentare le cose, benché avesse di mira tutt'altro, anzi l'opposto, favorì atteggiamenti di questo genere. L'estraneazione identificata con l'oggettivazione era bensì intesa come una categoria sociale - il socialismo avrebbe dovuto appunto superarla - e tuttavia l'insuperabilità della sua esistenza nelle società classiste e anzitutto la sua fondazione filosofica la rendevano vicina alla "condition humaine".  

Questa è appunto la conseguenza di questa falsa identificazione, su cui occorre ancora insistere, tra concetti fondamentali opposti. Infatti, l'oggettivazione è effettivamente un modo insuperabile di estrinsecazione nella vita sociale degli uomini. Se si considera che ogni obiettivazione nella praxis, e quindi anzitutto il lavoro stesso, è un'oggettivazione, che ogni modo di espressione umana, e quindi anche la lingua, i pensieri e i sentimenti umani, sono oggettivati, ecc., è allora evidente che qui abbiamo a che fare con una forma universalmente umana dei rapporti degli uomini tra loro. 

Come tale l'oggettivazione è naturalmente priva di un indice di valore; il vero è un'oggettivazione allo stesso titolo del falso, la liberazione non meno dell'asservimento. Solo se le forme oggettivate nella società ricevono funzioni tali da mettere in contrasto l'essenza dell'uomo con il suo essere, soggiogando, deformando e lacerando l'essenza umana attraverso l'essere sociale, sorge il rapporto oggettivamente sociale di estraneazione e, come sua conseguenza necessaria, l'estraneazione interna in tutti i suoi caratteri soggettivi. Si comprendono bene, da quest'ottica, le affermazioni marxiane secondo le quali “tutta la via sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi.” (Tesi VIII - Tesi su Feuerbach nel 1843 ); “i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo” (Tesi XI - Tesi su Feuerbach nel 1843 ). 

Conseguentemente, non sembrano più necessari approcci volti a fondare il comportamento etico o su un potere trascendente (divino) o su una componente soggettivo-intuitiva o emotivo-sentimentale. A simili approcci è possibile contrapporre la concezione, secondo cui l’etica è da un punto di vista storico evoluzionistico un prodotto di auto-creazione umana; è la stessa etica materialistica ad esigere un fondamento ontologico. 
Anche se può considerarsi paradossale, la questione della dignità della “persona umana” va ancorata ad una tradizione culturale che lega l'etica a grandi opere come la Fisica di Aristotele (piuttosto che la Metafisica) o i Principia di Newton; esse hanno rappresentato per lunghi periodi il fondamento delle ricerche condotte, definendo problemi e metodi da considerarsi legittimi in un determinato campo e sono stati dei modelli che hanno dato origine a particolari tradizioni di ricerca scientifica. Riferendosi a queste tradizioni, Kuhn impiega il termine di “paradigma”; la scienza si sviluppa all’interno di un paradigma, mentre la rivoluzione scientifica è il passaggio da un paradigma all’altro. Kuhn impiega la definizione di “paradigma metafisico” per indicare ciò che nell’epistemologia contemporanea è chiamata “metafisica influente”. 

Un progresso dove l’incremento conoscitivo è guidato da un unico paradigma non fornisce garanzia di “una comprensione sempre più raffinata della natura” se non affermando di voler partire da piuttosto che andare verso. Questo atteggiamento è valido anche in campo etico.

4. L'importanza di una chiara visione personalista dell’uomo

L'adolescenza essendo considerata da un lato l'ultima fase dello sviluppo infantile, dall'altro come fase d'inserimento nel mondo adulto, comunemente va individuata in un arco di alcuni anni che stanno intorno alla maturazione sessuale, ma a cui corrispondono anche mutamenti d'atteggiamenti, di capacità, di partecipazione sociale e, pertanto, necessita d'una visione d'insieme. Il porre l'accento più sull'uno o sull'altro di questi mutamenti ha portato ad indicare come più ampio o più ristretto il periodo adolescenziale (per alcuni esso va dai 10 ai 16 anni circa, cioè corrisponde alla pubertà, per altri dai 13 ai 20 anni, cioè in accordo con la definizione ormai obsoleta anch'essa di “teen-ager”, per altri ancora è un periodo che si estende anche ulteriormente fino alle opportunità di lavoro, con il portato dell'autonomia e delle responsabilità piene sul piano sociale, ed alla vita coniugale, con il portato eventuale della maternità e paternità; ovviamente, negli ultimi decenni a cavallo del XX e XXI secolo in particolare, l'elaborazione identitaria si è, per così dire, deregolamentata, venendo meno le componenti esperienziali proprie della maturità equilibrata delle persone ed i ritmi peculiari di sviluppo sono fuori dagli schemi teorici; talvolta, proprio il terreno della life long learning restituisce – con il portato problematico della neotenia -, con risvolti drammatici, l'aspetto dei cambiamenti in atto circa il mondo giovanile). 

Certo l'adolescenza non è contraddistinta dalla sola maturazione puberale, fatto biologico rilevante; tuttavia, essa ha una connotazione tipicamente umana, cioè extragenetica, “artificiale”, culturale (i primi studi sistematici, come quelli di Satnley Hall, vedevano un parallelismo assoluto fra i due livelli della vita, o meglio, la riduzione del secondo al primo: l'adolescenza come una “nuova nascita” della coscienza, provocata dallo sviluppo puberale; tale sviluppo si iscriveva nella prospettiva di Darwin, secondo cui l'ontogenesi ricapitola la filogenesi: l'adolescenza, per l'individuo, come uomo totale, cosciente e responsabile di sé). La concezione che accentua l'aspetto biologico, infatti, è stata messa in crisi dallo studio delle differenze individuali e culturali, in particolare dagli studi antropologici come quelli della Mead, a dimostrazione di un reale relativismo nella fenomenologia adolescenziale (culture primitive, cultura “occidentale” …). Ciò ha indotto la ricerca a studiare non più l'adolescenza, ma diverse adolescenze mettendo in discussione l'universalità del fenomeno. Del resto, certa Psicologia (Wallon) o indirizzo psicoanalitico si sono opposti a questo apprezzamento dell'adolescenza considerando come certi aspetti biologici e psicologici siano connaturati con lo “sviluppo” della persona. 

La problematicità dell'adeguata visione dell'adolescente deriva proprio dal fatto che si esaltano, in certi campi d'indagine, gli aspetti maturativi, biologico-fisici, intellettivi o istintuali, più universali o supposti tali; altri orientamenti, viceversa, enfatizzano la socializzazione e l'acquisizione dei ruoli, relativamente ai diversi contesti sociali di appartenenza e formazione. Il tentativo più riuscito di tenere insieme gli “sguardi” sulla gioventù e sul divenire complesso delle persone è quello di Erikson che salda le fasi psicosessuali con quelle della socializzazione; costituisce un modello orientato all'integrazione dei “saperi” specifici che può sempre più avvalersi dell'empiria in stretta connessione con l'ampliarsi di un quadro concettuale teorico per certi versi indeterminato (non può oggi che essere così), nei confini della comprensione, altrimenti si rischia di perdere l'oggetto stesso. 

Pertanto, altra acquisizione, nel merito dell'obiettiva considerazione degli adolescenti come persone, è l'evitare di perseverare in punti di vista “specialistici”; ad esempio, insistere nell'importanza rivestita dalla relazione con la figura materna nel condizionare il successivo sviluppo creativo del bambino (Klein, Winnicott; quest'ultimo sottolinea come ineludibile sia la funzione di rispecchiamento svolta dalla madre, nella restituzione di affetti e vissuti che il bambino da solo non è in grado di rielaborare ed integrare all'interno del sé), in un contesto sociale di vita d'accentuato decentramento di figure di riferimento. Di fatto, la strutturazione della personalità spontanea e creativa è garantita dall'ambiente di sostegno rappresentato da una pluralità di soggetti interagenti, nell'ottica in cui non può esistere alcuna identità armoniosamente formata a prescindere da relazioni plurali. 

Il ruolo delle interazioni sociali nello sviluppo degli adolescenti può essere compreso solo se si coordinano i concetti e i dati derivanti dall'analisi di tipo sociologico con quelli relativi alle interazioni sociali concrete tra individui e alle caratteristiche funzionali di questi ultimi, a livello psicologico. Da un lato, infatti, le situazioni sociali specifiche che gli individui si trovano di fronte nella vita di ogni giorno sono determinate da un tessuto sociale e da un ambiente fisico assai ampi, dotati di significati e valori culturali loro propri maturatisi storicamente. Esse non possono essere ridotte ad un flusso della coscienza individuale o a conflitti psichici, ma richiedono uno studio in quanto strutture sociologiche, culturali e fisiche. Se in queste situazioni le interazioni sociali tra individui hanno una struttura, le forme e i contenuti che sono loro propri non sono riducibili a stimoli discreti che colpiscono la persona di momento in momento. Dall'altro lato, un individuo, nel corso del periodo adolescenziale, si trova ad aver vissuto almeno da una decina di anni, ed ha esperienza di interazioni sociali. A parte i casi di traumi precoci gravi, il bambino, in quanto maschio o femmina, ha stabilito delle relazioni all'interno di un milieu specifico, relazioni con il proprio corpo e con le proprie capacità, con oggetti e con valori sociali. Alcuni di questi legami antecedenti devono modificarsi durante l'adolescenza, lasciando alle spalle la dipendenza della prima infanzia per avviarsi a responsabilità, attività e modi di condotta tipici nella società di uomini e donne adulti. Contemporaneamente il corpo, ormai familiare, cresce ad un ritmo più rapido, e ciò si accompagna a modificazioni fisiologiche e strutturali che portano al corpo adulto di un uomo o di una donna. Il condensare questi due universali evolutivi in «incidenti» dell'analisi sociologica significa trascurare i contributi individuali alle interazioni sociali e il loro ruolo nello sviluppo. Il coordinare il sociologico e lo psicologico implica una sequenzialità di studio ben definita. La sequenza inizia con lo studio dello sviluppo delle interazioni sociali, una valutazione delle situazioni sociali reali che gli adolescenti si trovano di fronte, inclusa la situazione ambientale più ampia di cui fanno parte; infine considera il funzionamento individuale in rapporto a tali situazioni sociali e ai processi d'interazione. Il gruppo procura uno status simbolico autonomo.

In secondo luogo, gli adolescenti trovano nel gruppo uno status autonomo, fondato sulle proprie realizzazioni, che è loro negato nella società. Molti adolescenti vivono quanto possono in gruppo perché vi sono considerati persone autonome e non, come nei luoghi gestiti dagli adulti, bambini che devono esser guidati e controllati. L'esigenza di parità e di partecipazione, che caratterizza molti adolescenti nella nostra società, viene di continuo frustrata. In reazione, gli adolescenti si creano una società diversa - il gruppo - in cui possono sentirsi alla pari con gli altri. In altre parole, il gruppo è la fonte primaria di status autonomo durante l'adolescenza - uno status provvisorio, transitorio, marginale, in qualche modo solo simbolico poiché non garantisce diritti e prerogative reali al di fuori di esso. Esiste quindi un legame tra la marginalità sociale dei giovani e i loro gruppi che nascono appunto come tentativo di rimediare a questa creando spazi di partecipazione. Altre funzioni. Oltre a questa funzione essenziale, il gruppo può assolverne altre, di cui verranno indicate le principali seguendo la falsa riga di Ausubel (1977). Prima di tutto esso può procurare un'identità. Il problema dell’identità non è, come si legge spesso, il problema principale dell'adolescenza, è un problema che deriva dalla mancanza di status autonomo. Il gruppo può rimediare anche a questo problema appunto nella misura in cui fornisce uno status. Far parte dell'«Autonomia operaia», dei punk, dei paninari, permette di definirsi e di sapere con più sicurezza come orientarsi nella vita, quali valori perseguire, come comportarsi e porsi di fronte agli altri. Durante l'adolescenza, il gruppo di coetanei è spesso la fonte maggiore di status derivato ed è in grado di fornire al giovane una stima di sé e una sicurezza per il semplice fatto di essere accettato nel gruppo. Esso procura anche un forte appoggio nel processo di emancipazione dai genitori e dagli adulti e un quadro di riferimento e un sistema di valori quando quelli dell'infanzia devono esser abbandonati; assicura così un sollievo nei confronti dell'incertezza, dell'indecisione, dell'ansietà e della colpevolezza che spesso accompagnano la ristrutturazione della personalità su una base di autonomia. Conferendo al gruppo il diritto di proporre nuove regole di condotta, l'adolescente afferma il diritto all'autodeterminazione perché non è diverso dai suoi coetanei. Il gruppo è anche un mezzo per difendersi dall'autorità e dalle interferenze degli adulti. Come strumento di pressione (“tutti lo fanno”) fa guadagnare privilegi ai suoi membri. Aiuta anche l'adolescente ad affrontare con minore ansietà i cambiamenti che avvengono nella sua vita e nella sua persona, come quelli fisiologici. Riduce la massa delle frustrazioni, non solo quelle specifiche dell'età, ma anche quelle che toccano solo i singoli adolescenti. Il gruppo è anche luogo di apprendi mento dei modi di rapportarsi agli altri fuori della famiglia. Permette di assimilare maggiormente i ruoli socio-sessuali, la competizione, la cooperazione, i valori, le credenze, gli atteggiamenti dominanti del suo gruppo sociale. «Il gruppo di coetanei è la maggior istituzione formativa per gli adolescenti nella nostra cultura» (Ausubel,1977). Questo addestramento avviene in modo informale, spesso inconsapevolmente, nella vita quotidiana del gruppo, nel gioco delle interrelazioni complesse tra i suoi membri, nell'incoraggiamento di certi modi di comportarsi e lo scoraggiamento di altri. Il gruppo è quindi una preparazione alla vita adulta reale. Il gruppo rinforza le discriminazioni tra le classi sociali. Il gruppo prepara alla vita adulta reale anche perché rinforza le discriminazioni tra le classi sociali. Da Hollingshead (1949) in poi, molte ricerche hanno messo in rilievo il fatto che, abitualmente, vige nei gruppi di adolescenti una rigida separazione tra le classi sociali. Talvolta questa separazione si può già osservare nella diversità dei luoghi di aggregazione. Vri confronti per la diversità di classe. (Lutte et al., 1984). La cultura dei diversi gruppi, i lo ro valori, i loro argomenti di discussione, le loro attività sono differenti e rafforzano quindi la diversità derivante dagli ambienti familiari, sociali, scolastici e lavorativi differenziati. Negli Stati Uniti, la “razza” è un altro fattore di discriminazione tra i gruppi. Questa incomunicabilità tra classi ed etnie sembra più pronunciata nei gruppi di ragazze che sono più ristretti, chiusi e durevoli (Claes, 1983). Il gruppo rinforza le differenze sociali tra i sessi. I gruppi misti di adolescenti permettono ai ragazzi e alle ragazze di interagire tra di loro. Sono il luogo in cui nascono spesso innamoramenti e si formano le coppie. Le ragazze, abitualmente, entrano più precocemente in gruppi misti con ragazzi più grandi; fatto che crea problemi seri ai loro coetanei maschi che si sentono esclusi. Dumphy (1963; cit. da Claes 1983) pensa che la funzione del gruppo più largo sia di facilitare la transizione all'eterosessualità. Sulla base di ricerche effettuate in una città australiana, egli individua cinque stadi evolutivi. Nel primo, corrispondente alla preadolescenza, i piccoli gruppi sono formati di soli ragazzi o di sole ragazze e non si incontrano; l'interesse per l'altro sesso si manifesta solo in interazioni superficiali, spesso antagoniste. Nello stadio seguente, verso i 14 anni, ci sono i primi scambi tra ragazzi e ragazze che hanno uno status superiore nei loro gruppi, si formano i primi sottogruppi misti ma permangono le precedenti aggregazioni monosessuali. Nello stadio seguente si formano solo gruppi eterosessuali. In seguito, il gruppo più largo sparisce per lasciare il posto a gruppi piccoli formati da coppie stabili. Come tutti gli schemi evolutivi, quello di Dumphy indica una tra tante altre traiettorie evolutive. In questi rapporti tra maschi e femmine all'interno del gruppo si possono rafforzare le differenze sociali tra i sessi. Certo, ci sono gruppi giovanili in cui si tenta di eliminare ogni tipo di sessismo. Ma alcuni meccanismi di differenziazione rimangono inconsci. Si pensi, ad esempio, ai criteri diversi di valutazione a seconda dei sessi, al fatto solo che la ragazza è più apprezzata in funzione della sua bellezza. Ci sono anche gruppi, soprattutto negli ambienti popolari, in cui le differenze tradizionali tra i sessi vengono intenzionalmente riprodotte, in cui i maschi mantengono in uno status subordinato le femmine. I gruppi di adolescenti non sono necessariamente progressisti. Possono in alcuni casi riprodurre i valori più tradizionali del loro gruppo sociale. 

In definitiva, la società degli adulti è “parte”, ma non il “tutto” del processo di formazione identitaria delle nuove generazioni. L'atteggiamento degli adulti verso i giovani comprende sentimenti di protezione, per cui i figli e gli “immaturi” affidati sono sentiti come prova della propria potenza generativa e costruttiva, un prolungamento di sé; comprende anche sentimenti di timore e d'invidia, poiché essi sono avvertiti come minacciosi del proprio “potere”. Spesso gli adulti esprimono aggressività verso gli adolescenti; nello stesso tempo, gli adulti proiettano sui giovani i loro desideri irrealizzati, attribuendo così loro il bisogno di libertà, d'autorealizzazione e di soddisfazione sessuale. Si produce una profonda ambivalenza a detrimento della percezione e concorso nella costruzione delle “persone” che i giovani diventeranno, ambivalenza accentuata nella “cultura occidentale” dal fatto che essa non trova più quadri stabili in cui iscriversi, come avveniva negli antichi riti di iniziazione, o nella più recente stabilità di ruoli che definivano il posto di ciascuno. La società acquisitiva, basata sulla produzione e sul consumo individuali, ha distrutto le basi degli arcaici modelli familiari, e la conseguente stabilità delle prescrizioni di ruolo tra le fasce generazionali. L'ambivalenza degli adulti si esprime così in oscillazioni tra l'idealizzazione dei giovani (come se la vita fosse rintracciabile in una trama d'una fiction “ottimista” o in una certo messaggio pubblicitario o di “costume”) e desideri di rivalsa autoritaria (quando i giovani, ribellandosi, “tradiscono” la fiducia e l'idealizzazione riposta in essi), fra desideri di protezione – ormai, inadeguati o semplicemente superflui – e proiezioni di colpevolezza (insistenza sul sesso e sulle “droghe”), fra presunzioni di “innocenza” e accuse di animo corrotto (questa ambivalenza è tipica, in certe famiglie, dei rapporti dei genitori verso figlie e figli), che esprimono ancora il riflesso dei propri desideri ed insieme il timore e la censura di quest'ultimi. 

Così si arriva – ancora – a sostenete che i giovani “vanno tenuti a freno”, educati, oppure che deve essere data loro ogni possibilità di godere la vita “finché son giovani”, ed ogni permissività, senza d'altronde riuscire a mantenere a fondo e con coerenza ciascuna di queste posizioni; si tratta, evidentemente, di oscillazioni che eludono il problema di fondo, che è l'estraneazione degli adulti per primi dal controllo e dall'accettazione dei propri modelli di comportamento, delle proprie soddisfazioni istintuali, dei propri sentimenti di colpa. In questo senso, da tempo la Mead, dopo aver osservato come da una società in cui i modelli erano fissi e tramandati dai “vecchi”, si sia passati ad una in cui i modelli devono essere “reimparati” e sono comunicati dai pari – così come avviene quando si cambia paese in un'emigrazione nel “mondo globalizzato” -, afferma che oggi anche questa fase si dimostra superata, e i modelli di comportamento devono essere “inventati”, attraverso un reale potere di partecipazione dei giovani che prefigurano bisogni e possibilità non più solo del prossimo futuro, ma del presente stesso. A questo fine, è necessaria anche una certa dose di conflitto, ed è necessario non negare la sua realtà attraverso quella “violenza che si maschera d'amore”, che instaura un falso rapporto ed una falsa comunicazione: come ricorda, nel linguaggio paradossale, una massima di Laing: Quando le famiglie non vivono più armonia, si hanno figli devoti e buoni genitori; o, più semplicemente, instaurare decisamente il dialogo; nell'epoca attuale il “dialogo” è emerso come concetto importante e addirittura centrale sia nella filosofia che nella politica. Si parla di “dialogo tra civiltà” in opposizione a uno “scontro di civiltà”, e di “dialogo tra religioni” come antidoto allo “scontro dei fondamentalismi”. Perché il dialogo emerge oggi in termini così cruciali ? Perché esso denota l’opposto dell’unilateralismo e del monologo. Quindi, tornare alle scaturigini, all'etimologia di “dia” e “logos”, della relazione sociale fondamentale. “Logos” significa ragione, significato, e anche (semplicemente) parola. “Dia” significa “in mezzo a” o “a mezzo a mezzo”. Quindi dia-logos vuol dire che ragione o significato non sono il monopolio di una parte, ma affiorano nel rapporto o nella comunicazione tra parti o agenti. Il logos qui è un logos condiviso e dipende in maniera cruciale dalla partecipazione di “diverse” o “molte” persone.



giovedì 25 febbraio 2016

Interrogare il desiderio (By Wanda Tommasi)

Il tema del desiderio è sempre stato centrale nel femminismo, a partire dagli anni 1970: allora, il problema era quello di dare voce a un desiderio femminile che era stato tacitato o asservito nell’ordine socio-simbolico patriarcale e di trovare delle mediazioni per un desiderio di donne che, lungo la traiettoria dell’emancipazione, o andava nel mimetismo rispetto alle mete sociali maschili o ammutoliva, rifugiandosi nell’estraneità.
Come sottolinea Ida Dominijanni nell’introduzione a un testo che è cruciale per il mio discorso, La politica del desiderio di Lia Cigarini, dove prima c’erano grumi di vissuto femminile che sbarravano la strada al desiderio, si sono inventate delle pratiche che, sul modello liberamente interpretato della pratica psicanalitica, hanno trovato strumenti preziosi per scongelare il corpo e la parola, per liberare la sessualità femminile dalla sudditanza al maschio, e infine per superare le difficoltà di espressione di sé e il disordine nelle relazioni fra donne.[1]
   Con l’irruzione sulla scena della storia del “soggetto imprevisto”,[2] secondo la felice espressione di Carla Lonzi, si è realizzata anche la complicazione della sua razionalità con il desiderio e l’inconscio: constatata la debolezza del desiderio femminile, stretto fra le opposte opzioni, entrambe insoddisfacenti, dell’esclusione e dell’omologazione all’uomo, si sono cercate delle pratiche che aiutassero a liberare desiderio ed energie femminili e a metterle in circolo nel mondo.[3] Il problema messo a fuoco negli anni 1970 è che il desiderio femminile, che era muto o asservito all’uomo nell’ordine patriarcale, arretrava ancora, nonostante la libertà femminile recentemente guadagnata, di fronte a un ordine sociale avvertito come estraneo oppure mimava il desiderio maschile assumendone acriticamente gli oggetti. Rosi Braidotti ha definito giustamente il desiderio di donne a cui ha dato voce il femminismo come un desiderio ontologico,[4] cioè come un desiderio di essere e di esserci. In Italia, il femminismo della differenza sessuale ha sia messo a tema, a partire dagli anni 1970, l’intreccio di sessualità, desiderio e politica, sia ha interrogato l’enigmatica caduta del desiderio femminile di fronte agli oggetti sociali, di fronte al mondo.
   Quest’ultimo aspetto, però, nel corso del tempo, ha decisamente avuto la meglio rispetto al primo: se infatti, negli anni 1970, Carla Lonzi metteva al centro il nodo di sessualità e politica proponendo la figura della donna clitoridea, autonoma e consapevole del proprio desiderio, a differenza della donna vaginale, complementare all’uomo,[5] in seguito questo intreccio di sessualità e politica è andato sullo sfondo e ci si è concentrate piuttosto sulla debolezza del desiderio femminile di fronte alle mete sociali e politiche, di fronte al mondo.[6]
   E’ stato soprattutto in quest’ultima direzione che è stato tenuto vivo, nel pensiero e nelle pratiche della differenza sessuale, il tema del desiderio, interrogando l’enigmatica caduta del desiderio femminile rispetto al mondo. Le pratiche legate al pensiero della differenza hanno liberamente tratto ispirazione dalla pratica psicanalitica tematizzando la disparità nelle relazioni fra donne e facendo entrare in gioco il fantasma materno.
   Per esserci nel sociale sfuggendo sia all’esclusione sia all’omologazione, le donne sono state chiamate a ridefinire la struttura simbolica del desiderio: disparità e autorità femminile servono anche a questo, sono leve del desiderio per sottrarsi al potere, sono vie di decentramento dal potere stesso e dagli oggetti di desiderio già disegnati nell’ordine simbolico maschile. In pratiche politiche originali e contestuali, mosse non dal vittimismo reattivo ma dal desiderio attivo, si è sperimentata l’efficacia delle mediazioni femminili, delle relazioni di disparità e di autorità, che fanno sì che fra sé e il mondo ci sia un’altra donna: questo avrebbe dovuto, dovrebbe far uscire le donne sia dall’estraneità al sociale sia dall’omologazione all’uomo e consentire al desiderio femminile di iscriversi nel mondo senza mutilazioni.
   Il riferimento alla pratica psicanalitica rimane sullo sfondo quando s’interrogano e si mettono in gioco i rapporti di disparità fra donne: come, in analisi, la disparità fra analista e paziente è una leva per smuovere il desiderio, così, nelle relazioni fra donne, si punta sulla disparità per mettere al mondo il desiderio femminile. Mentre, nella fase iniziale del femminismo della sorellanza, era importante riconoscersi tutte uguali, sorelle, in seguito sono emerse disparità fra donne che, anziché essere negate, sono state usate come leve per iscrivere nel mondo il desiderio femminile. La disparità come leva capace di mobilitare il desiderio, di mantenerlo in uno scambio fecondo fra sé e sé, fra sé e l’altra e fra sé e il mondo, è l’intuizione geniale alla base delle pratiche della disparità. Non è mia intenzione sconfessare questa intuizione geniale, intendo anzi valorizzarla. Tuttavia, vorrei esprimere dei dubbi e delle domande a proposito del desiderio.
   1. La prima questione riguarda quella che vorrei chiamare una “metafisica del desiderio” che c’è, a  mio parere, in seno al pensiero della differenza sessuale: si suppone che una donna, una volta distolta dagli oggetti maschili di desiderio, in particolare dal potere, sia capace di esprimere un desiderio autentico, femminile, altro; si presuppone l’esistenza di un simile desiderio metafisico, non mimetico ma originale, fuori dal simbolico dominante. Tuttavia, mi chiedo, questo desiderio esiste veramente o non è piuttosto una proiezione mitica? Fino a che punto è libero il desiderio? Innanzitutto, il desiderio è stato intercettato alla grande dal capitalismo, che chiede un consumatore, una consumatrice con la testa sempre piena di desideri per questo o quell’oggetto da acquistare. La psicanalisi, in particolare quella lacaniana, parla a questo proposito non di uno sfrenamento del desiderio ad opera del discorso del capitalista, ma al contrario di una sua estinzione nel circuito immediato del consumo:[7] in gioco nell’orizzonte consumista ci sarebbe non il desiderio ma il godimento, che per i lacaniani ha un significato decisamente negativo.
   Qui devo fare una breve parentesi sul desiderio come mancanza, un tema che risale a Platone e che arriva fino alla psicanalisi contemporanea e anche al femminismo: per ciò che riguarda quest’ultimo, mi riferisco soprattutto all’interpretazione che ha dato di questo tema Luisa Muraro in La maestra di Socrate e la mia e in Al mercato della felicità.[8] Se il desiderio è mancanza, come mostra bene Platone nel Simposio, occorre stare sempre nello sbilanciamento che esso inaugura e mantiene vivo, nello squilibrio fra l’enormità del proprio desiderio e gli oggetti, sempre insoddisfacenti, che mai possono colmarlo del tutto. Se, come afferma Lacan, il fine dell’analisi è quello di far parlare il vero soggetto, che non coincide con l’io ma con l’inconscio, allora occorre essere fedeli alla singolarità sempre provvisoria e sempre deviante del desiderio, che segnala un’“intima estraneità”[9] installata nel cuore stesso del soggetto. In sostanziale sintonia con questa prospettiva psicanalitica, anche il femminismo della differenza insiste sul desiderio come mancanza, rigettando però del tutto la conclusione platonica del Simposio, in cui il desiderio si colma e si acquieta nella contemplazione del bello e del bene in sé.
   Tuttavia, se la conclusione platonica dell’estinzione del desiderio è anche per me sostanzialmente da rifiutare non solo in sé ma anche per la gerarchia fra maschile e femminile che essa instaura – un maschile che genera nello spirito frutti immortali e un femminile che genera solo corpi mortali -, non bisogna però dimenticare che il desiderio non è “buono” di per sé: esso può anche mangiarsi l’anima, farci ammalare, spesso lo fa. Come afferma a tale proposito non Platone ma Aristotele, il desiderio non può essere un fine in sé: il fine a cui tende il desiderio è la felicità (eudaimonia), perché tutti gli altri oggetti desiderati (potere, ricchezza, realizzazione di sé) sono mezzi per il fine di essere felici, mentre la felicità è fine in se stessa, non in vista di altro.[10] Inoltre, riabilitando un po’ Platone contro le interpretazioni contemporanee che accettano da lui unilateralmente solo il tema del desiderio come mancanza, rigettando la pienezza, bisogna dire che almeno un presentimento di pienezza nel desiderio sicuramente c’è: lo riconosce per esempio Freud quando dice che il desiderio sta fra la mancanza e il ricordo inconscio della pienezza, dei primi soddisfacimenti nella relazione con la madre, che lasciano una traccia fantasmatica nell’inconscio.[11] Anche al di fuori della psicanalisi, si può dire che nel desiderio ci sia la nostalgia di una pienezza perduta, quella sperimentata nel legame con il corpo della madre nella prima infanzia. In questa nostalgia di una pienezza perduta, entra in gioco anche l’asimmetria della differenza sessuale, perché l’intimità femminile con la madre, una del proprio stesso sesso, è stata davvero molto grande, più di quanto possa essere stata per un infante di sesso maschile. La relazione materna è un bene perduto e irrinunciabile, soprattutto per una donna.
   Va detto comunque che, nell’orizzonte contemporaneo, il desiderio come mancanza non è l’unica visione del desiderio, benché essa sia sostanzialmente condivisa sia dalla psicanalisi sia dal femminismo: antagonista all’idea del desiderio-mancanza vi è la linea che va da Spinoza a Deleuze, nella quale il desiderio non è visto come mancanza, ma come potenzialità e risorsa, come gioia immanente.[12] Quest’ultima concezione del desiderio è stata rilanciata recentemente da Rosi Braidotti,[13] la cui proposta del post-umano mi trova però poco d’accordo: condivido il senso di un congedo dall’umano, troppo compromesso con termini come uomo e umanesimo, ma l’ibridazione con la macchina, che non è sessuata ma neutra, mi sembra poco promettente, perché rischia di rendere insignificante la differenza sessuale. Nonostante l’opposizione fra il desiderio come mancanza e il desiderio come gioia immanente, ciò che le due linee di pensiero hanno in comune è l’imperativo di mantenere sempre viva la potenza desiderante.
  Ritorno ora brevemente sulla mia domanda, che riguarda la metafisica del desiderio, per precisarla meglio. Come ho già accennato, vi sarebbe a mio parere nel pensiero della differenza una sorta di metafisica del desiderio, cioè la convinzione che una donna, una volta distolta dagli oggetti maschili di desiderio, sia capace di esprimere un desiderio femminile sorgivo, autentico, fuori dal simbolico dominante; si presuppone l’esistenza di un simile desiderio metafisico, non mimetico ma originale. Mi permetto di dubitarne. Per esempio la figura dell’isterica, assunta da alcune pensatrici della differenza come emblematica dell’intero sesso femminile,[14] parla di un desiderio modellato sul desiderio dell’altro, dell’altra. Si auspica un desiderio femminile autentico, sorgivo, non mimetico: ma un simile desiderio esiste veramente o non è piuttosto una proiezione mitica? Secondo René Girard, che ha molto lavorato sul desiderio mimetico, il mito del desiderio originale è una menzogna romantica: la verità che i grandi romanzieri svelerebbero è che il desiderio imita sempre il desiderio più forte, e che solo accettando di essere creature, rinunciando all’orgoglio e ritrovando il senso della trascendenza, si può desiderare secondo se stessi e non secondo quello che gli altri indicano.[15] Girard non ha la chiave di lettura della differenza sessuale, ma io sì e mi sento di affermare, proprio guardando ai luoghi di donne che conosco bene, che anche nei contesti femminili spesso il desiderio imita il desiderio più forte: imparare a desiderare secondo se stesse è un’arte difficile, che richiede un faticoso apprendistato e un difficile scollamento dalle figure che via via si candidano a presentarsi come sostitute del tesoro perduto e irrinunciabile della relazione materna. Girard pensa che occorra ritrovare un qualche senso della trascendenza per desiderare secondo se stessi: anch’io lo credo e penso che proprio per questo molto desiderio femminile, quello delle mistiche ad esempio, si sia giocato nella relazione con l’Altro divino, con una trascendenza che ha consentito di ottenere un’autorizzazione infinita per il proprio stesso desiderio:[16] forse proprio nella tradizione mistica, che è una tradizione soprattutto femminile, risiede il segreto che consente di desiderare secondo se stesse ma senza rinunciare alla relazione con l’altro.
   2. Il secondo dubbio riguarda gli oggetti del desiderio. Senza voler fare del moralismo sugli oggetti del desiderio – moralismo inaccettabile perché, ognuna, ognuno ovviamente desidera quello che vuole, e non c’è altro da dire -, bisogna però andare a vedere che cosa le donne in carne e ossa concretamente desiderano: soldi, carriera, amore, potere, realizzazione di sé? Nell’orizzonte della differenza sessuale, non si fanno discriminazioni fra gli oggetti del desiderio, qualificandone alcuni come buoni, altri come meno buoni, e giustamente, perché, restando all’interno del desiderio, non è possibile avanzare alcuna valutazione né discriminazione fra desideri. Oltretutto, in quest’assenza di valutazione, c’entra anche il fatto che l’ambizione femminile, sempre piuttosto scarsa, va comunque incoraggiata, qualsiasi cosa una donna concretamente desideri.
   La questione di fondo è che, rimanendo nell’orizzonte del desiderio, non è possibile fare alcuna valutazione né avanzare alcun giudizio sugli oggetti del desiderio stesso: qualsiasi desiderio è legittimo e sacrosanto, e non c’è nulla da aggiungere. Tuttavia, come ho già ricordato, Aristotele nell’Etica nicomachea sostiene che una misura del giudizio è possibile se si esce dall’orizzonte stretto del desiderio e se si considera che quest’ultimo non è in realtà un fine in sé, ma è solo un mezzo in vista del fine a cui tutti tendono, che è la felicità.[17] Tutti gli oggetti desiderati sono solo mezzi per il fine di essere felici, mentre la felicità è fine in se stessa, non in vista di altro: si tratterebbe a questo punto solo di valutare se i propri desideri, i mezzi prescelti, siano in grado di procurare la felicità oppure no.
   Nonostante che nel pensiero della differenza sessuale non venga avanzato – e a ragione – alcun giudizio nei confronti degli oggetti del desiderio, tuttavia si può distinguere, seguendo un suggerimento di Luisa Muraro in L’ordine simbolico della madre, fra quegli oggetti che sono una buona restituzione della relazione materna e quelli che ne rappresentano invece una contraffazione.[18] A mio avviso, il pensiero e le pratiche della differenza sessuale scontano una certa ambiguità nell’autorizzare, da un lato, qualsiasi desiderio come espressione della soggettività femminile e nell’incoraggiare invece, da un altro lato, soprattutto quei desideri che si distolgono dalle mete sociali maschili per aprire uno spazio altro, per dare vita al desiderio di esserci come donne, cioè al desiderio femminile come desiderio ontologico. In fondo, la scommessa, centrale nel pensiero della differenza sessuale, di puntare sull’autorità femminile in alternativa al potere[19] può essere letta alla luce di questo discrimine: puntare sull’autorità femminile vuol dire infatti radicarsi nella relazione materna, visto che per una donna la prima figura di autorità è stata la madre, mentre essere attratte dal potere significa essere conniventi con un ordine simbolico di origine maschile.
   In realtà, nel pensiero della differenza sessuale, un giudizio implicito sugli oggetti di desiderio c’è, e riguarda il desiderio dell’emancipata: l’emancipata è una donna che assume acriticamente gli oggetti di desiderio già designati secondo misure maschili. Nella presa di distanza, all’interno del pensiero della differenza sessuale, dalla prospettiva dell’emancipazione, è leggibile in controluce un giudizio di valore negativo su degli oggetti di desiderio che non sarebbero davvero in grado di procurare la felicità auspicata.
   Riguardo a questa obiezione circa gli oggetti di desiderio, tuttavia, bisogna dire che in generale il pensiero della differenza promuove fondamentalmente un desiderio senza oggetto: esalta il desiderio come leva, come capacità di spostamento, come energia, invitando a stare sempre nello squilibrio e nella fecondità degli inizi.[20] Il gioco aperto dal desiderio vi appare come un costante sbilanciamento, come una sproporzione che, anziché condurre alla moderazione, invita al rilancio, perché, anziché lasciarsi paralizzare dalla propria pochezza, si fa della mancanza una risorsa.[21] Tutto è squilibrio nel desiderio: c’è disparità fra sé e sé, in una soggettività fessurata dall’inconscio, c’è disparità fra sé e l’altra, l’altro, c’è sproporzione fra il desiderio e una realtà che sembra ostile o indifferente. Tutte queste disparità, che potrebbero risultare paralizzanti, vengono al contrario interpretate come inviti a rinnovare sempre la contrattazione, a trovare nuove mediazioni, più rispondenti a sé, a muoversi in un incessante andirivieni fra interiorità ed esteriorità, affinché la realtà non risulti indifferente ai propri desideri. Come ha sottolineato giustamente Manuela Fraire, nel femminismo della differenza fin dall’inizio l’importante non è tanto il desiderio di un oggetto, quanto piuttosto “il rapporto e la trasformazione di sé che si opera per via del desiderio”.[22]
   3. Un terzo dubbio che ha a che fare con il tema del desiderio riguarda il progressivo dissolvimento dell’intreccio di sessualità e politica che c’era agli inizi del femminismo degli anni 1970, ad esempio nella posizione di Carla Lonzi: mentre inizialmente il desiderio femminile era interrogato innanzitutto come desiderio sessuale, in seguito la questione del desiderio si è spostata dalla sfera della sessualità a quella del sociale e della politica. In tal modo, come osserva giustamente Ida Dominijanni, si è dato vita a un pensiero del desiderio paradossalmente desessualizzato:[23] il riferimento prioritario alla figura materna come prima figura di autorità e la concentrazione pressoché esclusiva sulle relazioni fra donne hanno messo in ombra soprattutto il desiderio eterosessuale. Dall’eterosessualità normativa, giustamente criticata da Lonzi negli anni 1970, si è passate così paradossalmente a un femminismo desessualizzato, senza più interrogare il nodo di sessualità e politica come particolarmente significativo.
   Rispetto al femminismo della differenza italiano che, dopo gli anni 1970, non si è più interrogato molto su questo tema, Luce Irigaray ha rivolto invece costantemente l’attenzione alla sessualità femminile, cercando di ricavarne figure simboliche a essa corrispondenti: basti ricordare, a tale proposito, l’idea del trascendentale sensibile, una forma di trascendenza in sintonia col corpo e con la carne, e l’immagine del mucoso, una soglia tattile che rinvia al sesso femminile, sempre dischiuso e al tempo stesso capace di “ri-toccarsi” e di ritornare così presso di sé.[24] Irigaray ha avuto attenzione anche per il tessuto simbolico dell’eterosessualità, in particolare trattando il tema della carezza in Etica della differenza sessuale.[25]
  Per reagire al dissolvimento del nodo di sessualità e politica nel femminismo della differenza in Italia, è stato prezioso l’incontro organizzato nel settembre 2014 all’università di Verona da Barbara Verzini, Tristana Dini, Alessandra Chiricosta e Alessandra Pigliaru, per tornare a riflettere sul tema della sessualità femminile nel suo intreccio con la politica.
   4. Vorrei porre una quarta domanda; farne solo tre sarebbe stato meglio per una di formazione hegeliana come me, ma io non sono hegeliana fino a questo punto. A proposito di Hegel, un filosofo centrale per il tema del desiderio almeno quanto Platone, faccio solo un breve inciso: ci sarebbe da dire parecchio sul desiderio come desiderio dell’altro, cioè come desiderio di riconoscimento. Questo è un tema che è un campo di battaglia per il femminismo contemporaneo, e che vede schierate, da un lato, Nancy Fraser, Jessica Benjamin e Judith Butler, sostenitrici, sia pure in modo diverso, dell’importanza del riconoscimento,[26] e, da un altro lato, Carla Lonzi[27] e la prospettiva della differenza sessuale, molto critiche rispetto alla possibilità di leggere la relazione donna-uomo alla luce del desiderio di riconoscimento e della dialettica servo-padrone. Tuttavia, sviluppare questo tema mi porterebbe troppo lontano.
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    Vengo dunque alla mia quarta questione sul tema del desiderio: essa riguarda la caduta del desiderio femminile, il suo mutismo, constatabile anche oggi, nonostante che davvero molto sia stato pensato e fatto per dare voce al desiderio femminile. Esiste ed è largamente diffusa la depressione femminile, in cui il desiderio non solo non solo non rilancia, ma addirittura si ammutolisce e si spegne. E’ stato fatto a questo proposito, all’interno del pensiero della differenza sessuale, un lavoro del negativo, che è prezioso per interrogare i luoghi in cui il desiderio femminile è minacciato o desertificato:[28] interrogare questi luoghi di enigmatico mutismo del desiderio è importante per far sì che il negativo che in essi è custodito non vada a male e perché l’aggressività che vi è incistata non si ritorca in modo depressivo contro colei che non riesce a manifestarla all’esterno. Alcune patologie del desiderio femminile, come quella depressiva, si originano spesso da un difficile rapporto con la madre, da un’ombra del materno minacciosa e incombente: anche qui è la disparità, in questo caso quella con la madre, ciò che fa problema, ciò che paralizza anziché mobilitare il desiderio. Uno squilibrio molto grande, infatti, può incentivare il desiderio, ma può anche paralizzarlo del tutto. Il pensiero della differenza sessuale si è molto interrogato sul desiderio femminile, ma che cosa dire oggi a donne che si scoprono, nonostante ciò, non desideranti?
   C’è nel pensiero della differenza una specie d’imperativo, si potrebbe dire quasi kantiano, a far vivere e ad alimentare i propri desideri, ma stare nello squilibrio del desiderio, se la realtà e gli altri non rispondono, è molto difficile. Il desiderio che non trova risposta può ritorcersi contro colei che lo ha sostenuto, scatenando meccanismi terribili di auto-aggressività e di imprigionamento depressivo. Credo che il meglio che si possa dire in queste situazioni è che occorre stare accanto al negativo, al deserto, al mutismo, perché lì comunque, nella minaccia di un’aggressività rivolta contro se stesse, può esserci un desiderio tacitato, ammutolito, spento, da ascoltare con cura non appena esso dia timidi segni di rinascita.
   Infine, vorrei chiudere con un riferimento al corpo. Il desiderio e la sessualità hanno molto a che fare con il corpo, e la tematica del corpo è anch’essa stata centrale nel femminismo degli anni 1970: in seguito, il tema del corpo è stato meno presente nel femminismo della differenza sessuale in Italia. Il tema del corpo c’entra moltissimo con la differenza sessuale: le donne sono state storicamente, per secoli, schiacciate sulla corporeità, sull’animalità; il corpo femminile può generare, e questo crea una grande asimmetria rispetto a quello maschile.
   Il senso libero della differenza sessuale, che noi abbiamo affermato e che sosteniamo tuttora, non può disfarsi né del peso della necessità né del carico del corpo: non può disfarsi del corpo-sintomo, che ci segnala quando non ce la facciamo più e allora dovremmo proprio ascoltarlo, non può disfarsi del corpo come mediazione con il mondo, evidente soprattutto nel lavoro manuale e nel lavoro di cura, non può disfarsi del corpo che noi siamo, più che averlo come se fosse un oggetto. Tuttavia, il corpo non è solo peso e necessità: è anche – e soprattutto il corpo femminile lo è, per i cicli lunari a cui risponde – un corpo-ritmo, un corpo in relazione con il cosmo. Del corpo parla in tutti questi sensi Simone Weil nei Quaderni.[29] Ho ricordato tutti questi significati del corpo – e forse altri se ne potrebbero aggiungere –, perché il corpo, nel caso del genere umano, non è mai solo corpo, ma è sempre detto dal linguaggio, è incrociato dall’ordine simbolico.
   Personalmente, m’interessa non il corpo come tale, ma l’intersezione fra corpo e spirito. Mi sta a cuore lo spirito che si fa materia, corpo: ne offre uno splendido esempio Simone Weil quando, nei Quaderni, ricorda un romanzo irlandese in cui si parla di una donna il cui fratello era stato condannato a morte. Dopo l’esecuzione capitale, la sorella mangiò, per pura reazione vitale, un intero vasetto di marmellata di fragole. Da quel momento in poi, per tutta la sua vita, questa donna non poté mai più mangiare marmellata di fragole. Lo spirito era passato nel corpo, ed era il corpo a ricordare per sempre, per tutta la vita, la morte del fratello e la propria reazione vitale a questa morte tragica.[30] Qui Simone Weil offre un esempio eloquente di come i sentimenti e lo spirito diventino corpo e dunque anche forza materiale.
   Fra il corpo-sintomo che ci segnala che non ce la facciamo più e il corpo in relazione col cosmo, c’è il sentiero stretto da tracciare fra necessità e libertà: corpo-pesantezza da una parte, corpo ritmo dall’altra. In mezzo ci siamo noi, con la scommessa di fare di ciò che ci è semplicemente capitato di essere, fra cui l’essere nate donne, un guadagno di senso e di libertà. Il senso libero della differenza sessuale vuol dire che del caso che ci è capitato – essere nate donne – , ma anche delle numerose contingenze che hanno segnato la nostra venuta al mondo e le nostre vite, molte delle quali sono degli elementi di costrizione che non abbiamo scelto, possiamo fare comunque una strada di libertà. Il primo e fondamentale dato contingente che mi è capitato in sorte è l’essere nata donna: il femminismo della differenza mi ha aiutato a fare di questa contingenza, di questo elemento ineludibile, che storicamente era sempre stato interpretato con il segno meno, un percorso di libertà.
   Anche altre contingenze che pesano su di me, che non ho scelto, e di cui avrei fatto volentieri a meno, possono dischiudere, pur restando costrizioni subìte, un percorso di libertà, a patto che se ne faccia un uso sapiente, elaborandole e riuscendo a condividere con altre, altri, il senso di ciò che si è vissuto. Faccio un esempio che mi riguarda personalmente: si tratta di una patologia che mi porto addosso ormai da 16 anni, una forma di ciclotimia, per cui sono, a fasi alterne, per lunghi periodi depressa, in altri al contrario euforica. Non è facile stare in quest’altalena, seguire l’onda prima di bassa marea, poi alta come un cavallone nel mare infuriato. A parte curarmi con la psicoterapia e con i farmaci, cose che non mi hanno guarito ma che mi hanno insegnato piuttosto a convivere con questo disagio, ho trovato il modo di fare di questa altalena una risorsa per una cosa che mi interessa molto fare, cioè pensare e scrivere. Nelle fasi depressive, faccio il lavoro di routine: leggo libri, li schedo, prendo appunti; nelle fasi euforiche, avendo messo al sicuro quel lavoro rituale e ripetitivo, ma necessario, scrivo, sull’onda alta che cerco di cavalcare senza farmene sopraffare. E’ stato fondamentale per me, per accettare di stare in quest’altalena e per riuscire a farne, almeno in parte, un uso libero, l’elaborazione dei miei vissuti e lo scambio con le amiche di Diotima, di cui è frutto il libro Immaginazione e politica, in cui ho messo in parole qualcosa di tale esperienza negativa.[31]
   Anche Simone Weil ha fatto di alcune sue inclinazioni che si potrebbero forse ritenere patologiche – una tendenza all’anoressia e un’avversione per la sessualità – un percorso di libertà: il suo sogno di cibarsi di sola eucarestia e la sua idea di un amore fra uomo e donna senza sessualità recano traccia delle sue difficoltà col cibo e col sesso, ma poi le cose che lei dice a proposito del nutrimento, del guardare anziché mangiare il bello, e a proposito dell’amore in generale, sono, nonostante o forse proprio in forza di queste costrizioni vissute incorporate in una libera costruzione di pensiero, dei colpi di genio assoluti.
   Dalle contingenze che ci sono toccate in sorte, prima fra tutte l’essere nate donne, è possibile o addirittura necessario ricavare un guadagno di libertà, facendo sì che esse non pesino semplicemente su di noi, ma che siamo noi a usarle per ciò che ci sta a cuore. Questo è per me il senso libero non solo della differenza sessuale, ma anche delle molte contingenze che segnano le nostre vite: è una scommessa di libertà a partire da ciò che non dipende da noi, un modo di riscattare le costrizioni che ci portiamo addosso dando loro un senso libero, che è sostanzialmente nelle nostre mani.
Note

[1] Cfr. Ida Dominijanni, Il desiderio di politica, in Lia Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche, Parma 1995, pp. 7-46.

[2] Cfr. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, in Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta femminile, Milano 1974, p. 60.

[3] Cfr. I. Dominijanni, Il desiderio di politica, cit., p. 11.

[4] Cfr. Rosi Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea, tr. it. di Elvira Roncalli, La Tartaruga, Milano 1994, p. 128.

[5] Cfr. Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, in Sputiamo su Hegel, cit., pp. 77-140.

[6] Cfr. Ida Dominijanni, L’impronta indecidibile, in Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007, pp. 177-196, in particolare p. 183.

[7] Cfr. Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 15. Al di fuori del contesto lacaniano, una tesi simile è sostenuta anche da Byung-Chul Han, La società della stanchezza, tr. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma 2012, e Id., Eros in agonia, tr. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma 2013.

[8]  Cfr. Luisa Muraro, La maestra di Socrate e mia, in Diotima, Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli 2002, pp. 27-43, ed Ead., Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Milano 2009.

[9] L’espressione “intima estraneità” traduce una parola coniata da Lacan, extimité, che allude a una radicale estraneità installata in ciò che c’è di più profondamente intimo: cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino1994. L’espressione “intima estraneità” compare, sulla scia di Lacan, nel titolo del bel testo di Angela Putino, Simone Weil. Un’intima estraneità, Città Aperta, Troina (Enna) 2006.

[10] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, tr. it. di Armando Plebe, Laterza, Bari 1973, I (A), 6, 1096 b.

[11] Cfr. Jean Laplanche, Jean Bernard Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, a cura di Giancarlo Fuà, Luciano Mecacci e Cynthia Puca, Laterza, Bari 1993, pp. 130-131. Il tema del desiderio è presente in tutta l’opera di Freud, per cui è difficile isolare un luogo in cui esso compaia in modo esclusivo: mi limito a segnalare di Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni (1900), tr. it. di Filippo Pogliani, introduzione di Jean Starobinski, Rizzoli, Milano 1986, vol. I, cap. III, pp. 194-206.

[12] Sul tema del desiderio in Deleuze, cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, L’anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia, tr. it. a cura di Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 2002, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, in Millepiani, vol. II, tr. it. di Giorgio Passerone, a cura di Massimilano Guareschi, Castelvecchi, Roma 2006, pp. 5-32, e la voce “desiderio” in L’Abécédaire de Gilles Deleuze, intervista di Claire Parnet a Gilles Deleuze, trasmissione televisiva girata nel 1988 e andata in onda per la prima volta nel 1996, dopo il suicidio di Deleuze.

[13] Cfr. Rosi Braidotti, Il postumano: la vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, tr. it. di Angela Balzano, Derive Approdi, Roma 2014.

[14] Cfr. Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna, tr. it. a cura di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 66-67, Ead., Questo sesso che non è un sesso, tr. it. di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1978, p. 62, e Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991, Ead., La posizione isterica e la necessità della mediazione, a cura di Mimma Ferrante, Donne Acqua Liquida, Biblioteca delle donne-UDI di Palermo, Palermo 1993.

[15] Cfr. René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, tr. it. di Leonardo Verdi-Vighetti, Bompiani, Milano 1965.

[16] Cfr. Erminia Macola, Un’autorizzazione infinita, in AA. VV., Un altro mondo in questo mondo. Mistica e politica, a cura di Wanda Tommasi, Moretti e Vitali, Bergamo 2014, pp. 84-96. Voglio ricordare qui Erminia Macola, purtroppo recentemente scomparsa, per la sua grande intelligenza, generosità, e per il suo atteggiamento positivo verso la vita. Sulla mistica femminile, cfr. Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003.

[17] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., I (A), 6, 1096 b.

[18] Cfr. L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, cit.

[19] Cfr. L. Cigarini, La politica del desiderio, cit., pp. 127-184. Sul tema dell’autorità femminile, cfr. inoltre Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995, e, più recentemente, Luisa Muraro, Autorità, Rosenberg & Sellier, Torino 2013, e Annarosa Buttarelli, Sovrane. L’autorità femminile al governo, Il Saggiatore, Milano 2013.

[20] Cfr. L. Muraro, La maestra di Socrate e mia, cit., p. 37.

[21] Cfr. L. Muraro, Al mercato della felicità, cit., pp. 16-25.

[22] Manuela Fraire, L’effetto-madre. Sulla famiglia e oltre, in Annarosa Buttarelli, Federica Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 123.

[23] Cfr. I. Dominijanni, L’impronta indecidibile, cit., p. 183. Tuttavia, proprio Dominijanni ha rimesso recentemente al centro della sua riflessione il nodo di sessualità e politica, interrogando nuovamente, alla luce delle vicende del ventennio berlusconiano, il tessuto simbolico dell’eterosessualità: cfr. Ida Dominijanni, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014.

[24] Cfr. Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, tr. it. di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 90-91 e pp. 142-163.

[25] Cfr. ivi, pp. 142-163.

[26] Cfr. Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento: una controversia politico-filosofica, tr. it. di Enzo Morelli, Meltemi, Roma 2007, Jessica Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, tr. it. di Anna Nadotti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, e Judith Butler, Soggetti di desiderio, tr. it. di G. Giuliani, presentazione di Adriana Cavarero, Laterza, Roma-Bari 2009, Ead., La disfatta del genere, tr. it. di Patrizia Mafezzoli, a cura di Olivia Guaraldo, Meltemi, Roma 2006, cap. “Desiderio di riconoscimento”, Ead., Critica della violenza etica, tr. it. di Federico Rahola, Feltrinelli, Milano 2006. All’interno del campo di battaglia costituito dai diversi femminismi, Nancy Fraser rappresenta la posizione più favorevole al rilancio del desiderio di riconoscimento in seno al femminismo: Fraser assegna un ruolo importante alla richiesta di riconoscimento da parte delle donne, avanzata per superare le disuguaglianze di genere e per denunciare la violenza domestica, la violenza sessuale e l’oppressione riproduttiva, in una serie di rivendicazioni che, dal privato delle relazioni sessuali, investe la sfera pubblica in nome di una richiesta di giustizia. Anche Jessica Benjamin ha valorizzato la tematica del riconoscimento, ma in una prospettiva intersoggettiva, non come strumento di rivendicazione politica: coniugando la prospettiva psicanalitica con quella femminista, Benjamin ha indagato le relazioni di dominio e di sottomissione, instaurate, a partire dalla sfera sessuale, fra uomini e donne. Infine, allontanandosi dalla concezione di Fraser del desiderio di riconoscimento come strumento di lotta politica, Butler si colloca accanto a Benjamin, a cui pure muove delle critiche, nell’interrogare la dinamica del riconoscimento in una prospettiva sia psicanalitica sia intersoggettiva, a partire dalla scissione originaria del sé nella sua apertura costitutiva all’altro. Nonostante la sua riformulazione originale della questione, Butler rimane legata al paradigma hegeliano del desiderio di riconoscimento: lo dimostrano la sua insistenza sul nesso costitutivo fra desiderio e riconoscimento e la sua concezione della soggettività come radicalmente implicata nella relazione con l’alterità.

[27] Cfr. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 28 e p. 34. Sul pensiero di Lonzi, cfr. Maria Luisa Boccia, Con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita, Ediesse, Roma 2014.

[28] Cfr. i due libri di Diotima sul lavoro del negativo nelle relazioni fra donne: La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005, e L’ombra della madre, cit.; cfr. inoltre il mio libro sulla depressione femminile, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile, Liguori, Napoli 2004.

[29] Per i diversi significati del corpo nell’opera di Simone Weil, in particolare nei Quaderni, rimando al mio libro Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997.

[30] Cfr. Simone Weil, Quaderni, vol. IV, tr. it. a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 398. Così Weil commenta questa storia: “Per l’uomo che vive in questo mondo, quaggiù, la materia sensibile – materia inerte e carne – è il filtro, il vaglio, il criterio universale del reale nel pensiero, nell’intero ambito del pensiero, senza che niente ne sia eccettuato. La materia è il nostro giudice infallibile”.

[31] Cfr. il mio saggio Soglia, in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale, Liguori, Napoli 2009, pp. 67-102.