menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

lunedì 12 dicembre 2022

Recensione di “Nascaredda”, romanzo di Rossano Borzillo (BookSprint Edizioni, 2022), Lanciano 10.12.2022

Alcuni anni or sono, ho avuto l’occasione di leggere una delle prime stesure del libro di Rossano Borzillo che sollecitai a continuare nella scrittura di un’opera definibile, secondo i canoni, romanzo di formazione con rilevanti contenuti biografici e che, tuttavia, s’apre con sorprendente - al contempo - ironia e drammaticità ad un autentico scandaglio di un’epoca (in particolare il periodo di tempo che intercorre tra la fine degli anni ‘60 del Novecento e l’attualità) e di generazioni “insofferenti” e dedite ad organizzare e sognare la trasformazione sociale.

Sono felice che l’originale scritto abbia avuto il suo compimento nella recente pubblicazione. Un libro che va letto e, eventualmente, recensito, promosso in iniziative di pubbliche discussione.

Dopo la marcia editorialmente trionfale di “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” (2019) di Remo Rapino (vincitore della 58^ Edizione del Premio Campiello), e le diverse affermazioni in campo letterario di autori di Lanciano, quali Bruno Montefalcone, Giuseppe Rosato, Emiliano Giancristofaro (per limitarci ad alcuni contemporanei), s’auspica che anche “Nascaredda” (BookSprint EDIZIONI, 2022), esordio narrativo di Rossano Borzillo, possa riscuotere gli apprezzamenti dovuti, di critica e di pubblico.

Questo libro, opera prima di Rossano Borzillo, mette in rilievo una doppia spinta tematica e linguistico stilistica: da una parte la tendenza all’anarchia e alla deformazione, anche ad una evidente e simpatica libertà sintattico-grammaticale, dall’altra un certo richiamo al rigore, prevalentemente cronologico, e al normativismo (estetico e linguistico), nel senso proprio di fulminee frasi che sembrano rendere giustizia di quel “circo lessicale” nel quale poco prima il lettore si trova ed subitaneamente indotto ad apprezzare, risultandone rapito e quasi stordito, incedendo pagina dopo pagina nella lettura.

La leggerezza, la rapidità, l'esattezza, la visibilità e la molteplicità sono cinque dei tratti stilistici distintivi che, leggendo l'opera, sono rintracciabili nei capitoli e, sarà un caso, sono correlati ai valori che Italo Calvino raccomandò nelle “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio” – originalmente elaborate per un ciclo di conferenze a Harvard – raccolte e pubblicate postume nel 1988. L'opera che ne è uscita forma una poetica, una testimonianza delle teorie letterarie di Italo Calvino.

Non sembri bizzarro accostare Borzillo a Calvino. Chi si sofferma sulle mere vicende narrate, sulle plurime “storie” rievocate in quanto realmente vissute nei decenni trascorsi in quel di Lanciano, Urbino e Copenaghen, chi si limita al “like non like” avventurandosi nella lettura di “Nascaredda”, rischia di non cogliere il senso dell'accostamento. Potrà essere chiarito utilizzando alcune parole dello stesso Calvino: «Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni ? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili» (da Italo Calvino, op.cit., 1988).

A mio parere, certo non può compararsi la vasta produzione scritta di Calvino che spazia dalla narrativa (romanzi, racconti, novelle) alla saggistica e si estende dal 1945 fino alla sua morte nel 1985. È anche nota, altresì, la predilezione di Calvino per il disegno, e quindi per l'immagine visiva, e per il linguaggio tagliente e scorciato che si scorge già agli inizi manifestandosi nel campo della caricatura e in alcune vignette pubblicate sul Bertoldo, anni prima dell'uscita del primo romanzo; qui, possiamo osar ricordare che Borzillo, formatosi come scultore presso l'Accademia di belle arti di Urbino, ha sviluppato nel tempo un suo linguaggio artistico pittorico – di questa esperienza, in parte travagliata, ne abbiamo riscontro nel romanzo – che trasferisce ora nella scrittura.

Le parole di Calvino trovano, in quest'ultima forma espressiva di Borzillo, appunto la scrittura – quantomeno nella sintonia delle intenzioni –, una prova schietta, verace, d'una configurazione creativa distante anni luce dalle odierne forme di “marketing editoriale di influenza” che, a titolo d'esempio, ha visto, alcuni anni or sono, un successo di vendite della produzione letteraria seriale di Federico Moccia, tra l'altro conterraneo d'adozione essendo stato anche Sindaco di Rosello.

Per quanto riguarda la lingua – veicolo principale che trasporta il lettore dentro la peculiare storia di “Nascaredda” al centro della quale ritengo ci sia l'amore di Bruno per Naria - non va molto oltre il fondo di corretta colloquialità affabile, e quel che ne esorbita (forme dialettali o neoforestierismi) rimane sempre a livello di germoglio ed eccezione, quasi ad evocare una timidezza del “dire”.

Anche la prassi neologistica e soprattutto la formazione di alterati valutativi non arriva a un grado di deformazione estremistica tale da poter mettere a rischio la comprensibilità del testo. Anzi, superate le prime trenta pagine, si riesce avidamente e con interesse crescente a scorrere tutte le altre.

Un discorso a parte merita l’uso del borzillese pretto, certo non ultravernacolare, che veicola insieme – e non senza contraddizioni – una mitologia identitaria dell’origine e una mitologia postmoderna della trasparenza e della chiarezza. Trasparenza e chiarezza che nella trama, nelle vicende narrate, l'asse portante del romanzo, rifulge brillantemente. Questo è, a mio giudizio, l’aspetto migliore di “Nascaredda”: un “francescanesimo” attualizzato in una curvatura letteraria, un po' picaresco, certo, ma convincente nella semplicità dell'argomentare, non proponendosi come “sacro modello” o recependone uno in particolare reperibile all'interno del mercato editoriale internazionale contemporaneo.

Siamo in presenza di una osata, meditata rottura di schemi narrativi che non evolve in velleitarie aspirazioni d'innovazione stilistica o in presunti originalissimi contenuti i quali (prevedibilmente) “devono” emozionare, “devono” stupire i lettori, come quando si prendono farmaci appositamente per guarire dal torpore patologico, facilmente rintracciabili in tanta, troppa carta straccia che viene stampata per vendere. Tale rottura in “Nascaredda” si nota nell’intensità descrittiva, nel ritmo incalzante degli episodi raccontati, in quel genuino fuoco d’artificio di termini che Borzillo innesca, io so, dopo anni di meticolosa e sofferta composizione del testo, di revisioni ed integrazioni, di cambi nella prospettiva editoriale e nel “telos”.

Come scrivono Ginevra Amadio e Luca Cirese a proposito delle opere di Luciano Bianciardi, riferendosi al “romanzo “L’integrazione” (1960) insieme a “Il lavoro culturale” a (1957) e La vita agra (1962), che compongono la “trilogia della rabbia”, Bianciardi è sempre asincrono e fuori contesto. Profondamente maremmano, stretto tra un desiderio di fuga e un’endemica incapacità di adattamento, capace di testimoniare al tempo del “miracolo all’italiana” miserie e bagliori di una trasformazione epocale. Indimenticabili ancora oggi alcune pagine che scrive nella sua «storia della diseducazione sentimentale in Italia, al tempo del Miracolo», come Luciano Bianciardi annunciò il capolavoro che ha compiuto sessanta anni”. Ebbene, anche Borzillo s’avventura controcorrente in un “racconto vero, aggressivo, chirurgico”, ben sapendo che nella “società liquidissima” di questa parte del mondo, è permesso di “ignorare” qualsiasi libro, concetto, comportamento difforme o semplicemente per inedia – ed alcuni si ostinano a chiamarla “libertà d’opinione” - “non lesina crudeltà espressiva in un impasto linguistico rabbioso, tra parodia e naturalismo sordido, per smascherare il “ben fatto”, il “decoroso” mediante bruschi contrasti, nello stridio di combinazioni impossibili”.

Anche “Nascaredda”, a me pare, “reca tracce di un’ubriacatura nemica di ogni economia mentale, sia a livello sintattico, dove le parole rompono le relazioni, si disallineano prima di finire la proposizione, sia sul piano semantico. Le combinazioni arrivano così a rallentare il tempo, per indagare un’epoca che si muove e sfugge. Per comprenderla, occorre dunque disintegrare schemi e sudditanza ideologica a categorie già date”.

Sembra, per questa sottostante simile natura dello scritto di Borzillo a quella di Bianciardi, di poter rintracciare analogicamente, in “Nascaredda” una particolare verve autorale, quella di un Charles Bukowski frentano, un esponente, per così dire, di un genere di letteratura dell'immanenza in grado di raccontare efficacemente il “presente” niente affatto edulcorato, imprigionato da una razionalità strumentale, bensì che, al contrario, in questo tipo di narrazione dell'immediatezza, l'autore diventa effettivamente libero di esporsi – senza dubbio passionalmente più che provocatoriamente (considerato che “provocatorio” è stato ritenuto, ad esempio, Achille Lauro, sostenendo che il travestimento faccia del performer un artista musicale, un cantante o, addirittura, un genio della composizione) – anche alle ingiurie dell'eventuale sconfitta, alle invettive, sempre livorose e gratuite, tipiche del perbenismo borghese, ancor più in una cittaduzza di provincia come Lanciano, perbenismo che è vocato alla repressione ed all'autorepressione e che alla fine uccide le persone, stigmatizzandole come avviene solo in queste lande di marginalità rispetto alle metropoli.

Il parallelo, forse ardito, con Bukowski è probabilmente autorizzato esclusivamente sotto il profilo di scrittore nonsense, narratore esordiente nel caso di Borzillo, certo non perché anche in “Nascaredda” avviene la descrizione di prestazioni sessuali, di mitiche ubriacature, di evacuazioni “liberatorie” e di puntate all’ippodromo, ma termina qui. Tuttavia, e non è il Bukowski frentano a sostenerlo, come lo scrittore statunitense, anche in “Nascaredda” « ... è il novantacinque per cento vero e il cinque per cento narrazione. È solo un po’ levigato, intorno ai bordi ...» (cit. Charles Bukowski, “Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle”, Fernanda Pivano, Intervista a Bukowski, Sugarco, 1991).

In realtà, siamo in presenza di un corposo testo di 609 pagine che testimonia un'autentica disposizione alla conoscenza, un libro che mette in discussione, testandone la verità nell'arco di quasi un decennio, l'evanescenza delle comunicazioni interpersonali, soprattutto da quando esse sono mediate da strumenti tecnico-elettronici, le quali non evolvono quasi mai in consapevolezza, in avveduta implicazione sentimentale o socio-politica, come viceversa accade, in modo genuino, ai protagonisti delle storie di cui scrive Borzillo che sono esattamente corrispondenti ai fotogrammi vitali che l'autore nel suo romanzo è brillantemente in grado di rammemorare disegnandone con meticolosa precisione i contorni di personalità, lasciando apprezzare il variegato spessore, nel racconto, mai spettacolarmente enfatizzato, degli Ego e delle relazioni che essi instaurano.

Per questi motivi se, come è stato scritto altrove, “la parola cirrosi sta a Bukowski come un vestito di Prada a Cristiano Ronaldo”, è possibile parafrasare tale affermazione dicendo che se la bellezza non è nei Musei, nelle gallerie d'arte varia o nelle case private, dove poterla trovare ? La mia risposta è: nella dignità osservativa, “pragmatica”, oltreché comportamentale, e, conseguentemente, nella risata e nella tenerezza, come pure in una sorta di matura innocenza, che costituiscono insieme la qualità principale dello scritto, corrispondente alla qualità morale non solo del messaggio implicito nel romanzo, ma dell'uomo che si è fatto scrittore rifuggendo dalle periferie della vita sociale come destino e riuscendo coraggiosamente a rintracciare una possibilità di ribaltamento dell'alienante vivere quotidiano, una concreta destinazione del corso esistenziale, frequentando assiduamente l'utopia, cioè ciò che non è stato ancora realizzato, ma che è immanente, seppur silente, in ciascuno di noi.

Se la narrazione di Borzillo sembra fragile e precaria essa, in verità, non è che un riflesso dell'onestà intellettuale, della delicatezza propria di ogni utile irriverenza, di ogni gesto che osa il cambiamento, è un riverbero della difficoltà ad uscire da violente e ossessive forme d'omologazione, non solo linguistica (si ponderino nuovamente in proposito, le idee di Pier Paolo Pasolini, alcune delle quali – sui processi di “acculturazione” - le espresse il 9 Dicembre 1973, sul Corriere della Sera, titolando il suo intervento “Sfida ai dirigenti della televisione”; questo articolo è pubblicato nel saggio “Scritti corsari” del 1975).

In definitiva, la narrazione di Borzillo è il portato di una ripercussione della complicazione insita nell'arginare e contrastare efficacemente quell'essere circondati – tutti – da un fondale di cartapesta tipico di Hollywood o di Cinecittà, come nel noto film “The Truman Show” (diretto da Peter Weir nel 1998), ove annegare la malinconia, la tristezza e la timidezza, stati emotivi che pur sono avvertiti fin da bambino, declinate nelle modalità frentane (la tristemente nota “lancianesità”, da alcuni malintesa forma antropologica di cui essere orgogliosi …), indotto com'è stato il nostro autore a diventare cittadino di questo vasto mondo troppo in fretta, trascurando giocoforza la principale indole artistica.

Si è, dunque, in presenza di una coriacea attitudine narrativa forgiata nelle difficoltà, nonostante l'autore di “Nascaredda” le abbia abilmente dissimulate con inesauribili scorte di autoironia e di forza interiore – che dovrebbe essere imitata dalle cosiddette nuove generazioni - nel mostrare la vacuità di alcuni stereotipi incarnati. Il tradizionale struscio lancianese è una calzante testimonianza di suddetti stereotipi.

“Nascaredda” non parla di luoghi comuni, i protagonisti della sua giostra verbale, in bilico tra miseria, assurdità e follia, non godono del lusso di una rete di protezione e nemmeno l'autore si traveste da scrittore o da portavoce del popolo. Parla di sé, rielabora le proprie esperienze, le insaporisce, ma senza fingere.

A differenza di altri affermati scrittori, Borzillo non scrive una sceneggiatura per una fiction, esibisce con noncuranza sia difetti che debolezze, in quanto utili a capire di sé, le incoerenze e le crudeltà che albergano in tutti; non cerca di piacere a tutti i costi mostrandosi migliore di quello che è; al contrario, mette al riparo la propria umanità grazie ad un disincanto camuffato da cinismo. Non ci tiene ad atteggiarsi ad artista, nonostante lo sia.

Concludendo si può dire che la “verità” è un elemento che caratterizza il romanzo, “verità” peraltro ricercata come espressione letteraria dell'autenticità che dovrebbe contaminare la vita quotidiana, in tutte le sue forme, un valore che Borzillo, a mio avviso, intende umilmente trasmettere al prossimo.

Tale “verità” si rivela in varie forme e si manifesta nella sua scrittura e nei mezzi linguistici che lo scrittore predilige indagando lo spazio-tempo del suo mondo interiore. Auspico che qualche regista cinematografico ne curi la trasposizione filmica, ma senza accentuare il registro interpretativo surrealista o immaginifico; preferirei se ne occupasse un redivivo Francesco Rosi piuttosto che un epigono di Federico Fellini.

Per dirla con Orazio (poeta romano, 8 Dicembre 65 a. C., 27 Novembre 8 a. C.) - Strēnŭă nōs ēxērcĕt ĭnērtĭă (Epistulae I 11, Hor. Epist. I 11; ci tormenta una faticosa inattività -, Borzillo si è emancipato con questa opera prima da una rischiosa patologia dell’animo che Orazio, con felice ossimoro, ha definito appunto strēnŭă ĭnērtĭă, quella invadente “noia smaniosa”, espressione di scientifica nettezza che addita il sintomo eminente di un male noto: la smania che ci spinge a vagare qua e là alla ricerca di non sappiamo bene cosa, nel tentativo di trovare soddisfazione a desideri di cui non sappiamo la mira.

Non c'è altro da affermare, restando nell'entusiastica attesa di successivi componimenti. 

Prof. G. Dursi 

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