menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
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lunedì 13 agosto 2018

Claudia Provenzano, scrittrice di nitido talento

Claudia Provenzano è autrice del romanzo Le ragioni degli altri, ma non solo: ecco infatti la sua bibliografia.


Storia di Miryam (2007- pubblicato da Armando Curcio nel 2016)- vincitore del premio Franz Kafka Italia 2017, è la storia laica e profana della maternità di Maria di Nazareth, nota come la madre di Gesù, senza arrivare però a toccare il momento della natività. In questo libro la sua figura di donna è resa utonoma, completamente svincolata dalla quella del figlio cui è tradizionalmente sempre associata. Storia di Miryam è una ricostruzione letteraria della biografia di Maria e della sua gravidanza spiegata attingendo alle fonti storiche del Vangelo e dell’Antico Testamento, senza fare alcun riferimento a spiegazioni divine e spiritualistiche. Maria è la controfigura reale dell’icona eterea della Madonna della tradizione religiosa cattolica. E’ una giovane donna di spiccata sensibilità esistenziale, che si interroga sulle credenze e i costumi del suo tempo, sui principi teologici del bene e del male e sull’esistenza di Dio con la freschezza di un’intelligenza incontaminata, fino a sfidare con determinazione, non senza paura, le convenzioni e le regole imposte dalla cultura patriarcale dell’epoca. In questa storia si disegna il profilo di una ragazza di quattordici anni dai tratti umani e del suo amore per Gabriele, un ragazzo reale, in carne ed ossa. Si narra del concepimento naturale e illegittimo di un bambino e della difficile scelta che Maria, nel contesto della società ebraica antica, con la complicità di Giuseppe, l’uomo onesto, generoso e lucidamente razionale che le fu destinato in marito, compie per salvare se stessa e il suo bambino. 
Miryam è la ragazzina ebrea narrata nei Vangeli in pochi scarni passaggi il cui profilo e le cui vicende vengono ricostruite dall’immaginazione femminile di una donna contemporanea che vede nell’amore terreno il vero senso dell’esistere umano e che trova nel libero arbitrio l’esercizio della propria ragione in relazione a domande metafisiche e alla fede. Una storia universale che va oltre il tempo per raggiungere ed entrare in risonanza con gli animi delle donne di oggi. Storia di Miryam è la storia del concepimento del figlio di Maria come non si è mai sentita prima.  Una giovane donna, due uomini, una madre, un’amica in un intreccio emozionante di amore, passione e ribellione.

Le ragioni degli altri (2015- pubblicato da Armando Curcio nel 2018) – Si tratta di un moderno racconto corale, in cui le vite dei vari personaggi si intersecano fra loro scambiandosi i punti di vista, parlando uno dell’altro in un reciproco gioco di specchi teso a dar voce alle ragioni degli altri. Tuttavia i vari personaggi non hanno lo stesso peso, ma si irraggiano da un unico centro, quella della protagonista, Clodel e di suo figlio. Un libro articolato sia per l’intreccio dei personaggi sia per l’incastro delle voci narranti. Strutturato su continui sbalzi narrativi dalla prima alla terza persona, conduce il lettore nel labirinto di un gioco prospettico fatto di salti dentro e fuori la psicologia dei diversi caratteri. Rovesciamenti del punto di vista che hanno lo scopo di fornire una rappresentazione a tutto tondo del personaggio, descritto sia dall’interno della sua soggettiva consapevolezza, sia dallo sguardo esterno più completo ed oggettivo di un ipotetico osservatore. Sono qui rappresentate, in uno spaccato di grande attualità, varie esistenze: storie di donne che concepiscono da sole i loro figli con l’inseminazione artificiale e di donne ebbre di autonomia che consumano gelide esperienze di sesso in una notte, storie di relazioni omosessuali, di trans-gender, di bulli e vittime di bullismo, di autolesionisti, di uomini-oggetto sessualmente usati come dispensatori di seme e di uomini figli del cambiamento dei tempi non più capaci di gestire la loro virilità, fino a tematiche più tradizionali come il delitto passionale, la sottrazione della patria potestà, l’adozione, l’occultamento della paternità biologica, l’adescamento e l’abuso di minori. Temi talvolta drammatici non privi di accenti ironici ed umoristici e mai caratterizzati da risvolti nichilistici. Il ritmo del racconto è spesso incalzante e la narrazione viene qua e là insaporita da momenti spiccatamente erotici e talvolta truculenti.

Libri in corso di stesura finale

Figli mancati (2017) : affronta le storie difficili di una serie di ragazzi con famiglie problematiche il cui trait d’union è la comune professoressa di psicologia di un istituto professionale: i ragazzi frequentano tutti, taluni negli stessi anni, taluni in anni diversi la stessa scuola. Daniel, il bambino ‘esposto’, figlio abbandonato davanti al negozio di McDonald che viene adottato dal poliziotto chiamato al momento del ritrovamento. I tre fratelli Arianna, Iacopo ed Elia, i figli di Giunone, tre fratelli sottratti dall’assistenza sociale alla madre obesa dichiarata incurante per le sue difficoltà a muoversi. Amal e Ikram, le ragazze senza velo, due sorelle algerine nate in Europa punite dal padre con la rasatura dei capelli per il rifiuto del velo. Agnieszka, la bambina ‘selvaggia’, bambina ucraina ritrovata dall’assistenza sociale allo stato selvaggio nel fienile della casa del padre, suo unico famigliare. Liang, il ragazzo nella cruna dell’ago, una studentessa liceale cinese nata in Europa sottratta alla famiglia dal padre per lavorare nella fabbrica nonostante i suoi risultati eccelsi a scuola. Danush, il ragazzo dei materassi, la storia di un bambino immigrato ad un anno con la madre dall’Albania, che dopo 12 anni di stenti morirà lasciandolo sulla strada. Bianca, la bambina di cera, la ragazza di famiglia borghese che scappa di casa e diventa una punk’a’bestia,


Libri in corso di seconda stesura

Le gravi madri (2017): Tre madri e i loro figli. Madri figlie di altre madri. Madri presenti, assenti, troppo presenti, ossessive, noncuranti, ipercuranti. Storie di vita che si intrecciano in un arco di tempo che va dagli anni ’70 del Novecento ad oggi. Storie di carriere in ascesa o in rovinosa caduta, storie di eterni adolescenti alla ricerca del proprio posto nel mondo, storie di amori e delusioni, di fedeltà e tradimenti, di gravidanze non volute, di adozioni mai rivelate, di distruttive battaglie legali per l’affido dei figli, di perfidi scambi di neonati nella culla, storie di stalking e di molestie pedofile, di ragazzi abusati, storie di senzatetto e di persone ai margini della società, storie di donne sole e di donne sempre alla ricerca. Storie tutte a loro modo segnate dalle tracce che, pur senza volerlo, “gravi madri” hanno lasciato sui loro figli. (“I nostri genitori hanno determinato  le nostre ferite, le nostre ferite ci sono genitrici”. James Hilman.)

Libro in corso di prima stesura

Il corpo parla: la vita di persone il cui malessere esistenziale si esprime attraverso il corpo.

Convenzionali ha il piacere di intervistarla per voi.

Da dove nasce Le ragioni degli altri? Che cosa rappresentano gli altri per lei?

Questo romanzo nasce dallo stupore per Le vite degli altri, che poi, in effetti, era il suo titolo originale. Ad un certo punto mi sono resa conto di aver collezionato un ventaglio variegato di storie di vita, osservazioni e testimonianze che avevo avuto modo di raccogliere nelle mie diverse esperienze di viaggio, nei miei studi all’estero, nel mondo dell’arte prima e dell’insegnamento dopo. Ogni incontro era per me una sorpresa, una gemma che ad attenderne l’apertura sbocciava sotto i miei occhi e a scrutarla mi rivelava il suo meraviglioso interno. Reale e immaginario. Ogni esistenza è un mondo denso e intenso che l’esperienza tesse col filo di seta, prezioso e resistenze, dei vissuti. Di questi mondi della nostra contemporaneità io volevo raccontare, fantasticare sulle loro ragioni. Perché non c’è verità nella nostra conoscenza. Ciò che cogliamo nelle storie delle vite degli altri non è che un’interpretazione soggettiva fatta della materia delle nostre credenze, delle nostre aspettative, dei nostri desideri e delle nostre paure, che vi proiettiamo dentro. E il romanzo è lo strumento che meglio coglie questa verità: verità interpretata. Dunque volevo ricostruire, inventandone le ragioni, le cause, l’origine, quelle vite che incrociando sulla mia strada mi avevano attratta, ammaliata, accalappiata.  E volevo renderle prototipo. Caso particolare che testimonia di tanti casi analoghi e simili, che ritornano sotto altri nomi ed altre fisionomie, ma che alla fine nel loro nocciolo essenziale si ritrovano nel minimo comun denominatore di un modello universale. Storicamente universale. Poiché ogni esemplare di vita è il precipitato storico della sua epoca. La lesbica, il transgender, il bullo, lo stalker, l’autolesionista, il pedofilo, il tossicodipendente, l’immigrato, il senzatetto, le donne single, le madri che concepiscono con l’inseminazione artificiale, le famiglie omosessuali, ricomposte, monoparentali… sono figure legate al loro tempo. Alcune sono sempre esistite ma assumono caratteri diversi a seconda dell’epoca in cui vivono, altre sono novità assolute sorte dalle innovazioni tecnologiche e culturali della modernità.


Parlando con le persone, scavando nei loro racconti, interrogando e frugando nei loro vissuti ci si rende presto conto che ogni esistenza non solo è un microcosmo complesso, un coagulo affascinante di emozioni, pensieri, bisogni e aspirazioni tutto da scoprire, ma anche che a seconda del punto di vista da cui la si guardi assume colori e forme diverse. E questo è il personaggio di un romanzo: il prototipo di una vita nella quale i lettori possono ritrovarsi. Più ci si addentra nella vita di un individuo, poi, più ci si accorge che, attraverso una fitta rete di relazioni, si intreccia a quella degli altri individui. Quelle vite degli altri che tanto mi intrigavano diventavano così un poliedrico gioco di specchi in cui l’essere di ognuno si definisce non solo in base a sé stesso, ma anche in base a ciò che gli altri vedono di lui. Ecco allora Le ragioni degli altri.

Dov’è la ragione quando si dialoga, si litiga, ci si lascia?


La ragione ha il suo luogo nel soggetto. Dunque non c’è una ragione, ci sono una, nessuna, centomila ragioni. È proprio questo che ho cercato di esprimere nel mio Le ragioni degli altri. Ed ho cercato di farlo tanto a livello dei contenuti quanto a livello narratologico utilizzando una voce narrante poliedrica, che continuamente balza da un narratore esterno ad uno interno, da un narratore che si rende complice del lettore ad uno che lo tradisce e balza fuori dal noi che prima li univa svelandogli dettagli e retroscena di cui lui solo sa.

La nostra è una società capace di empatia?


No. Sebbene le teorie sperimentali della psicologia abbiano verificato l’esistenza di neuroni specchio, il che dimostrerebbe il fatto che l’empatia è innata, tuttavia ogni comportamento innato nell’uomo, a differenza di quello animale che è rigido ed immodificabile, è plastico, modificabile in base all’esperienza che compie. L’apprendimento, la capacità di cambiare adattandosi all’ambiente, è infatti la caratteristica peculiare dell’essere umano, che non a caso ha predominato e vinto, indiscusso dominatore del mondo, su tutti gli altri esseri viventi. Pertanto anche l’empatia lo è. Modificabile, intendo. Se è vero che ha una base innata è pur vero che è modificabile dall’ambiente, dunque dal contesto storico-sociale in cui si esplicita. Nel nostro, nella società occidentale liberista, forgiato sul principio morale – e biologico– dell’egoismo, dove cioè la sopravvivenza sociale giustifica il primato dell’io sugli altri, l’empatia trova il suo spazio d’esistenza nella sfera del privato, nell’intimo delle proprie emozioni e dei propri affetti, ma nei confronti dell’altro in senso puro – l’estraneo –  no.

Il suo romanzo tocca molti temi: che importanza riveste al giorno d’oggi l’amore?

L’amore nel senso tradizionale del termine, nel senso in cui il filosofo Platone ha disegnato per noi all’origine della cultura occidentale, l’amore ideale, solido, eterno, l’unione con la metà mancante che ci completa, al giorno d’oggi, è utopia. Letteralmente, sentimento senza luogo.  È miraggio, desiderio etereo cui si tende. Cui ci si avvicina, lo si sfiora, forse si riesce a toccarlo perfino, ma che non si riesce ad afferrare e tantomeno a trattenere. Nella contemporaneità, per dirla con il sociologo Bauman nella società liquida, l’amore è esso pure diventato liquido. Non dura, galleggia sulla zattera di un sentimento che ci transita da una fase ad un’altra della vita, si consuma, ci consuma, e muore. E poi viene sostituito con uno nuovo, insieme a noi, che rinasciamo a nuova vita.  La legge e i costumi, che si adeguano al movimento del reale, sono cambiati e ce lo consentono. Ci legittimano a viverlo in questo modo senza più paure e sensi di colpa.

Il sesso? Il desiderio?

Il sesso da sempre è la vitalità che innerva la carne del nostro essere animale. È desiderio, brama. È piacere che conduce al benessere se appagato, frustrazione che conduce a malessere e all’aggressività se inappagato. Il sesso in senso più genuinamente freudiano è il desiderio per eccellenza, è l’energia che sta alla base di ogni nostra azione, di ogni nostra scelta, è ciò che ci muove, ci scuote, sbattendoci poi vilmente a terra o lanciandoci, sublimati, verso il cielo. Dipende da come, verso cosa canalizziamo quell’energia. Senza questa energia psico-sessuale non ci sarebbe l’arte (energia canalizzata nella creatività), la scienza (energia canalizzata nell’attività intellettuale), il volontariato sociale, la religione perfino. Il desiderio, con Freud, e con tutta la psicanalisi che ne segue, è sessualità. O meglio la sessualità non è altro che desiderio. Libido. Eros. Energia psichica che scorre nelle vene del nostro corpo. Perché corpo e psiche sono un tutt’uno. Non c’è l’uno senza l’altro. Non c’è vita senza desiderio. Ma nella nostra società della mercificazione, dove tutto è ridotto a merce, è anche la più preziosa merce di scambio e il più potente strumento di ricatto.

La colpa?

Colpa o senso di colpa? La colpa è il venir meno di una responsabilità che si è coscientemente e liberamente assunta. La si può riconoscere. La si può non riconoscere. Gli altri possono imporcela, scaraventandocela addosso come proiezione della loro propria assunzione di responsabilità, che però non ci riguarda. In questo senso, allora, ci sono due tipi di colpa. Una in senso morale, interna alla coscienza, quella che si è formata in noi con l’educazione dei genitori, che è puramente personale e non perseguibile. E c’è una colpa in senso legale, convenzionale, stabilita, oggettiva, quella che serve alla conservazione della società, e che perciò viene perseguita con la legge. Le due colpe spesso entrano in conflitto, si pensi al mito di Antigone.  È  ciò che sta alla base della distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. Il senso di colpa invece è quel peso opprimente con cui la nostra coscienza morale ci schiaccia per frenare le nostre pulsioni (quell’energia sessuale di cui si parlava sopra) quando queste non riescono ad essere canalizzate e dirompono allo stato puro, nella loro più cruda animalità. Di questa animalità ho parlato in Le ragioni degli altri attraverso un paio di personaggi secondari, che compaiono fulmini e… fulminanti, proprio per la truculenza della loro pulsione non governata.

L’ossessione?

L’ossessione è la fissazione assoluta e coatta su un’idea. Alla sua origine sta ancora quella pulsione erotica, di cui abbiamo parlato prima, desiderio, mancanza che chiede di essere colmata. Quell’ energia psichica che muove, smuove, ci agita e percuote, che non può essere ignorata, ma che nondimeno può essere indirizzata. Può essere diretta verso oggetti vili e allora diventa malattia, pericolosa nevrosi, oppure verso oggetti nobili e allora diventa fonte di creatività e devozione. L’ossessione è quella che spinge ai suoi delitti il serial killer, ma è anche quella che muove in modo sorgivo la mano dell’artista, dello scienziato, del missionario. L’ossessione è il rapimento della psiche da parte di un’idea che dapprima si insinua e poi si insedia nella coscienza. È un assedio invadente e tenace, prepotente ed esondante. L’idea ti chiama a sé con seduttiva dolcezza, ti solletica l’orecchio, sussurra, suggerisce, ti invita a seguirla, e poi ti cattura. Pretende tutto per sé. Attenzione, tempo, cura. È tirannica come un neonato. (Ma ti è cara,  la ami). Non ti lascia mai, di giorno, di notte, entra nelle tue azioni, nei tuoi pensieri coscienti, in quelli inconsci, anima i tuoi sogni, ti penetra fra le fibre del corpo, si fa largo sgomitando in mezzo alle tue relazioni. Non hai un momento per i tuoi figli, per il tuo compagno, per i tuoi amici, non per Gabriele Ottaviani che ti chiede un’intervista. Non ti dà tregua. Finché non l’hai divorata, spolpata, ridotta al midollo, finché non l’hai consumata, finché non ne è rimasta neanche una briciola, non puoi fare altro.

Poi, ti senti bene. Come dopo un parto.

La violenza?

È ancora una pulsione. È una delle modalità in cui la nostra energia psichica si manifesta.  Violenza è la pulsione sessuale (desiderante, libidica, erotica) che non riuscendo a trovare una via ‘umana’ per sfogarsi in modo alternativo, si sfoga in modo arcaico, bestiale. La violenza non è solo fisica ma anche psicologica, e questa, fra le due, di certo è la più subdola perché non porta la stigmate di un livido, di un’escoriazione, di un braccio rotto, e nondimeno comporta sofferenze anche più gravi.

La paura?

La paura è il senso di impotenza di fronte ad un pericolo che mette a rischio la nostra vita, pericolo individuato che sappiamo riconoscere come tale e dal quale possiamo pertanto tenerci a distanza. La paura non è dei vili è degli oculati, è lo strumento di cui ci equipaggia la biologia per difenderci dal rischio e tener salva la nostra vita. Chi non ha paura non è coraggioso come si crede, bensì un avventuriero che non ha cara la vita.

La speranza?

La speranza è il peggiore dei mali. Fra tutte le emozioni e i sentimenti umani è quella che resta sul fondo del vaso di Pandora, proprio perché la più temibile. La speranza induce ad attendersi qualcosa di meglio eppure è vano aspettarsi un futuro migliore perché nel momento in cui si realizza ci delude sempre, perché nella speranza noi proiettiamo tutti i nostri desideri impossibili.  E la delusione ci abbate, ci schianta al suolo, ci ammazza. Tuttavia l’uomo non può vivere senza questo effimero sentimento perché è ciò che ci proietta verso il futuro e, come ci ha insegnato l’esistenzialismo, non c’è presente senza tensione verso il futuro.

Il dolore?

Il dolore è mancanza. Vuoto, lacuna, fame. È il bisogno non appagato, è frustrazione, gioia mancata, privazione. È illusione delusa.

Il pregiudizio?

Il pregiudizio è uno stereotipo sovraccaricato di un giudizio di valore assoluto. Buono-cattivo, bello-brutto, sano-malsano, giusto-ingiusto. Lo stereotipo non è altro che uno schema irrigidito che non ammette eccezioni.  Se lo stereotipo è il cemento armato nel quale rimaniamo imbrigliati poiché inibisce la nostra curiosità, la spinta ad esplorare e a conoscere tutto ciò che è nuovo, ovvero ciò che fuoriesce dagli schemi, il pregiudizio ci autorizza a disprezzare, ovvero allontanare ed annientare, ciò che è diverso da noi. Nuovo e diverso si identificano nella nostra mente nel minimo comun denominatore di ciò che è ignoto e che in quanto tale temiamo. Tant’è vero che quando ci avviciniamo e curiosi ci lasciamo andare all’esplorazione di ciò che non conosciamo ecco che, visto da vicino, ci diventa familiare e non ci spaventa più. Stereotipi e pregiudizi nascono dalla paura dell’ignoto e del diverso, e dal bisogno di autoaffermazione di chi, sapendo di valere poco o nulla, non trova alto modo di prevalere se non affondando gli altri. Facile.

Perché scrive?

Scrivo per eccesso di libido. Sempre in senso psicanalitico, intendo. Desiderio, voluttà, bisogno vitale. Scrivere è una forma d’arte. Tutta l’energia che a fiotti mi scuote, sopraffacendomi con un eccesso di vitalità, io la scarico nello scrivere. Questa è la fonte del perché su cui mi interroga. La meta è il lettore. La possibilità di entrare in risonanza con gli altri attraverso le mie parole, veicoli di umani sentimenti e pensieri e desideri che agogno condividere con gli altri. Cosa possibile se il personaggio funziona, se è credibile, se è riuscito. Per dirla con Hemingway, un personaggio è riuscito se riesce ad essere umano. Solo così si innesca quel fenomeno psicologico definito identificazione.

Qual è il ruolo dello scrittore nella contemporaneità?

Bella domanda. Qual è il ruolo dello scrittore nell’epoca contemporanea non saprei dirlo. Ci sono tanti ruoli, così è sempre stato, in base alla poetica letteraria che lo ispira. Non c’è un ruolo che la società gli possa delegare, non in un paese libero almeno. Non c’è un unico ruolo che i lettori gli richiedano di svolgere perché ogni lettore è diverso dall’altro e cerca nella lettura cose diverse. Potrei dire quale vorrei che fosse il mio. Cioè: il narratore delle vicende umane.  Vorrei riuscire, e vorrei riuscirci davvero bene, a dare voce alle emozioni, ai pensieri, ai sentimenti, alle ambizioni e ai cedimenti che impregnano quelle vicende e farne di ognuna un prototipo nel quale i lettori possano riconoscerci. E perciò sentirsi meno soli e meno insignificanti nel marasma e nell’infinita sconfinatezza dell’esistenza. Io cerco questo.

Qual è la situazione culturale italiana?

Domanda da porre ad un sociologo. Per poter rispondere dovrei fare una ricerca storica e sociale, attingere alle statistiche di enti accreditati, rielaborare tutti questi dati raccolti, rifletterci sopra e infine riuscire ad elaborare una tesi mia. Cosa che richiederebbe troppo tempo ed io il mio lo impiego per scrivere e per compiere ricerche sui soggetti di cui scrivo. Se mai scriverò un libro che abbia a che fare con la situazione culturale italiana le risponderò.  (ride)

Il libro e il film del cuore, e perché?

Ho un libro ed un film del cuore per ogni fase della mia vita. Nel momento in cui ho scritto Le ragioni degli altri il libro era Il bacio della medusa di Melania Mazzucco, perché ho sentito risuonare nella sua la mia scrittura: quella tensione della creatività per cui le parole si riversano in modo alluvionale dall’anima. L’abbondanza delle emozioni che tracimano dai pensieri, la ricchezza della frase non secca, non anoressica, ma grassa di aggettivazioni, di figure retoriche, di ridondanze, di attenzione alla melodia, alla sonorità delle parole. Affinché affiorino sfumature, slittamenti di senso, evocazioni. Un romanzo in cui la potenza della parola sia affidata alle briglie capaci dello scrittore, pur senza togliere spazio alla libertà di immaginazione del lettore. Perché non è solo con l’asciuttezza dell’eloquio, con l’alveo vuoto della parola, che si può scatenare l’immaginazione. Concepisco il romanzo come il luogo in cui chi legge può scivolare nelle parole come sulle onde di un mare che non si assopisce, indugiando su quelle che più sente affini, affezionate o affascinanti per usarle come trampolino per la propria creatività immaginifica e lanciarsi “verso l’infinito ed oltre” (per citare un famoso cartone animato). Il film, per sua natura più sintetico ma anche più visivo, non è stato uno solo. Ma in quel periodo pensavo molto a America oggi e The Hours, per l’intreccio dei personaggi, per la molteplicità poliedrica dei punti di vista, per l’architettura narrativa e a Pulp Fiction, per gli aspetti di violenza parossistica cui mi sono ispirata.

By Gabriele Ottaviani

Convenzionali

mercoledì 25 ottobre 2017

Compagne di lotta libera: visioni Comunicattive a Gender Bender

"Dal 25 Ottobre al 5 Novembre si svolgerà a Bologna la XV edizione di Gender Bender, festival internazionale dedicato alle rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale nella cultura e delle arti contemporanee. 
Ci ricordiamo bene le prime edizioni del festival: noi eravamo, allora, giovani attiviste, ci eravamo da poco incontrate fondando il nostro progetto Comunicattive, e probabilmente in qualche scatolone in garage abbiamo ancora le riprese in minidv di quei primi incontri, che parlavano di genere, generi, corpi e immaginari fuori dalla norma. Una delle iniziative che ci hanno fatto continuare ad amare questa città.

Dopo la bella esperienza dell’anno scorso, anche quest’anno proseguiamo la collaborazione con il festival, che nel frattempo continua a crescere in qualità ed ampiezza, coinvolgendo ormai 20 luoghi della città con oltre 100 appuntamenti.
Torniamo con la nostra proposta di visioni femministe, un percorso – e davvero solo uno dei molti possibili – parziale, situato e personalpolitico come lo è sempre qualsiasi pratica femminista. Si tratta di film, spettacoli, incontri che consiglieremmo alle nostre amiche e compagne, perché appassionano, rendono più complessi gli immaginari, costruiscono memoria, ci interrogano, a volte ci inquietano, e sono “materiale vivo” utile in quel viaggio di liberazione, trasformazione e desiderio che sono le nostre vite. Alcuni progetti ci hanno letteralmente entusiasmate, coinvolte e commosse, altri ci pongono qualche dubbio, ma riteniamo interessante proporveli e magari discuterne insieme. Ci hanno colpito ritratti di donne potenti (nel senso di potenza e non di potere), anche nei momenti di fragilità e incontri con corpi fuori dalla norma, altri sguardi sulla sessualità e altri amori di cui sentiamo tanto bisogno, tentativi di decostruire gli stereotipi che forse possiamo usare qui e ora, pratiche di attivismo, relazioni, passioni, amori e storie che vale la pena conoscere, infine artiste il cui lavoro abbiamo incontrato e sentiamo che ci riguarda.
Questi i film, gli spettacoli e gli incontri che vi consigliamo, buone visioni ..." Scopri di più

venerdì 6 gennaio 2017

Il terrorismo del desiderio

Written by Francesca Coin, 07.02.2011

ovvero di rivoluzione e miele
ovvero lettera ai compagni (e a Jung)
1.
Vorrei parlare di una storia d'amore, quella tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein. Il mio scopo in realtà è provare a discutere con un pò di cognizione di causa il cosiddetto scandalo sessuale che attuttoggi nella sua miseria eccita i media. Premetto che poco m'importa della cosa in sè, m'importa il fatto che tale scandalo abbia in realtà ben poco di scandaloso, anzi costituisca la prassi stessa in cui muovono oggi destra e sinistra istituzionale e non, ovvero buona parte dei potenti insieme ai rivoluzionari.
Scrivo questo per ragionare in ultima analisi non tanto sulla differenza, quanto piuttosto sul desiderio, dopo che per decenni il mercato ha tentato di eccitarlo, di sublimarlo, di trarne valore, di atrofizzarlo, di capitalizzarlo, di trasformarlo in plus-godere direbbe Zizek. L'oppressione del desiderio collettivo si riflette in molte cose, ma anzitutto nelle relazioni tra maschile e femminile, inteso sia come controsessuale che come intersessuale, rilegando spesso la differenza ad intermezzo, passaggio dal positivo al negativo del negativo che è il positivo ancora, in un processo in cui la donna figura ancora come stampella anfetaminica di scalata all'onnipotenza. La strumentalità del femminile come intermezzo di carne e sorgente di amor di sé, come meravigliosa stampella carnale e psichica di un ordine primitivamente patriarcale, vale oggi in Italia per uomini maschilisti e femministi insieme. Peggio, vale anche per quel femminile che fa di tale stampella uno strumento per competere nel capital/Edipo. Su questa falla abissale poggia oggi un processo di rigenerazione divenuto oramai imprescindibile.
Il processo di distruzione e rinascita che oggi c'impone rapidamente di ripensare in termini anzitutto redistribuitivi una struttura sociale in crisi terminale, non può per un istante in più prescindere dal rimescolamento amoroso ed orgiastico del desiderio maschile e femminile insieme nelle moltitudini, fuori ed oltre l'ordine fallologocentrico cui l'hanno rilegato – rilegandovisi - compagni e padroni, sino ad una profonda rivoluzione delle relazioni affettive. Questo riguarda oggi tutti: donne e uomini insieme, rivoluzionari e potenti. Poco m'importa dei potenti, che la strada la faranno soli a partire dall'inferno. M'importa per amor di loro e di noi stesse di quei compagni con cui è giunta l'ora di muovere oltre l'impasse che rifiuta di parlare alla donna orizzontalmente e fuori l'intermezzo, per rinnegare dal basso una relazione con il femminile che troppo spesso ancora si fa orizzontale solamente nei letti.
Comincio dunque da una storia d'amore perchè essa è, al contempo, meravigliosa e straziante. Ancor più è simbolica del potenziale poeticamente terrorista del desiderio, un potenziale che dirompe dentro ed oltre il doppio legame che storicamente ha tratto forza dal bisogno psichico, sociale e politico di proteggere il maschile dall'“altro”, un bisogno figlio della società competitiva del capital/Edipo e la cui potenza immanente e libera sola può riportare la vita nostra e di tutti verso un nuovo dis/ordine sociale non più contraddittorio al desiderio. Il desiderio primordiale di trascendere sé che è insieme morte e rinascita, e che nel suo abbandonarsi per muovere oltre sé in un incontro con l'alterità è un processo meravigliosamente proletario, opta qui, nell'Occidente contemporaneo e barbarico, in un processo di protezione dell'esistente di fronte all'abisso del perturbante, una protezione che per meccanismi psichici e sociali ricorda la rimozione dell'altro dell'ordine autoritario fascista, e che così facendo nega la trasformazione economica, politica, affettiva e spirituale della società tutta. La forza costituente che si è a ragione e a diritto oggi imposta sul dibattito politico mondiale non può portar con sé i rimasugli del(lo) (piedi)stallo del maschile, del femminile e delle relazioni umane tutte, nè prescindere da un processo di distruzione e rinascita, anzi la sua prima vittima dovrà per forza essere quel bulimico moltiplicarsi del “more of the same”, quell'uno atrofizzato e mille vote decrepito che ancor oggi sopravvive come una malattia dalla finanza al pensiero sino ai letti, anzitutto in Italia.
Comincio dunque da una storia d'amore per comprendere che cosa significhi qui ed oggi “terrorismo” del desiderio, utilizzando come metafora introduttiva una relazione a due simbolica di ben di più di due, in quanto essa siede non solo alle origini della psicanalisi, ma anche, e per le stesse ragioni, all'origine della diffusione sociale delle sue manipolazioni, portando a un doppio legame con il femminile che trova espressione a un tempo nella triade proprietà, famiglia e stato, e nella doppia morale di una società il cui dissesto trova negli scandali ultimi solo il sintomo ultimo di tale triade, la punta di un iceberg costruito sopra un letto di marcio. Tento dunque una riflessione contorta, lacunosa e disagiata al fine ultimo di reinserire nella lotta l'amore.
 
2.
Sabina Spielrein e Carl G. Jung furono una coppia di amanti le cui vicende sono state raccontate qualche anno fa da Aldo Carotenuto, psicanalista di Napoli che per primo ha avuto accesso al carteggio di lettere scambiate, in quell'inizio novecento, dai tre psicanalisti.
Maledetta Felicità, gridava allora Carl Gustav Jung alla sua amante, Sabina Spielrein, in un momento di abbandono. La donna, bella, giovane ed intensamente perturbante, era stata dapprima sua paziente e poi la sua amante, infine una collega, pur rimossa dagli archivi della psicanalisi come ombra minacciosa nella scienza legittima di Freud e Jung. Maledetta felicità, gridava lui, dimenticando per un istante la moglie, la carriera e la società vittoriana di cui egli era magistrale simbolo. Quell'amore lo faceva acqua e vulnerabilità. Terrore, in altre parole, era per lui l'amor per lei, il cielo stesso e l'abisso, l'infinito e la propria infinita minuzia. Da questa intensa storia nascono lunghe pagine di psicanalisi, un pensiero che non a caso dispiega dalle relazioni tra gli esseri umani e che da tali relazioni viene parimenti, come ricorda Luce Irigaray, delegittimato.


Aldo Carotenuto ripercorre questa storia d'amore e le sue implicazioni nella teoria e nella pratica psicanalitica, implicazioni su cui ritornerò dopo. Diciamo solo che Jung ebbe in cura Sabina inizialmente come paziente. Lui era il suo medico e lei una donna straordinariamente bella, di un'espressività corporea grezza e dirompente. Lei era il perturbante, quel familiare che porta con sé come un oceano il magma dell'inconscio. Lui era un medico di grande promessa che adorava lei come di lei il transfert, l'onnipotenza di sé riflessa negli occhi di lei per cui lui, medico guaritore, era persona “potentissima che tutto può”. Declino in romanticismo le gerarchie di genere sottese al loro rapporto d'amore agli inizi, ma è ovvio che queste sono fondamentali: lui la conosce fragile e malata, e non è possibile negare che la passione di Jung per Sabina trovò sicurezza ed espressione proprio in questa vulnerabilità. Amare è dare ciò che non si è a qualcuno che non lo vuole, avrebbe detto Lacan, e la prima metà di quest'affermazione trova qui conferma: lui amava in lei la potenza propria che lei vedeva ed amplificava, enfatizzandone con la propria vulnerabilità il miraggio d'infinito, infinito che egli, non a caso, dubitava. Si può pensare dunque che il loro rapporto si sia sviluppato in una situazione di asimmetria acquistando tutte le connotazioni di un rapporto narcisistico, scrive Carotenuto, ed in un certo senso è così. Ma se togliamo Sabina dalla condanna storica all'intermezzo vediamo invece che lei, donna di sottile e sofisticata complessità, decifrava in lui ciò che egli stesso non riconosceva. Un po' come Dioniso amava di Arianna ciò che mai avrebbe potuto amare un Teseo, scriveva Nietzsche, così lei percepiva in Jung ciò che solo una sensibilità complessa poteva riconoscere, e con forza coraggiosa, la stessa forza dionisiaca che appunto fece poi di lei una rivoluzionaria, non smise di morire e rinascere le turbolenze di un sentimento che mai ebbe la viltà di rinnegare. “Diario di una segreta simmetria”, s'intitola non a caso il testo di Carotenuto, perchè l'amore avido e generosissimo di lei, coraggioso e commovente si affianca all'amore vile di lui, che nella viltà cercava segretezza e nel terrore rivelava dilagare.
Fu impossibile per Jung calarsi nel mondo di Sabina senza che questa si impadronisse di lui, scrive Carotenuto. “La seduzione è come un gas inodore inalato, i cui effetti si avvertono soltanto quando l'avvelenamento è già avvenuto” (Carotenuto, 87). Il loro rapporto parla dunque di una conoscenza psichica profonda, che fu “la nascita di un dio che è come il profumo di Baudelaire, si può goderne ma non è mai completamente qui, è insieme corpo e negazione del corpo”. Su quell'infinità abissale, effimera e pervasiva s'infrangeva Proust, quando riconosceva nell'amore un essere che si estende a tutti i punti dello spazio e del tempo che esso ha occupato e occuperà, ma che egli non toccherà mai. Un amore disarmante e mai raggiungibile, dunque, infinito ed abissale come l'universo stesso ed in cui Jung naufragava in tutta l'umana minuzia.  
Troppa immensità dunque per un piccolo uomo? Verrebbe da dire di si, alle volte, volendo essere semplicistici, d'altro canto l'arte occidentale non dice che questo. “Ciascuno uccide le cose che ama, diceva Jeanne Moreau in Querelle de Brest di Rainer Werner Fassbinder: “alcuni uccidono l'amore da giovani, altri quando sono vecchi, chi lo strangola con la passione e chi con l'oro, i più gentili usano il coltello perchè il cadavere si raffreddi prima. Ciascuno uccide le cose che ama, alcuni amano poco altri troppo a lungo, alcuni lo vendono altri lo comprano, alcuni lo fanno piangendo altri senza neppure un sospiro. Così ogni uomo uccide le cose che ama, e nessun uomo muore”. Nessun uomo muore mentre uccide le cose che ama, anzi le uccide per sopravvivere. È questa la legge triste che ci ricorda Natoli e che cinicamente dovremmo forse tener presente.
Ma Natoli a parte, che pur con questa matrice ci spiega guerre e stermini, così ci dicono anche R.D.Laing e Pasolini, Baudleaire e Jorge Enrique Adoum, Pessoa e Derek Walcott. “Dimenticherò il sentire, disimparerò il mio dono. E' più grande e arduo questo, di quanto là passa per vita”, scriveva Walcott. Disimpariamo il sentire, sono molti gli uomini che hanno parlato con certo compiacimento dei benefici della rinuncia. E come loro, così faceva Jung. Jung era in difficoltà: “Il mio animo è lacerato sino nel più profondo […] Saprà perdonarmi di essere così come sono?  [...] Lei saprà capire e accettare che sono una delle persone più deboli e incostanti?” “Queste esperienze […] hanno scatenato l'inferno in me”, scriverà lui. E così Jung combattè lei, se stesso e la loro relazione per tutta la vita,  rifuggendola, umiliandola. Ne scrisse a Freud, che commenterà le “astuzie psichiche inimmaginabili” di queste donne (Carotenuto, 121), prima di essere a sua volta conquistato dall'intelligenza sensibile e brillante della Spielrein. Jung ne scriverà poi alla madre di Sabina, chiedendole un “adeguato onorario” per le visite alla figlia, perché “non avendo mai preteso un compenso, non mi sento impegnato come tale” (Carotenuto, 121). Il denaro rappresenta allora lo strumento vile di continenza cui aggrapparsi per limitare il proprio tormento, onorario che insieme al concetto di controtransfert intendeva riportare entro valori vittoriani un desiderio dirompente. Aveva paura, Jung, e si sentiva minacciato: ho paura del “destino che mi minaccia”, “paura per il mio lavoro”, per “il mio obiettivo di vita” (Carotenuto, 120). Jung pregò dunque Spielrein di aver compassione per lui, di rendergli un po' di quell'aiuto che lui le aveva dato. Fatto sta che l'amore tra i due diviene lentamente aborto. Sabina si allontana, ma non porterà mai, come dirà Freud “alla luce l'odio che gli si addice", né distruggerà l'idolo. Continuerà ad amarlo, ma i due si perderanno gradualmente. Che cosa terrorizza Jung di Sabina? È questa la domanda cui Carotenuto cerca di rispondere con lunghissime pagine. Ma la domanda è più ampia, e ha a che fare con gli aborti del desiderio, a partire dal maschile singolare, sino alle sue cause e alle sue implicazioni.
Partiamo dunque da Sabina, in quanto la storia ne ha compreso la grandezza, ma il ricordo di lei rimane sempre inter-detto dai padri. Parafrasando Luce Irigaray, potremmo dire che Sabina è inter-mezzo, stretta dai padri della psicanalisi e di quelli il negativo, l'inverso, il contrario, forse addirittura il contraddittorio. Le parole della Irigaray si sposano meravigliosamente con il caso Spielrein, perchè lei è forse addirittura il simbolo di questo perverso gioco tra scienziati: carne, cuore e mente di una storia che lei non ha mai scritto, né è stata autorizzata a scrivere, inter-posta tra due uomini, cerniera nella loro relazione lacerata dal tentativo di controllare il potere e il sapere (Irigaray, 17), Sabina era fuori potere, fuori gioco, fuori io e fuori linguaggio. Sabina si forma nelle parole di Jung, il linguaggio di lui diventa la vita di lei, da paziente a psicanalista. Lui è linguaggio e lei è il significato, il contenuto, la teoria, l'amore, ciò che gli dà vita. Nonostante il suo contributo alla psicanalisi (o appunto per quello), Sabina sarà dunque il rimosso, il rimosso dell'affettività di Jung, il rimosso della storia, il rimosso della psicanalisi. Per tutto questo Sabina “non è”. Torna a mente ancora Lacan, Sabina non è e la relazione non c'è, e non c'è relazione perchè non c'è Sabina. Per Jung Sabina è anima e ombra. Jung concettualizzò dopo l'incontro con Sabina un'idea di Anima di derivazione kantiana indagabile dalla psicologia empirica. L'immagine dell'anima è per Jung la donna nell'inconscio dell'uomo, è l'alterità, il femminile, in altre parole è la modalità eterosessuale interna con cui Jung vuole indicare l'immagine controsessuale inconscia presente in ogni essere umano. “Ma non solo il concetto di anima, bensì anche il concetto di ombra - la personalità repressa, inconscia, autonoma - risale alla Spielrein” (Carotenuto, 40). Sabina è anima e inferi, e così il femminile scompare nel metafisico, diviene l'oggetto trascendentale che da Kant a Hegel ha cancellato l'empiricità della donna facendone un oggetto animico e il suo contrario. L'anima sposta sul piano del metafisico o del destino una donna invece immanente, in carne ed ossa, qui ed ora, oltrepassandola, senza ricongiungervisi mai se non in modo tarslato in un doppio legame con la bulimia del corpo. Sabina per Jung è traslata, è continuamente sfocata, non è mai sullo stesso piano.
Così come Emma Goldman avvisava che maggiore è la crescita della donna e meno possibile sarà per lei essere riconociuta dall'altro non solo come corpo ma come “quell'individualità forte che non può né deve perdere un singolo tratto del proprio carattere”, ugualmente Sabina diveniva gestibile solo traslata, dissezionata o deformata. Ecco che Sabina era gestibile sino a quando la malattia le conferiva un'identità vulnerabile, allora la piccola Sabina poteva essere lo specchio immanente del desiderio di Jung. L'emancipazione di Sabina e del suo desiderio rende invece la sua immanenza debordante, e Jung ha paura.
“Per molto tempo, ho sempre sentito con diffidenza la parola amore”, scrive Jung. Il sentimento legato alla donna fu per molto tempo di naturale sfiducia. Padre significava per me qualcosa di cui ci si può fidare”. Ma non così fu per madre o donna. Jung equipara l'Anima alla Madre, simbolo di ciò che avvolge e al tempo stesso soffoca e minaccia. La caverna, dal mito di Platone origine corporea del feto nell’utero materno, diviene nel complesso di svezzamento di Lacan un trauma che obbliga alla “rottura di contiguità con l'interno del corpo della madre”. Il maschile cercherà sempre di ritornare nella caverna e vivrà come un trauma “il distacco dalle membrane che avvolgono il feto, il distacco dal cordone ombelicale, il distacco dall'allattamento”. Ma la sfiducia, il desiderio continuamente frustrato della caverna come luogo di riconciliazione tra espansione e protezione non trova consolazione nel mondo. L'alveo della famiglia, prigione per marito e moglie protegge ma non espande. L'amante espande ma non protegge. La relazione con la donna diviene così biforcazione e doppio legame, e si “risolve” nella storia occidentale da un lato nell'apologia alla famiglia e nella triade proprietà privata famiglia e stato, e dall'altro nella penetrazione bulimica di corpi da questa inscindibile. Questo doppio legame psichico ed emotivo del maschile al femminile, privo di libertà e perfettamente inserito nel capital/Edipo, non trova entro quest'ordine risoluzione, né peraltro potrà mai trovarlo, anzi riproduce ancora una volta e trasversalmente l'esisistente con le sue prigioni.
Il rapporto di Jung con Sabina si risolve dunque in un doppio legame che biforca il sentimento e lo trasla: Sabina si troverà così spesso a incarnare la madre, la sorella, la donna amata, la dea celeste e la strega infernale, l'amata e la minaccia, la fata e la strega. Lei diventa i fantasmi di lui, ed in questa traslazione vive non solo l'incapacità di lui di rispondere a tutti i piani di lei, ma un rischio di disintegrazione per Sabina. Il doppio legame di Jung è per Sabina tenaglia: la disintegrazione colpevolizzante che lui opera di lei rischia di frammentarla. L'amor di lei per lui confronta Sabina e si fa disgregante mettendo a rischio Sabina per intero, la sua immanenza nuda impreparata a difendersi dal guaritore. Sabina è in una morsa. Scapperà, diverrà psicanalista lei stessa e si sposerà, ma la sua è una liberazione inconclusa, in parte vestita di catene. Così lei seguirà le orme di lui e lo ripercorrerà per riappropriarsi di sé. Indomita Sabina, della sua fine si sa solo che la sua foga di libertà fu uccisa dalla mano della repressione stalinista.
Indomita Sabina, e Jung? È un problema il desiderio di Sabina, identificato su Jung quasi a evidenziare la paura di sperdimento che lei ha a pensare la disconnessione. Lei l'ha incontrato perduta, e non riesce a dimenticare che l'unica sua casa fu lui. Il problema volendo in questo caso si fa più ampio e diparte nel linguaggio: come diceva Spivak, if we are not who they say we are, then who are we and who are we not? Ma proprio perchè l'identità è ironicamente inscindibile dalle relazioni, il problema è anche il desiderio di Jung. Jung infatti si dispera e perde la ragione. "L'amore di Sabina per Jung ha reso conscio qualcosa che prima egli presentiva solo in modo confuso, cioè come potenza che determina il destino dell'inconscio, potenza che nel loro caso, nel riflettersi delle loro anime doveva essere sublimato o avrebbe portato alla concretizzazione dell'inconscio” (Carotenuto, 141).
Jung analizza il suo desiderio, lo riallinea alla famiglia, lo traspone metafisicamente, lo trasla e lo biforca in mille tentativi di depotenziarlo, di salvarsi la pelle. Jung è esposto ad un magma di inespresso, un fantasmagorico miscuglio d'ombre senza forma, e non sa che fare. Sabina risveglia in lui un desiderio rivoluzionario e distruttivo, gravido potenzialmente di creazione. Ma confrontarsi con il proprio desiderio significa esserne minacciati: minacciare moglie famiglia morale professione, la sua immagine di sé. Vacilla, Jung, e la odia. La odia perchè il desiderio di lei mina la stabilità di lui. Maledetta felicità, grida tant'è, in modo quasi disperatamente tenero. E poi ignora, trasla, frammenta. Come un neonato ricorre alla madre, ai simboli e agli archetipi. Ricorre all'autoanalisi per conoscere il suo inconscio oppure il suo demone interiore, come lui lo chiama. E poi fugge, fugge il terrorismo del desiderio e neutralizza Sabina. La uccide interiormente per continuare a vivere.
Jung preferisce non sentire. Torna alla mente quella lunga letteratura che vede malinconicamente consolare il maschile della propria inadeguatezza rispetto al desiderio. Sixto Vazquez Zuleta Toqo, poeta indigeno argentino, supplica ghiaccio nelle vene per gelare il desiderio, o il suo piedistallo diventerà pozzo. Pessoa chiede non l'amore ma i suoi dintorni, perchè possedere significa essere posseduti e “sciuparsi”. È lunga la lista degli uomini che preferirebbero farsi masso piuttosto che cedere a un languore perforante, perchè almeno l'assenza di desiderio consente di stare interi e verticali. Meglio proteggere l'interezza, meglio rinnegare la vulnerabilità. Ecco che Hegel usa la negazione solo ai fini di ristabilire l'universalità dell'uno, ed il femminile come contraddizione da togliere ai fini del ristabilimento della prima immediatezzza, o della semplice universalità, così da rifugiarsi di nuovo ed immediatamente nell'altro dell'altro, nel negativo del negativo che è il positivo, nell'identico, nell'uniersale (Hegel, 948-949).
Emerge qui una contraddizione vile ed alienante in quanto paradossalmente la psicanalisi fa proprio questo: isola il desiderio dalla morale come bandolo che libera la vita, ma la scoperta della libido come fattore vitale dirompente viene ripiegata dagli stessi scopritori nel familismo dell'esistente, generando così un cortocircuito. “La psicanalisi opera così un riallineamento del desiderio entro i recinti del “Capitale/Edipo”, scrivono Deleuze e Guattari, che la riporta nel passato cupo dell'esistente. Ecco che il rapporto col desiderio diviene contraddittorio: riportando “il complesso familiare stesso nel trasnfert o nel rapporto paziente-medico”, scrivono Deleuze e Guattari, la psicanalisi fa della famiglia un certo uso intensivo [e la rende] il gradimetro delle forze di alienazione e di disalienazione (Deleuze e Guattari, 103). Riallineando il desiderio alla famiglia o a metafisici archetipi, Jung trasforma così l'apertura in un eterno ritorno, il desiderio in malattia e l'ordine in salvezza. Ecco preservata l'interezza, e il potenziale trasformativo del desiderio viene riportato all'esistente. Parafrasando Foucault, e per giungere al nocciolo della questione, si potrebbe dire che Jung non fa altro che difendere il rapporto malato - medico, ovvero il proprio ruolo di guaritore nella relazione con Sabina ed oltre la relazione con Sabina. Jung uccide Sabina per salvare il proprio piedistallo. Si riproduce qui quel vecchio uno nel quale il desiderio voleva violentemente irrompere rivoluzionandolo. Ma la trasformazione richiede una rivoluzione interiore, e Jung scappa. Si aggrappa al piedistallo, si rifugia in un antro leggero e capitalizza la propria debolezza. “Il magnetismo di Jung per tutti i tipi di donne nevrotiche era rimarchevole”, scrive Carotenuto. “Una parte del segreto di Jung consisteva nella forte partecpazione emotiva con donne che erano o si sentivano non capite. Senza dubbio la sua estrema vulnerabilità femminile contribuì al suo sex-appeal (Carotenuto, 86). Fatto sta che Jung passa il resto della sua vita tra gli archetipi e le giovani seguaci. Soffoca il potenziale dirompente del desiderio, muore dell'implosione interiore della sua potenza. Cerca indifferenza e probabilmente (non) la trova.
Che cosa spaventa Jung? “E' assolutamente spiacevole dover dire cose così rudimentali: il desiderio non minaccia una società perchè è desiderio di andare a letto con la madre, ma perchè è rivoluzionario. E questo non significa che il desiderio sia qualcos'altro rispetto alla sessualità, ma che la sessualità e l'amore non vivono nella camera da letto di Edipo, sognano piuttosto il mare aperto e fanno passare strani flussi che non si lasciano immagazzinare in un ordine stabilito” (Deleuze e Guattari, 129). È nell'incontro con la vulnerabilità evocata dal desiderio che siede il terrore di Jung. Il desiderio infatti “non vuole la rivoluzione, è rivoluzionario da sé e involontariamente, volendo ciò che vuole” (Deleuze e Guattari, 129). Il desiderio è rivoluzione in senso stretto, null'altro è il desiderio se non questo. In questo senso il desiderio non è bisogno, non è sopperibile attraverso un processo di addizione o di integrazione, il desiderio necessariamente distrugge. Disintegra, rigenera, rivoluziona. Disintegra perchè esercita la sua potenza a partire dal raggiungimento costituente della crisi. È la potenza del desiderio ciò che sconvolge Jung. Lo spiega la Spielrein: “la libido ha due aspetti”, scriveva Sabina nel 1912: “essa è la forza che tutto abbellisce ma all'occasione tutto distrugge” (Spielrein, p. 133). Si capisce la resistenza emotiva di Jung di fronte alla distruzione. La crisi di Jung non nasce dai limiti che egli pone al desiderio, ma dai limiti che il desiderio pone a lui. È una minaccia potenzialmente feconda, quella del desiderio, ma solo potenzialmente. Il desiderio non promette niente. Il desiderio è un terrorista. È un veleno d'oppio che ci accompagna inconsapevolmente sino alla crisi, nel tunnel intermittente di vita e morte, di mondo e finimondo ove il soggetto deve dominar se stesso e poi aprire aldilà del conosciuto. Dentro la crisi non c'è strada da seguire. Ci sono buio ed inferi, fantasmi e ricordi che danzano con un ghigno di profumo ed inganni. Qual è la strada – non c'è. La strada unica è quella dolce dell'abbandono al rischio della distruzione. È lì che il desiderio si fa fecondo. Forse. Forse, perchè il desiderio chiede tutto ma non promette mai. Qui sta la bellezza del desiderio femminile libero, secondo Sabina: “una donna che si abbandona alla passione […] sperimenta solo troppo presto l'aspetto distruttivo”. La meraviglia proletaria del desiderio di lei sta proprio dunque nella disponibilità all'abbandono: Sabina morirebbe mille volte nel suo desiderio. Jung invece non lo fa. Si rifugia nel privilegio e cerca pace.
 
3.
Eccoci dunque arrivati a dove la questione si diparte da Jung e Sabina, e diventa una questione politica. Il desiderio represso si esprime infatti nell'esistente, nel famoso capitale/Edipo, nella competizione del maschile e nella negazione del perturbante. Fa un errore forse la psicanalisi a riallineare in termini familistici il desiderio nel capitale/Edipo, ma fa né più né meno di ciò che ha fatto la storia, salvo sublimi eccezioni. La competizione e la castrazione come conseguenze della necessità di proteggere l'Io dalla sua crisi vanno ben aldilà della romanticissima relazione tra Sabina e Carl. Vanno alle radici del rapporto del maschile con il desiderio, ed ai conflitti che esso genera. Il rapporto del maschile con il desiderio è infatti importante per almeno due ragioni. Primo, perchè il desiderio oppresso si vendica. Secondo, perchè si vendica sulle donne e sulle relazioni umane tutte.
I compagni di Maschile Plurale ragionano esattamente su queste questioni, evidenziando la resistenza al vulnerabile nel maschile performativo. A me interessa qui invece la questione politica, ovvero mi interessano le conseguenze politiche dell'interdizione delle funzioni desideranti nel maschile. Perchè “del maschile”: perchè storicamente il maschile è stato luogo di privilegio, e come nel caso di Jung, dal privilegio è disceso spesso, per viltà ed opportunismo, il ripiegamento del desiderio nell'esistente ed il ricorso quasi sistemico al femminile come intermezzo. Con tutte le contraddizioni del caso, il desiderio inteso come forza rivoluzionaria assume nel femminile un potenziale dirompente antiteticamente meno negoziabile del desiderio maschile, ed una carica erotica la cui riappropriazione fuori ed oltre l'intermezzo è ciò che di più potente esiste al mondo. Su questo voglio tornare, ma per ora desidero ragionare sul modo in cui il ripiegamento del desiderio nell'esistente ha aperto alla vendetta sulla differenza: il desiderio imbestialito dei militari in guerra, il desiderio degli orchi di Arcore per meraviglie adolescenti opportunisticamente conformate al patologico, l'italiano su due che trivella a pagamento vita dalle donne, quelle stesse donne che puntano dall'intermezzo al potere maschile: che cos'è tutto questo se non un desiderio perfettamente inserito nel capital/Edipo che estrae gasolio per competizione dalle relazioni con l'altr@?
La parte delicata è che tale ripiegamento sfocia inevitabilmente non solo nella ricerca del potere, ma anche della sottomissione. Le due cose del resto sono inscindibili: il piedistallo di Jung che cos'è se non l'incapacità di rapportarsi orizzontalmente a Sabina? Ma questo punto è controverso in quanto dall'osservatorio del corpo femminile, sui piedistalli vive solamente il potere. Ecco che la questione diventa delicata, perchè non solo ovunque c'è un piedistallo non vi è nulla di orizzontale, ma perchè dal piedistallo discendono pratiche oppressive che trascendono le identità politiche e da destra come da sinistra introducono egualmente nelle relazioni affettive germi di terrore.


Ne parla in modo suggestivo Theweleit, il cui studio è interessante qui non tanto per i risultati quanto appunto per le suggestioni. Theweleit riflette sull'interdizione delle funzioni desideranti nel fascista. Il fascista non è completamente nato, scrive Theweleit. Le sue funzioni desideranti sono interdette nell'armatura dell'io esternalizzato che quello costruisce. Con disciplina il fascista esclude rigorosamente dal proprio mondo esterno tutto ciò che da dentro minaccia dissoluzione. Ecco che la psiche fascista concepisce il mondo attraverso una serie di opposizioni dialettiche nelle quali nega di volta in volta il femminile, l'altro, il nomade, il migrante, il morbido, il tenero, il brulicante, ovvero tutto ciò che minaccia hegelianamente di volta in volta la possibilità di dissoluzione di sé, negando continuamente il diverso dentro e fuori sino a ripiegare ferocemente nella moltiplicazione dell'uno. Con mille semplificazioni, il rifiuto dell'altro si esprime qui con la costruzione di meccanismi di aggressività perfettamente inseriti nel quadro competitivo del capital/Edipo, in una infinita ripetizione dell'uno che infondo non disegna altro che schematicamente la meccanica stessa della storia del capitalismo. L'uomo bianco ha lavorato per secoli alla moltiplicazione infinita dei pani e dei pesci sino alla saturazione dei mari e dei pesci. Ha corso contro ai competitori e alla minaccia di castrazione dei minareti (cito Borghezio). Ha risolto la propria saturazione con la moltiplicazione compulsiva della saturazione stessa, moltiplicando problemi e debiti sino a che la crescita si è fatta declino e a pioggia ha restituito declino al mondo. È patetica la prevedibilità moltiplicatrice e compulsiva dei dittatori, come patetico è il loro terrore, l'apparato repressivo e competitivo di cui solo sono capaci. Il problema vero però è che se la riproduzione dell'uno nasce dalla paura dell'altro, allora nelle relazioni attuali tra maschile e femminile prolifera il fascismo.
Partiamo dall'ovvio:“faccio una vita terribile, ho orari disumani. Sono una persona giocosa, se ogni tanto sento il bisogno di una serata distensiva come terapia mentale [...] nessuno alla mia età mi farà cambiare stile di vita del quale vado orgoglioso''. Così dichiarava Berlusconi sul caso Ruby. Similmente Tony Blair definiva le amanti come uno strumento per uscire dalla"prigione del self control”, e noi donne ben sappiamo come storicamente la consolazione del maschile all'inettitudine che inevitabilmente nasce dalla competizione nel capital/Edipo sia passata sui nostri corpi. Passi ora la minuzia dei dittatorelli che giocano a fare la guerra e poi supplicano a pagamento le donne di consolazione: il problema serissimo è che l'utilizzo della donna come stampella si estende a tutte le fasce sociali, incluse quelle oppresse o quelle colte.
Fa male ammetterlo, ma la ricerca di empowerment non a caso così detto sul corpo dell'altro tradisce spesso un reinvestimento del desiderio nella competizione con/tro i potenti, ove l'ambiguità del trattino introduce nel desiderio un doppio legame con il piedistallo dei potenti da una parte ed il femminile dall'altra. Doppio legame del desiderio significa da un lato deriva autoritaria nei rapporti del maschile con il femminile, e dall'altro competizione con/tro il potere per il potere, in una relazione antinomica che minaccia di trasformare l'impeto rivoluzionario in una forza autoritaria.  In questo senso, scriveva Foucault, “un investimento inconscio di tipo fascista, o reazionario, può coesistere con l'investimento conscio reazionario” (Foucault, 116), il che significa peraltro che si possano “perfettamente concepire delle rivoluzioni che lascino per l'essenziale intatte le relazioni di potere che avevano permesso allo stato di funzionare” (Foucault, 17). Ecco che la discriminante tra potenti e rivoluzionari, generalmente assai più ambigua nei prodromi che nelle conseguenze, si rende spesso facilmente manifesta sul corpo delle donne.
Qui servono una specificazione e una parentesi. Si fa infatti un gran parlare in questi giorni della supposta contrapposizione tra la mercificazione dei corpi a destra e la libertà dell'amore a sinistra. Ma tolto il fatto che in questo mondo non ci sono libertà né amore, e dunque l'argomento è miope o quantomeno ingenuo, il punto è che la sessualità è intrisa di potere. Ecco che la contrapposizione tra mercificazione o libertà, tra innocente femminile e maschile autoritario, tra libertario e moralista o tra rivoluzionario e potente viene sempre a cadere, in quanto tutte queste identificazioni rimangono inserite nel cortocircuito del capital/Edipo. Il bandolo oltre al cortocircuito in questo senso non può coincidere nè con l'identità nè con la morale. Il bandolo risiede solo nella necessità di spostare il discorso dalle categorie di identità politica o di morale alla categoria unica di desiderio. Il problema infatti non è dove avviene il ripiegamento del desiderio nel capitale/Edipo. Il problema è che avviene. Il problema non è che una figlia di migranti tenti la scalata al potere trasformando una stampella tappezzata di diamanti nel punto più alto (o più basso) dell'immaginario femminile. È che il ripiegamento del desiderio entro l'esistente contraddice sempre la produzione di nuove corrispondenze tra sessualità e desiderio, tra desiderio e vita, e ripiega così il desiderio in una forza oppressa tanto a destra quanto a sinistra, tanto tra le donne quanto tra gli uomini, tanto tra i potenti quanto tra i compagni. Ma se i potenti come vampiri vivono della riproduzione dell'esistente, per tutti noi questo diventa invece una problematica contraddizione.
Tornano qui puntuali le famose parole di Wilhelm Reich: perchè sopportiamo da secoli lo sfruttamento, l’umiliazione, la schiavitù, fino al punto di volerli non solo per gli altri, ma anche per noi stessi? […] Perchè coloro che soffrono la fame non rubano sempre e coloro che vengono sfruttati non si ribellano? “Le masse non sono state ingannate, esse hanno desiderato il fascismo in un determinato momento, in determinate circostanze, ed è questo che bisogna spiegare, la perversione del desiderio gregario” rispondono Deleuze e Guattari (Deleuze e Guattari, 32). Il ripiegamento sul piedistallo o sull'intermezzo come compensazione per l'assenza di libertà, qualunque sia l'identità politica o di genere che lo produce, reinserisce il desiderio nel capital/Edipo e lo costringe all'interno degli stessi confini di cui brama il varco. È questa la perversione del desiderio di cui parla Guattari. E la causa di questa perversione non ha nulla a che fare con la morale. È perversa solo in quanto controrivoluzionaria.
Come si libera la fantasia del desiderio dopo decenni di ripiegamento nel capitale/Edipo vestito nei due sessi? È questa la domanda.  E lo scarto sta esattamente nella scelta tra l'abbandono di sè alla potenzialità distruttiva del desiderio immanente, e l'abbandono del desiderio per il salvataggio dell'esistente. È lì che la differenza diviene nemica o complice. La relazione con la differenza è l'angolo nel cui rovesciamento l'interdizione delle funzioni desideranti verso il femminile, l'altro, il migrante, il morbido, il tenero, il brulicante, si scioglie in caosmosi proliferante. Il rovesciamento di quest'angolo trasforma la verticalità dell'uno in molteplicità orizzontale e promiscua. Ecco che il segreto sta nella potenza che si libera dall'incontro con l'altro inteso tanto come intersessuale e controsessuale. È in questo incontro che il desiderio si fa costituente, nella trasformazione in potenza della nudità vulnerabile condivisa. A favore di Jung dobbiamo dunque dire che affatto semplice è l'abbandono alla vulnerabilià che il desiderio rende manifesta: “Questi uomini del desiderio (oppure non esistono ancora) sono come Zaratustra. Conoscono incredibili sofferenze, vertigini e malattie. Hanno i loro spettri. Devono reinventare ogni gesto. Ma un tal uomo si esibisce come uomo libero, irresponasbile, solitario e gioioso, capace infine di dire e di fare qualcosa di semplice in nome proprio, senza chiedere il permesso, desiderio che non manca di nulla, flusso che supera gli sbarramenti e i codici, nome che non designa più alcun io” (Deleuze e Guattari, 146-147).
È  oltre l'io che il desiderio diviene rivoluzionario. È nel passaggio oltre il singolare,  nella compenetrazione del maschile nel femminile e del femminile nel maschile ed in questa miscela  molteplice che si schiude la potenzialità costituente del desiderio. Il desiderio teme il superamento della crisi di sperdimento che si manifesta al limite dei propri confini, e nel contempo brama la penetrazione catartica nell'intermittenza orgasmica dell'ignoto. Così, risalendo lentamente l'ignoto dell'altro interno, si schiude la sorgente della forza dolce che si annida nella carezza del cuneo più doloroso dell'essere umano. Quella sorgente sola può aprire alla potenza sublime del desiderio immanente. La meraviglia orgasmica del desiderio immanente sta esattamente qui, nella disponibilità all'abbandono dolce alla distruzione dell'ordine che restituisce fecondità alla terra penetrando delicatamente gli inferi di una crisi nel cui buio solamente il profumo del desiderio diviene direzione. L'abbandono all'incontro con la nudità è la speranza nella quale vive il futuro: è lì, nel fare l'amore con il desiderio d'altro e dell'altro che si rimescolano di curve i verticalismi intermezzati e dialettici del vecchio potere maschile e che la molteplicità del desiderio tenero e vulnerabile delle moltitudini diventa una forza costituente.
Non dunque nel maschile singolare o nel femminile singolare trova soluzione il terrore che vive nelle relazioni affettive. Bensì “oltre l’io il soggetto esplode in tutto l’universo storico, il delirante incomincia a parlare lingue straniere, soffre di allucinazioni che modificano la storia; i conflitti di classe o le guerre diventano gli strumenti dell’espressione di sé” (Deleuze e Guattari, 147). Solo oltre l'io rinascono intrecciate le relazioni e la storia d'amore tra Sabina e Jung trova libertà. Oltre l'io la bomba di terrore misto a fecondità esplode in un fuoco d'artificio di miele. Nulla più ha importanza allora. La rivoluzione diventa un orgasmo d'amore in cui fiorisce proliferante la fantasia molteplice.
 
Bibliografia

A. Carotenuto, Diario di una Segreta Simmetria, Astrolabio, Roma, 1980.
G. Deleuze e F. Guattari, L'Anti-Edipo, Einaudi, Torino, 1975.
M. Foucault, Microfisica del Potere, Potere-Corpo. Einaudi, Torino, 1972.
F. Hegel, Scienza della Logica Libro III, Laterza, Bari, 1968.
L. Irigaray, Speculum, Feltrinelli, Milano, 1975.
W. Reich, Psicologia di Massa del Fascismo, Mondatori, Milano 1977.
S. Spielrein, La distruzione come causa della nascita, in: Giornale Storico di Psicologia Dinamica, vol. 1, n. 1, 1977.

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