menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

domenica 19 aprile 2020

Grazie Luis


Ironia e realtà nei libri di Sepúlveda

In una intervista, Luis Sepúlveda dichiarava di considerarsi “scrittore di stampo cervantino, un ‘nipotino’ del grande Cervantes, colui che più di chiunque altro è stato un maestro nell’uso dello strumento dell’ironia, un’ironia intelligente e sensibile, al contrario del sarcasmo - che è sempre vigliacco e offensivo” 1.
Il ridondante ricordo pubblico di questi questi giorni e la sovrabbondanza di “conoscitori” dell'opera sepúlvediana, dopo la sua morte, fa capire che dell'ironia c'è bisogno.
A proposito di Luis Sepúlveda Calfucura, scrittore, giornalista, sceneggiatore, poeta, regista e attivista cileno naturalizzato francese, analizzando tutti gli scritti - effettivamente letti - dello scrittore e passando in rassegna certa pubblicistica minore (stampa, aneddotica divulgata radio-televisivamente, post sui social network), risulta che di parte della produzione letteraria, artistica, testimoniale e del repertorio di interventi ed interviste, espressione nel corso degli anni della biografia sepúlvediana, della violenza subita, dell’orientamento rivoluzionario, della lotta anti-sistema, della sua militanza per le libertà, delle sue idee e dei suoi comportamenti, non c’è traccia.
Forse, in queste pittoresche circostanze, Luis, spettatore del tramestio intorno al suo trapasso, avrebbe abbandonato la pura ironia di cui è stato capace, per usare un “sano” sarcasmo.
É l'ironia, invero, il notevole lascito socio-culturale di Luis, un metodo corrosivo di lettura veritiera della realtà umana che conduce sovente a rilevare l'infondatezza di certi stereotipi sulle differenze, sulle discriminazioni e sui confini che, separando, escludono; ironia che permette di rintracciare il carattere di mera opinione, subdola ed interessata, spacciata per conoscenza, del caratteristico linguaggio del potere e delle élite. Inoltre, l'ironia è anche la chiave per entrare nel suo universo creativo ed emotivo che aiuta, husserlianamente2, a Wirwollen auf die “Sachen selbst” zuŗcückgehen !
Luis non vuole affatto accontentarsi di pure e semplici parole, pur cesellate ad arte, perché la scrittura è vita, perché la vita “parla”, basta saperla ascoltare, saperla interrogare. La sua narrazione non s'avvale di intuizioni indirette, d'una potente architettura razionale all'uopo dispiegata, non è perizia da sceneggiatore, tanto meno fantasia obbligatoriamente illogica, viceversa è un prezioso voler tornare “alle cose stesse”, un lavoro, antropologico prima che letterario, di riduzione eidetica, ovvero un sublime comunicare – ossia, nobile umana commistione di abnegazione “nello scavo” e fervore solidaristico – attrezzato nel “dire” generoso. Si tratta del suo genuino rappresentare con la scrittura il passaggio dalla considerazione cronachistica delle vicende come tali alla loro essenza nel vissuto personale e sociale che le coglie incastonandole e collocandole abilmente nella memoria.
In un altro passo dell'intervista richiamata, Sepúlveda afferma: “Io cerco di scrivere dal punto di vista di una sana ironia fatta di amor e umor. In più sono cileno, e devo dire che una particolarità dell’uomo cileno è quella di ironizzare sempre soprattutto su se stesso - a differenza degli argentini. Se un argentino viene lasciato dalla moglie cercherà subito uno psicanalista e al massimo scriverà un tango tristissimo, un cileno invece darà una festa per gli amici per raccontare, trasformare l’abbandono cercando delle spiegazioni e ridere anche di questo. Negli anni del carcere, che vi assicuro sono stati molto duri, non ci trattavano bene, ci torturavano e una delle torture più comuni era quella di strapparci le unghie dei piedi, ma anche lì quando tornavamo alle nostre celle con i piedi sanguinanti e dolenti non era raro sentire qualcuno che diceva “Sono stato dal podologo stamani, una vera bestia, ma non gli ho certo lasciato la mancia!” [ … ] “I romanzi non vengono scritti dall’autore ma dai personaggi, lo scrittore si limita a seguirli nel loro percorso”.
La “trilogia dell'amicizia” della quale “Gabbianella” fa parte assieme a “Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza” (Ugo Guanda Editore, 2013) e “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà” (Ugo Guanda Editore, 2015) è una delle espressioni migliori di intima connessione tra scrittura e vita, di una concezione dell'arte del raccontare storie come atti umani perché politici, mai evasione consolatrice o alienante, d'una determinata ed autorevole convinzione di voler tornare alle cose stesse, di un impegno etico nello spronare il genere umano a fornire una migliore prova di sé.
In particolare, nell'emblematico libro “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” (Salani Editore, 1996) Luis narra l'inverosimile favolistico, ma con una inusitatamente efficace aderenza alla realtà. È l'altrove che descrive, eppure è dell'immanenza che sa trattare perché svela l'oggettiva valenza della diversità palesandola come utopia, come qualcosa che non è stato ancora compiutamente apprezzato, presentando una fratellanza da realizzare ancora, tuttavia presente, constatabile, quindi possibile e che può germogliare grazie alla “coscienza”, alla forza dei proponimenti soggettivi, alla messa in valore dell'ardimento individuale e all'affezione personale per l'altro di cui ciascuno è ricco.
Ecco, l'assenza dell'empirico che nasconde il “senso”, del quotidiano algoritmico accadere, del banale prevedibile, evoca energicamente un desiderio, mai fuga dalla realtà, che ha le sembianze della manipolazione benefica dell'argilla; esattamente come quel vero e proprio imprinting esistenziale che contraddistingue l'infanzia, quell'operare con le mani che i bambini iniziano molto presto, come forma di conoscenza degli oggetti: da sempre al centro dell’interesse e della loro curiosità, costituisce uno strumento, per maturare identità, autonomia e autentica conoscenza, che pare smarrirsi con la “adultità” e che Luis recupera e indelebilmente dona ai lettori come prescrizione non autoritaria.
A questo proposito, la trama va ricordata, perché la metafora scuote ancora. Il libro s'apre con l'impeto di Kengah, una gabbiana che cerca pesce per nutrirsi nel mare del Nord ricco di giacimenti di petrolio e di gas naturale, mentre penetra le onde. Lasciata sola nell'impresa dallo stormo che s'allontana, riemersa dai flutti, scopre d'essere impedita nel volo da una chiazza di petrolio che rischia di tarpargli le ali penetrando nella pelle. A fatica, con il greggio addosso, ascende verso il cielo e giunge ad Amburgo, precipitando tramortita su un balcone di una casa.
Qui Kengah incontra Zorba, un gatto, esemplare d'una specie dissimile di cui non diffida, a cui lei lascia in custodia, al culmine estremo d'una lucidità che sta per perdere, l’uovo che depone. La gabbiana, perdendo le forze strappa una promessa al gatto: maturare l’uovo, prendersi cura del nascituro e di insegnargli a volare. Il gatto si rende conto della follia dell'ultima esigenza dichiarata dalla gabbiana morente; certo, può tentare l'accudimento e avere successo nell'occuparsi del pulcino, può essere un riferimento nella sua vita, ma, senza dubbio, non sa insegnargli a volare, visto che è un gatto e non ha idea di come si faccia.
Zorba capisce che la gabbiana sta per morire e delira, ma quella che sembrava una richiesta impossibile da esaudire, pazientemente comprendendola, pare potersi realizzare. Il gatto, avvalendosi dei suoi amici Diderot, Colonnello e Segretario, tutti strambi personaggi, con dedizione e inclinazione sentimentale, riesce nell'impresa prendendosi cura di Fortuna, la piccola gabbianella, “come se fosse uno di loro, una loro figlia”. Tuttavia, resta l'ardua esperienza dell'insegnargli a volare. Per quanti sforzi facciano, Zorba e i suoi amici da soli non riescono a far spiccare il volo alla gabbianella, hanno bisogno di qualcuno che sia in grado di dargli una mano. A questo punto i gatti sono costretti a rompere un tabù e a parlare in una lingua diversa dalla loro, vanno così a chiedere aiuto all’unico individuo che pensano sia in grado di far mantenere la promessa: un uomo, un poeta dall’animo nobile e sensibile che riesce a comprendere la loro richiesta. Luis, riesce a porre l’accento sul doppio volto dell’uomo, che oltre a essere il responsabile dell’inquinamento dei mari, è in grado di fornire il suo aiuto e cambiare le cose, mostrando la sua parte sensibile e il suo rapporto simbiotico con l’ambiente circostante (rif. a Rossella Caso, Tra gatti e gabbiani. Un incontro tra infanzia e intercultura, Aracne, 2013; saggio incentrato sulla lettura pedagogica della favola di Luis Sepúlveda).
Questo è solo un aspetto della storia, poiché nel libro sono tanti i protagonisti e tante le contraddizioni che costringono ad intessere legami, a costruire rapporti che si susseguono, primo tra i quali quello della scoperta della diversità e della necessità di trovare un punto comune che riesca ad avvicinare (rif. a Rossella Caso, op. cit.), partendo dalla problematica esercitazione della comunicazione e della condivisione. Un vero e proprio “festeggiare le differenze”, come accade talvolta nella vita sociale, come dovrebbe accadere sempre nella scuola pubblica alla quale bambini e adolescenti vengono affidati. Il messaggio, apparentemente onirico, bensì utopistico, veicola, facendo breccia, la categoria del “possibile”. L'opera di Luis agisce come specchio rivelando l'indole di ciascuno, lo spessore morale, la capacità di accantonare l'ego per far posto al “noi”.
Tanti piccoli gabbiani nelle nostre scuole (rif. a Rossella Caso, op. cit), una realtà incontestabile, un'evenienza che fa comprendere che ogni relazione, ogni convivenza è sempre un incontro interculturale, un'amalgama tra diversi.
Ci si deve chiedere: i nuclei familiari e la scuola sono pronti a collaborare e ad accogliere la “diversità” come un'opportunità antropologica ? Non sempre di questo compito si è tutti consapevoli; le forme ed espressioni della relazione tra diversi non è impostata, in modo scontato, per attuare l'inclusione.
La “cura” degli studenti che le figure genitoriali ritengono debba essere svolta dagli insegnanti a volte non corrisponde alle intenzioni dell'integrazione solidale. Gli insegnanti educano alla libertà ed alla responsabilità, altri disfano la tela policromatica. La scuola pubblica, costituzionalmente orientata e improntata ad un un principio etico interculturale, spesso viene smentita, nel suo operato, da altre più influenti agenzie diseducative.
Che si renda evidente grazie allo scotimento di Luis, senza ipocrisie o cedendo al fascino delle rimozioni, questo dato di fatto: la scuola pubblica è e deve continuare ad essere un ambiente interculturale - che va salvaguardato per quello che è - nel quale gli stereotipi, quasi come piante velenose, non devono mettere radici, strutturando percorsi di incontro e sviluppando il pensiero divergente. Il romanzo di Sepúlveda, classico della letteratura non solo per l’infanzia, racchiude una straordinaria visione della “civiltà”, dai toni tenui, struggenti, ma anche vigorosi; abbiamo tra le mani un capolavoro che rende protagonista il lettore sospingendolo a riflettere e ad agire inglobando esigenze culturali ed etiche, a partire dai binomi di notevole rilevanza quali identità/alterità, noi/loro, accoglienza/rifiuto (rif. a Rossella Caso, op. cit). La gabbiana morente è il mondo adulto, i gatti sono l'équipe educante protesa nell'attività di insegnamento, la gabbianella rappresenta la generazione prossima, esito e causa, all'unisono, dei miglioramenti a portata di mano.
Un testo così polisemico e immaginifico che, come nella migliore tradizione delle fiabe, si apre per regalarci un ventaglio di significati sui quali poter ampiamente rappresentare prioritariamente quelli smarriti e discutere poi come poterli recuperare.
Pertanto, così Kengah diventa paradigma di ogni migrante che — come tragicamente sappiamo — non riesce a realizzare il suo desiderio e trova la morte in circostanze avverse. L'altro interpellato e che interviene nella vita però offre una seconda opportunità: la gabbiana assegna agli altri il dono di un modo inedito e migliore di convivere fra diversi. La condizione di orfanezza della gabbianella che si crede un gatto; la società felina che si interroga su questa strana creatura ma non la discrimina, anzi la protegge e la guida; i cattivi topi che guardano con altezzosità e intolleranza ciò che i gatti stanno facendo: un microcosmo che replica simbolicamente ciò che accade nel mondo, le cui dinamiche evidenziano la difficoltà del confronto, del dialogo e dell’integrazione. Dunque un libro che può essere proficuamente — e, aggiungiamo, gioiosamente — usato per insegnare a pensare ai nostri figli e alunni in maniera critica e intelligente, a riflettere proiettando sentimenti ed emozioni in un mondo distante che tuttavia è vicino all’immaginario dei meno “educati”, i più giovani (rif. a Rossella Caso, op. cit).
Luis, in definitiva, esorta alla collaborazione nell'abbattere i muri. Collaborazione innanzitutto tra chi elabora pedagogicamente per mestiere l'inclusione, progetta la formazione posta nella concreta prassi della vita scolastica di ogni giorno e coloro che dovranno accogliere i frutti di tale prezioso lavoro.
Il lascito socio-culturale, di cui all'inizio, può essere riassunto in questa massima, nota allo scrittore cileno al quale siamo grati: “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Questa frase, resa celebre da Karl Marx, è in realtà presa dagli Atti degli apostoli (cfr. At 4, 35).
È Luis stesso a dircelo dando la parola alla vita, rispondendo alla domanda circa il ruolo della produzione letteraria (Intervista a Luis Sepúlveda di Elena Torre, cit. in nota) ed alludendo all'impegno nella costruzione di reti interculturali contro tutte le forme di oppressione, di colonizzazione e di razzismo: “La letteratura ha una missione etica o serve solo a raccontare storie ?” Credo innanzitutto che uno scrittore debba narrare non da un punto di vista individuale ma collettivo: deve avere come punto di partenza un generoso ‘noi’. L’opera di uno scrittore trova la sua più profonda giustificazione etica non tanto nelle cose grandi, ma in quelle piccole nella forma e grandi nel contenuto. Qualche anno fa uscivo da una libreria di Parigi e venni avvicinato da un ragazzo che avrà avuto vent’anni. Mi disse che aveva letto Un nome da torero, forse uno dei miei romanzi dove ho messo più di me stesso. Mi chiese se avevo un minuto da dedicargli e dal momento che ce l’avevo siamo andati a prendere un caffè. Vedevo che era molto emozionato, non riusciva a parlare così l’ho spronato a farlo. Mi ha raccontato di essere il figlio di Perez, massimo dirigente del Mir, ucciso dalla dittatura. Mi ha raccontato dell’odio che provava per suo padre perché era sempre assente, perché non lo accompagnava alle partite di calcio, non lo andava a prendere a scuola come tutti i suoi compagni. Leggendo il mio libro aveva capito chi fosse stato realmente suo padre e per cosa si era battuto, per cosa era morto. E allora non solo aveva capito, ma lo aveva amato, rispettato e di lui era divenuto orgoglioso. Ho realizzato proprio in quel momento la carica etica profonda della letteratura, un dovere a cui non posso certo sottrarmi”.
Giovanni Dursi © Aprile 2020
Docente M. P. I. di Filosofia e Scienze umane

1 Intervista a Luis Sepúlveda di Elena Torre, http://www.mangialibri.com/.
2 Si utilizzano le opere di E. Husserl in traduzione italiana, in questo caso con riferimenti alle edizioni della Husserliana. La traduzione italiana di Ricerche logiche è di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, 19823, vol. I,p. 267.

lunedì 16 marzo 2020

Sostiene Giovanni Dursi . . . Sui tempi malsani, contaminati dalle attese

Sui tempi malsani, contaminati dalle attese


«Gli esseri umani sono unici. Come e perché lo siano ha stimolato
per secoli la curiosità di scienziati, filosofi e persino avvocati.
Quando cerchiamo di stabilire una distinzione tra animali ed esseri umani,
nascono controversie e ci si azzuffa sulle idee e sul significato dei dati,
e quando il polverone si placa, ciò che resta è una quantità maggiore
di dati su cui costruire teorie più forti e stringenti.
Stranamente, in questo ambito di ricerca,
idee opposte sembrano essere almeno parzialmente corrette»
Human. Quel che ci rende unici (pag. 9)
Michael S. Gazzaniga, Raffaello Cortina Editore, 2009

Al termine del secondo decennio del XXI secolo, l'umanità è dentro una bolla asociale di silenzio, di coatta “inattività”, di attese imperscrutabili. L'esperienza laica del silenzio, di fronte alla disperazione delle presenti vicende del quotidiano, comporta il passaggio dall'assolutizzazione dell'Ego alla presa di coscienza dell'“identità relativa”.
L'improvvisa e fragorosa fenomenologia del silenzio, come la si può cogliere all’interno della manifestamente precaria dimensione dell'esistenza umana, costringe ad esplorazioni intime le quali, se ben condotte allontanandosi dal risvolto mitico e archetipico di tali investigazioni, aprono alla scoperta o alla presa d'atto della pregnanza “salvifica” del desiderio della ragione, preludio di ineludibili conoscenze. È il cammino che conduce al non-Sé. Una speleologica tendenza psicosociale alla decostruzione, con lo scopo di esplicitare le infinite possibilità di significato e di interpretazione dell'esistenza collettiva méntre la bolla esploderà.
Certo, non si vuole disconoscere lo stato di necessità, le indispensabili precauzioni e la prevenzione possibile, bensì interpretare l'evolversi della situazione epidemiologica ed il carattere peculiare, aggressivo e letale, del contagio virale (ovviamente preoccupati dall'incremento quotidiano, in scala globale, dei casi conclamati da sintomi inesorabili, indubbi, evidenti), in un quadro di riferimento generale che – sensatamente – comprenda anche i plurimi versanti dell'habitat organizzativo della vita collettiva storicamente data, dai quali contemplare la morte (G. D'Annunzio, Aprile 1912), ancor prima che fisica, culturale, insita negli stessi processi tecnici che guidano il funzionamento e le relazioni all’interno del sistema economico egemone, efficacemente pervasivo.
Questa impostazione nella disamina non permette di eludere, preliminarmente, la reale differenza che persiste, non tanto nella percezione del dilagante fenomeno definito “emergenza sanitaria”, ma nel rischio reale di vita che l'alta onda del contagio immette nelle biografie personali.
Sono i lavoratori dipendenti, ancora una volta, ad avere – più vicino di ogni altro - sulle proprie spalle la falce affilatissima che distende la lama indiscriminatamente, essendo ancora considerati un inesorabile sacrificio umano sull'altare della produttività da non interrompere e del profitto da garantire, ad ogni costo.
Inoltre, intorno a questa perversa gestione di un fabbisogno universale di tutele e delle misure di contenimento, fanno capolino becere velleità eugenetiche nelle diverse versioni, da un lato, di evitare le cure necessarie agli anziani colpiti, considerati condannati per età e malattie pregresse e, dall'altro, della “soluzione” messa in campo dall'attuale Governo inglese e dagli epigoni che ritengono di poter accettare un numero certo di decessi oltre il quale si svilupperà “magicamente” la cosiddetta “immunità di gregge”, dando per scontato e indispensabile, tra l'altro in assenza di un vaccino, che si ammalino migliaia di persone per immunizzarne la maggioranza sopravvissuta al contagio.
Altro paradossale aspetto, dell'attuale tempo di vita sociale sospeso, riguarda la comunicazione sociale. Nella società statualizzata contemporanea ove le modalità individuali e gruppali di interazione e comunicazione si moltiplicano – indotte dall'innovazione tecnico-scientifica e da abili strategie di marketing e commercializzazione dei prodotti (obsolescenza programmata 1) - e le telecomunicazioni trovano ulteriore potenziamento e transitano decisamente verso procedure di “inclusione digitale” favorendo l’accesso ai benefici dell’Information and Communicatio Technology da parte di tutte le persone al suo linguaggio alfabetizzate (certo, non è affatto superata la questione del digital divide), oggi sono negate, drasticamente inibite, da provvedimenti normativi ispirati alla tutela della salute pubblica ed all'emergenza sanitaria che obbligano tutti ad estirparle, le primordiali forme di comunicazione – quelle interpersonali vis-à-vis - tipiche delle società senza Stato.

L'interdizione dell'intera gamma dei contatti che solitamente hanno luogo o si svolgono fra persone – empiricamente, l'intensa sollecitazione d'una norma di prossimità - ha un immediato riscontro sulla fenomenologia del controllo sociale e su entrambi i livelli sui quali tradizionalmente si manifesta: il livello della persuasione alla conformità e quello della repressione delle devianze; proprio quest'ultimo – come concepito (2) nella commistione tra emergenza epidemiologica, ordine pubblico e tranquillità pubblica (3) – fornisce la cartina al tornasole di questi tempi malsani, contaminati dalle attese, la prova irrefutabile del passaggio dalla cosiddetta “società disciplinare” a quella dell'introiezione (ideologica) del controllo, dove non è più solo il “potere costituito” ad esercitare la sorveglianza (e punire; rif. a Michel Foucault, Surveiller et punir: Naissance de la prison, 1975), bensì sono le stesse soggettività sociali, portatrici di spavento, unilateralmente informate, frammentate nelle appartate fruizioni e dei social network e delle piattaforme d'intermediazione, ad essere sospinte all'autocensura, all'autocontrollo anche vicendevole, all'incessante omologazione dei comportamenti alle direttive governative emanate.
Pertanto, sembra che l'accentuata plurisecolare civilizzazione (statualizzazione) dell'umano, abbia reciso i legami con gli aspetti, peraltro insopprimibili, biologico-naturali dell'esistenza, sembra che abbia ridefinito la condizione extragenetica, artificiale, “culturale” della riproduzione della vita, proiettandola in una dimensione totalmente asèttica rispondente solo alle regole sopravvivenziali dell’asepsi, come se, di fronte al dramma, la regressione comune al sistema esigenziale primario (rif. a A. H. Maslow 4), agisca inevitabilmente da “modificatore sociale”, con buona pace dell'antica convinzione, non solo aristotelica, secondo la quale l'uomo è un «politikòn zôon» (rif. Aristotele, Τὰ πολιτιϰά, IV secolo a. C.).

Non paia banale ricordare che l'umano ἐγκέφαλος, dotato di una corteccia sempre più vasta e più complessa rispetto agli altri primati, quella porzione anteriore del sistema nervoso centrale, contenuta all’interno della scatola cranica e costituita da cervello, cervelletto e tronco dell’encefalo, che con i 1.300-1.500 grammi di tessuto gelatinoso, composto da 100 miliardi di cellule neurali ognuna delle quali sviluppa in media 10 mila connessioni (l'esistenza di queste connessioni, o sinapsi, fu scoperta alla fine del XIX secolo dal fisiologo inglese Charles Scott Sherrington) con le cellule vicine, non attiva solo l'arcaico romboencefalo. Come, nel XX secolo, L. S. Vygotskij ha dimostrato, sono le funzioni intellettuali superiori ad emergere dalle esperienze sociali, grazie alla efficacia della “zona di sviluppo prossimale”, concetto unificatore dello sviluppo sociocognitivo umano (rif. a Pensiero e linguaggio, 1934).
Per dire che l'essere umano è da tempo immemorabile un ùnikum – fenomeno eccezionale e irripetibile – tale da non poter essere “trattato” in ogni evenienza solo come corpo; è differente inoltre da tutte le altre specie animali per la complessità del linguaggio simbolico articolato, per l’alta capacità di astrazione e di trasmissione di informazioni per altra via che non sia l’ereditarietà biologica, è cosciente e responsabile dei proprî atti, capace di distaccarsi dal mondo organico oggettivandolo e servendosene per i proprî fini, e, come tale, soggetto di atti non immediatamente riducibili alle leggi che regolano il restante mondo fisico.
L'essere umano non è un tubo digerente, le strutture del cervello rispecchiano la sua filogenesi nella “onnipresente lateralizzazione delle funzioni cerebrali” (op. cit., Michael S. Gazzaniga Human. Quel che ci rende unici, pag 34).
Nel λόγος, inteso come unità di pensiero e linguaggio, di discorso e ragione, risiede la peculiare autonomia del suo essere, nella disponibilità dell’uomo a seguito dell’evoluzione naturale, e diventa effettivamente utilizzabile da parte di ciascuno degli individui come risultato dell’apprendimento sociale. Dietro al λόγος c’è, sempre, ovviamente, la presenza del cervello, un piccolo grumo di cellule gelatinose, con sede nel cranio e che è capace di produrre una quantità di stati mentali superiore al numero di particelle elementari dell’universo conosciuto.

Questo organismo/uomo unitario ora è costretto a ridimensionarsi, colpa della pandemia che corre veloce attraverso i vastissimi territori nazionali e continentali, scindendosi in un essere biologico che non è più e non può più essere, tralasciando la sua “seconda natura culturale”, come analogamente analizzato anni fa da Naomi Klein in Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri (BUR Rizzoli, 2007) che “stabiliva una convincente correlazione fra i disastri climatici, gli “eventi estremi” e le restrizioni della vita democratica, a partire naturalmente dagli Stai uniti” (5).
L'ipotizzato caratteristico agire sociale dell'uomo è qualificato, oltre che dalle attività cooperative volte alla sopravvivenza delle comunità, anche da quelle volte alla riproduzione solidale dell'arco vitale individuale; in altri termini, le risorse antropologiche lavorative e l'ingegno che le esprime sarebbero orientate alla sopravvivenza non solo in quanto individuo, ma anche in quanto specie. L’uomo «politikòn zôon» essendo ontologicamente preprogrammato ad essere depositario di un'identità relativa sociale, definirebbe la produzione e la riproduzione della vita sia secondo il loro contenuto di materialità che in termini di progresso culturale. Coesisterebbero, conseguentemente, sia una produzione sia una riproduzione, al contempo, materiali e sovrastrutturali.
Va constatato che le inibizioni comportamentali (ad esempio le proibizioni di cui alla precedente nota 3 del presente testo) e l'astensione dai contatti fisici nello spazio-tempo sociale (urbano, lavorativo, domestico, affettivo) in atto, sono, insieme, in apparente e reale contrasto con il comune modo di pensare o con le più elementari norme del buon senso, e quindi sono inaccettabili sul piano logico, pratico, morale, ancor più per quanto riguarda i cosiddetti millennials (tra 14 e 18 anni) e i “nativi digitali” spuri (tra 18 e 25 anni) che trovano occasione di sviluppo cognitivo, relazionale, emotivo, etico, proprio nell'integrazione dell'esperienza “virtuale”, del processo di virtualizzazione della socialità (6), con la dimensione biologica dell'esistenza (dalla percezione sensoriale all'ἔρως, dalla fatica all'autoriflessività attuabile grazie alla possibilità di distanziarsi, autosservare e riflettere sui propri modi di essere e sui propri stati mentali “in situazione” pubblica).

La parvenza germinale di un diverso modo di essere del reale – ad alto impatto tecnico elettronico ed immateriale - che, come tale, non sempre costituisce una fuga dalla realtà, ma un potenziamento di forme tangibili di intervento su di essa, pare causare – in questo frangente di autoisolamento, relazionalità coartata e ritiro sociale, all'interno di una evidente riproposizione del “condizionamento operante” (rif. a B. F. Skinner, The Behavior of Organisms: an Experimental Analysis, New York: Appleton-Century-Crofts, 1931; Science and human behavior, New York, The MacMillan Co., 1953; Holland J., Skinner B. F., The analysis of behaviour, New York: Mc Graw Hill, 1961), come strumento strategico del controllo sociale tendente a formare una moltitudine di “personalità evitanti” (7) -, simultaneamente e contraddittoriamente, una deriva verso un troncamento di ogni qualsivoglia riconoscibile comunicazione con il mondo degli altri, non riuscendo ad emergere così alla pienezza ed autenticità dei rapporti sociali, bensì rendendola inessenziale, quasi effimera, ed enfatizzando al contrario l'esclusiva soddisfazione dei bisogni individuali per la sopravvivenza fisica, le necessità “fisiologiche”, fame, sete, sonno, termoregolazione, i primi a dover essere soddisfatti a causa dell'istinto di autoconservazione e, parzialmente, dei bisogni di sicurezza - che aprono oggettivamente alla relazione sociale - quali le occorrenze connesse a protezione, tranquillità, prevedibilità, limitazione/soppressione di preoccupazioni e ansie.
La stessa lettura darwiniana dell'evoluzione umana si contraddistingue nella messa in valore della capacità cosciente, cumulabile e variabile storicamente, di rendersi nella maggior misura possibile indipendente dalla natura, tanto che si potrebbe sostenere paradossalmente che ormai siano nella natura intrinseca dell’uomo la sua volontà, possibilità e capacità di rendersi in parte indipendente dallo stesso ambiente naturale.
I processi attraverso i quali si è arrivati a un tale divenire sono materia per gli antropologi; ciò che qui ci interessa è capire come le due fondamentali attività dell’uomo, la trasformazione della natura e la relazione con gli altri uomini, siano due aspetti inscindibili della definizione stessa di umanità: ciò vuol dire che non è corretto analizzarli separatamente o, meglio, vuol dire che si deve tenere sempre conto della loro interconnessione, della natura costituzionalmente (fondativa) ibrida dell'essere umano. Tanto la forza fisica e i variegati strumenti di trasformazione/valorizzazione della natura e di se stesso, quanto le esperienze, conoscenze e relazioni organizzate tra simili, hanno fatto dell'uomo un soggetto – agente consapevole - di storia, emancipandosi definitivamente dalla mera configurazione biologica e da quell'orizzonte chiuso, limitato, che lo ha rinserrato per millenni, dei bisogni fisiologici, riconducendo in via esclusiva e subordinando al Sé biologico ogni sorta di istanze ulteriori, prescindendo dall'immanenza di altri modi di estrinsecazione dell'umano e di riferimenti extragenetici.
Da questo punto di vista, oltremodo significativa è l'attualissima e accurata riflessione contenuta nel recente volume di Giulio Gioriello e Pino Donghi, “Errore” (il Mulino, 2019)
«Al tempo della società controllata dagli algoritmi, se cadiamo in una situazione imprevista dalla procedura – ciò che legittimamente potrebbe configurarsi come un errore o un'imprecisione che la serie di stringhe non aveva anticipato – in ogni caso l'unica soluzione proposta è “reset e riparti”: siamo capitati in uno stato non programmato e da cui è impossibile (con il programma in essere) ritornare dentro una qualche configurazione gestita, da cui procedere in modo controllato. Nei fatti siamo guidati all'interno di una dimensione da cui l'errore è stato escluso, bandito, non più ammesso. Cercheremo di argomentare che ci siamo abituati, evidentemente male. Ed è anche in virtù (diciamo così!) di questa nuova configurazione dell'esistenza, dove l'errore è inconcepibile – specialmente come vedremo nell'interazione con i medici e la medicina – che tendiamo a considerarlo troppo spesso inaccettabile e scandaloso. L'errore ci sgomenta e ci sconcerta; non può riguardarci. È contro tempo, appunto.
Semmai ci fosse, è bene che se ne occupi il dio-architetto-progettista. Per quanto ci riguarda è meglio iniziare una nuova partita, possibilmente con un gadget nuovo di zecca» (op. cit. p. 13-14).
Dedicato alla “condizione del progresso” il pamphlet sostiene che la la nostra storia genetica ci ricorda come le specie sopravvivano adattandosi all'ambiente a partire da errori “casuali” , talvolta fatali, ma spesso utili e risolutivi. Inoltre, nel mondo dall'I. A., l'anomalia dell'imperfezione è ancora necessaria per avanzare nel cammino della conoscenza. Ne consegue che, come in tutte le attività umane, periodici errori sono inevitabili, di regola non causati dalle azioni di un singolo e tantomeno intenzionali; in secondo luogo, che la meravigliosa macchina biologica della quale siamo dotati come esseri viventi non è più da tempo considerabile distintamente dalla parte extragenetica, “artificiale”, culturale intimamente ed irreversibilmente associata al nostro corpo.
Gli errori umani che procurano danni alla componente anatomo-fisiologica, per questo motivo, in medicina, rari, non augurabili e spesso prevenibili, ma mai inconcepibili, non possono essere affrontati deliberatamente come materia di esclusiva pertinenza sanitaria e normativa.

L'azione politica del concentrare i cittadini negli antri devoniani domestici e, nello stesso tempo, enfatizzare il “distanziamento sociale” come pubblica terapia, svela il tentativo di nascondere un'irresponsabilità (incolpevolezza) basata sull’elemento della scelta di ridurre l'uomo al suo corpo suscettibile di precoce decadimento. Proprio l'inadeguata riflessione sulle circostanze (talora eccessivamente e sbrigativamente valutate, talvolta sottovalutate) degli errori nell’esercizio della relazione sociale, biologico-culturale tout court, finisce per costituire un’insostituibile occasione per il miglioramento delle procedure di riproduzione generazionale della vita, oltre che per la corretta valutazione dell’innegabile originalità della risposta a trattamenti e cure ed eventualmente per risarcire le vittime non occasionali.
A tal proposito, va disapprovato con fermezza il rito puerilmente esorcizzante dell'affacciarsi dai pertugi di casa ascoltando o interpretando il  Canto degli Italiani, conosciuto anche come Fratelli d'Italia (!!!), Inno di Mameli, Canto nazionale o Inno d'Italia, un canto risorgimentale (!!!) scritto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro nel 1847 (!!!); una liturgia nazional-popolare o populista che evolve (!!!) nella forma dei flash-mob ("dal sapore di nazionalismo più becereo"; "rubo" la frase a Nicole Della Rocca, eccellente studentessa di Scienze umane) con persone affacciate ai balconi o alle finestre di casa, ispirate anche alle modalità di contestazione adottate dal pubblico su sollecitazione del guru televisivo (tal Howard Beale che minaccia di uccidersi in diretta, incrementando notevolmente gli ascolti ... !!!), come accade in una scena del film Quinto potere (regia di Sidney Lumet, 1976), in un tenersi collettivo per mano che non può essere “vero”. Tutto questo "protagonismo popolare" si palesa nella rimozione sostanziale di quanto accade nel frattempo: il completamento della torsione antidemocratica dello Stato ormai pronto a fare da "cassa di risonanza" di "invocazioni d'azioni di repressione-controllo da parte dell'Esercito e delle forze dell'ordine", ad agire come moltiplicatore di "ansia generalizzata senza alcune mediazione razionale che ha dei risvolti apparentemente schizofrenici (tra intolleranza, diffidenza dell'altro e senso di apparteneza comunitaria)"; cito ancora le puntuali parole di Della Rocca.
Tali diuturne celebrazioni evocano la narrativa deleddiana, basate su forti vicende d'amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità (come si evince in Grazia Deledda. La vigna sul mare, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932), si avvalgono d'una banale sceneggiatura spingendo a recitare con fervore salmi preconfezionati, #stiamotuttiacasa, #insiemecelafaremo, #andràtuttobene ignorando cinicamente i duemila morti circa accertati che, ad oggi, non ce l'hanno fatta e non potranno più – neanche volontariamente - “farcela a stare in casa”.
Il vincolo sociale non può essere ricondotto a relazioni terapeutiche e, prioritariamente, alla segregazione e alla esclusione come sta avvenendo e come sollecitamente si è indotti a pensare e ad agire disciplinatamente. Tale dispositivo panottico di contrasto e di cura – nell'immediato e ciò è innegabile – comporta la trasformazione degli individui da “soggetti di una comunicazione” a prigionieri ovvero “oggetti d’informazione”, la rarefazione sociale, la morte culturale dentro la camicia di forza di Narcisi ammalati, ed una prevista irrefrenabile infantilizzazione dell'umanità (la sindrome neotenica della contemporaneità rigorosamente tematizzata da Paolo Virno in Scienze sociali e «natura umana». Facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione, Rubbettino, 2003) che genera senso collettivo di perenne incompletezza e reiterata insoddisfazione.
Come opportunamente è stato affermato “La relazione con gli altri è … l’unica fonte della propria autostima, la cui perdita, reale o minacciata, è intollerabile e porta all’aumento della distanza tra l’immagine del Sé e l’ideale del Sé […] il Sé ideale … ha bisogno degli altri”. A. Adler docet (rif. a studi 1907-1936).
Prof. Giovanni Dursi © Marzo 2020
Docente M.P.I. di Filosofia e Scienze umane

1 Espressione con cui si fa riferimento al processo mediante il quale, nelle moderne società industriali, vengono suscitate nei consumatori esigenze di accelerata sostituzione di beni tecnologici o appartenenti ad altre tipologie. Tale processo viene attivato dalla produzione di beni soggetti a un rapido decadimento di funzionalità, e si realizza mediante opportuni accorgimenti introdotti in fase di produzione (utilizzo di materiali di scarsa qualità, pianificazione di costi di riparazione superiori rispetto a quelli di acquisto, ecc.), nonché mediante la diffusione e pubblicizzazione di nuovi modelli ai quali sono apportate modifiche irrilevanti sul piano funzionale, ma sostanziali su quello formale. Il fenomeno era stato rilevato già nel 1957 da Vance Packard in The hidden persuaders (1957, trad. it. 1958).
2 Il riferimento è al DPCM 11 marzo 2020 (Ulteriori disposizioni attuative del Decreto-legge 23 Febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale. (20A01605) (GU Serie Generale n.64 del 11-03-2020) recante ulteriori misure in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 sull'intero territorio nazionale.
3 Con particolare riguardo allo spostamento delle persone fisiche all’interno di tutto il territorio nazionale, nonché alle sanzioni previste dall’art. 4, comma1, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’ 8 Marzo 2020, in caso di inottemperanza (art. 650 C.P. salvo che il fatto non costituisca più grave reato). Il Dispositivo dell'art. 650 Codice penale così recita: “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'Autorità (1) per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordine pubblico o d'igiene (2), è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato [337, 338, 389, 509] (3), con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a duecentosei euro (4).
4 A Theory of Human Motivation, 1943; Motivazione e personalità, 1954-1970, Verso una psicologia dell'essere, 1971.
5 A questo proposito, vedere l'articolo di Angelo d’Orsi Lo shock (anti)democratico del virus, MicroMega, 14.03.2020.
6 Rif. a Pierre Lévy, Il virtuale, Raffaello Cortina Editore, 1997.
7 Rif. a “[ … ] levitante ha una rappresentazione di diversità e/o di inadeguatezza personale che vive come uno stato di fatto, più o meno doloroso, una realtà con cui confrontarsi nella vita; ha la percezione stabile dell’impossibilità a condividere e/o appartenere al mondo relazionale e sociale”, Popolo, R., Dimaggio, G., Marsigli, N. & Procacci, M., Difficoltà nella percezione del senso di appartenenza: un confronto tra fobia sociale e disturbo evitante di personalità, Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, 13 (3), 2007, 301-322. Vedere anche: Borgna, E. La solitudine dell’anima, Feltrinelli, 2011).