menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
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lunedì 4 marzo 2019

Diego Fusaro, Pensare altrimenti - Recensione di Giovanni Dursi

Il recente volume “Pensare altrimenti” di Diego Fusaro va letto, discusso collettivamente, soprattutto con i giovani, interpretato e commentato. Perché, in questo contesto storico e sociale turbolento e gravido di serie minacce che possono ulteriormente far regredire verso forme tecnocratiche neo-autoritarie l’ordine capitalistico mondiale, esprimere questa necessità? Prioritariamente, perché è un libro chiaro nell’esposizione; è un testo didascalico. Non è da trascurare lo stile con il quale l’autore argomenta «l’annullamento del dissenso, con annessa uniformazione integrale del sentire e del pensare» (op. cit. pag. 29), mentre «sotto il cielo domina graniticamente il pensiero unico del consenso di massa [ … ]» il quale «predica in maniera compulsiva l’intrasformabilità del mondo [ … ]» (op. cit. pag. 46); la foggia della scrittura è tale da rendere comprensibile a tutti il ragionamento, anche a chi è in fase evolutiva e necessita d’apprendere (in questo caso, il target ideale della comunicazione culturale veicolata da “Pensare altrimenti” è costituito dagli studenti delle scuole secondarie di secondo grado ed universitari – guidati filologicamente nella lettura – che necessitano di imparare a guardare in modo critico e fondato alla condizione umana ed al mondo attuale) ed incrementare l’abilità che consente d’analizzare in modo oggettivo le informazioni disponibili, valutare e interpretare dati e esperienze al fine di giungere a conclusioni chiare e solide.

Il forte incentivo al discernimento, all’analisi razionale puntuale ed alla valutazione di quanto pensato e scritto, è senza dubbio l’evidente valore aggiunto educativo del volume. Pertanto, nelle scuole, nelle Università, nei centri d’aggregazione sociale e di promozione culturale è bene che se ne parli per permettere alle giovani generazioni di fuoriuscire dal monologo di massa, di dissentire e ridare vita alla possibilità di pensare ed essere altrimenti, trasparenti obiettivi culturali di Fusaro ed editoriali dell’Einaudi.
Tuttavia, pur auspicando un’energica ripresa del pubblico contraddittorio sulle questioni del dissenso che «sorge sempre dal sentire altrimenti della coscienza individuale» e «può, poi, organizzarsi in forme corali, che spaziano dalla protesta alla rivoluzione» (ibidem, pagg. 20-21), pur rapportandosi con le leggi e gli ordinamenti, assumendo, tra l’altro, forme diverse quali l’exit (disaffezione che non produce un rovesciamento della situazione) e voice (protesta a cui si conferisce voce per incidere sul funzionamento dell’organizzazione o del sistema), è doveroso confrontarsi con la “lettura” che Fusaro fa del percorso teorico, storico e sociale del dissenso come sentire contro. L’ermeneutica autoriale, a nostro giudizio, sottrae la ricostruzione speculativa al naturale approdo d’una possibile rifondazione epistemologica [1] rifluendo in un discorso di filosofia politica. Da qui, la trasformazione della qualità didascalica dell’opera in un impaccio, per quei lettori che filtrano le nozioni grazie ad una più ampia consapevolezza rispetto alla tradizione del pensiero politico moderno, da Hobbes a Hegel, transitando per Locke, Rousseau, Kant, Marx e del Novecento e che, in definitiva, possono giudicare secondo il parametro dell’offerta di nuovi strumenti concettuali che, lo sforzo elaborativo di Fusaro, pare non donare.
Volendo usare il lessico kantiano, le pagine del libro non favoriscono l’estensione della conoscenza, bensì si sviluppano nell’ambito d’una concezione razionalistica, pur comprensibile nell’intenzione euristica e di diniego dell’individualismo autistico; per questo motivo, esse stesse rivendicano ulteriore approfondimento ed apertura di prospettiva per una fertile congiunzione degli auspici teorici con il movimento reale e trasformativo delle materia sociale. C’è un altro modo di porsi del pensiero critico, oppositivo, antagonista, anche come intelligencija (ricordiamo che è Hegel, come Fusaro sa, ad introdurre una distinzione importante tra le nozioni di «società civile» e «Stato» e che quest’ultimo viene concepito da Marx come «sovrastruttura» rispetto alla società civile in modo da portare luce sull’antitesi non risolta tra contenuto e forma, tra individuo concreto e cittadino astratto), un “modo” che diventa “mondo”. La modalità dialettica di relazione del pensiero con la storia nega l’analogia strutturale tra accumulazione di ricchezza nell’organizzazione capitalistica della produzione, da parte dei centri di potere globale, e l’indefinito deposito di conoscenza in poche menti le quali, non socializzando il sapere altro, se non al di dentro delle forme d’espressione consentite (appunto) e rituali nello stabilizzare la gerarchia sociale e le funzioni in essa normate [2], non mutandolo in strumenti d’azione trasformativa, concorrono a conservare la «contraddizione nella quale si trova il bourgeois con il citoyen, nella quale si trova il membro della società civile con il suo travestimento politico» [3]. È ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (i GRÜNDRISSE del 1857-58) [4], al Frammento sulle macchine, in particolare (un concentrato teoretico di quattordici pagine, contenuto nel secondo volume dell’opera) che – come pista di ricerca sulle disobbedienze che possono assurgere ad un ampio programma di riconfigurazione dell’assetto sociale – è necessario andare per cogliere le possibilità del requisito più evidente della socialità dell’individuo odierno – il general intellect -, per determinare, nell’epoca cosiddetta dell’avanzato post-fordismo, il ruolo dell’intellettualità in quanto tale, essa stessa messa al lavoro, cioè del linguaggio, della conoscenza, delle categorie interpretative, della socialità, delle relazioni affettive e dei rapporti interpersonali, presi per se stessi quali luoghi dell’esistenza alienata e potenzialmente luoghi d’orientamento e d’innesco dell’insubordinazione sociale [5].
Non si può concordare, quindi, con l’idea di Fusaro secondo la quale – parafrasando quanto sostiene Bernardino Telesio nel De rerum natura iuxta propria principia (1586), impegnato in una pratica di ricerca della conoscenza fondata sulla sensibilità [6] – il «dissenso» allude all’«ambito delle passioni» e non sia correlabile alla condizione materiale dell’esistenza umana, unico fattore di metodo e di invenzione rivoluzionari, con le conseguenze biopolitiche ed ecosistemiche che ne scaturiscono.
Leggendo e decifrando attentamente il filo logico- argomentativo che intesse la suggestiva trama del saggio, con specifica attenzione ai Capitoli 3 Gradi e forme del sentire non omologato e 4 Democrazia e dissenso (op. cit. pagg. 18-32), – innervata dalla robusta radice della Scuola di Francoforte alla quale Fusaro attinge riecheggiando l’horkheimeriana «nostalgia del totalmente altro» (o, blochianamente, del non-ancora) -, si coglie la pretesa dell’autore di aver individuato la determinazione ontologica, espressa impressionisticamente da variegate forme di soggettività (la ribellione di Prometeo come prototipo di ogni, successivo temporalmente, assalto al cielo, che troverebbe in Occupy Wall Street e nel caleidoscopico irrompere nella contemporaneità di ulteriori pronunciamenti organizzati di resilienza, resistenza ed opposizione sociale), che sancisce non esserci soluzione strutturale al determinarsi storico della sussunzione reale della società nel capitale.
Infatti, Fusaro, cogliendo la necessità di ripensare le possibilità dell’individuale incastonandole, dunque, in un essenziale impulso etico, scrive in un passaggio evocativo, ad un tempo, di Eschilo, Fedro, Omero, Platone, Kant, Gramsci, Adorno e Fromm ed altri ancora:
«È solo dissentendo, e organizzando in forme strutturate il proprio sentire altrimenti, che l’individuo può maturare come soggetto, ossia come portatore di un sua visione critica e personale, scelta liberamente e non accettata passivamente perché imposta dall’ordine simbolico dominante [ … ] Il dissenso come rifiuto dell’autorità e del potere – politico o ecclesiastico, reale o simbolico – costituisce il gesto originario della civiltà occidentale [ … ] pone in essere una tensione tra la coscienza dell’individuo che sente altrimenti, e che può organizzare socialmente il proprio sentire, contro i cristalli del potere e dell’ordine politico, ossia contro quelle realtà che, almeno nelle tradizione occidentale, da sempre si connotano come volontà di ordine e di stabilità, di consenso e di creazione di quella docilità irriflessa che viene detta obbedienza» (op. cit. pagg. 14-15); più avanti, riguardo al presente, sollecita l’eresia rispetto «al monoteismo idolatrico del mercato, al fanatismo economico-finanziario» in grado di rinsaldare diuturnamente «un consenso universale e una sincronizzazione di massa delle coscienze» (ibidem, pag. 17).
Del tutto evidente che secondo Fusaro le incarnazioni dell’ordine costituito e i loro doppi ribelli, il gioco affascinante tra l’essere e il poter essere sono irrisolvibili; il filosofo torinese, pur mantenendo una tensione tra effettività e alterità, non sembra riuscire a costruire uno sguardo, in qualche modo necessario, che scruti anche oltre la tradizione della teoria critica, evitando d’avvitarsi in un auspicio di cambiamento senza prassi rivoluzionaria, e che si congedi dalla mera teoresi superando lo stesso impianto speculativo. Le insuperabili aporie del pensiero critico-negativo francofortese si ripresentano non modificate nel pensiero di Fusaro che aggiorna le idee di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno contenute in Dialettica dell’Illuminismo (1947), messe fruttuosamente all’opera nei cantieri politico e sociale, nei tre decenni successivi alla pubblicazione, dai movimenti di massa femminili, studenteschi e proletari per ribellarsi al processo di riduzione della cultura a merce, per contrastare la legge dello scambio estesa ai prodotti dell’ingegno umano che l’industria culturale valuta secondo logiche di profitto e che, oggi, assumono la fisionomia di inevitabile critica all’I. C. T. ed alla digitalizzazione della produzione e della riproduzione sociale .
Certo Fusaro s’avvede che la la democrazia reale «resta un orientamento teleologico, una meta a cui tendere, non certo una forma politica già realizzata nelle strutture dell’esistente» (ibidem, pag. 25). Dalla constatazione ne trae, però, conferma il suo pathos inesauribile, eclettico, talvolta polemico mass-mediaticamente, ma soprattutto esortativo ed etico (non paia bizzarro, ma ciò ha un afflato psicologico e morale simile al racconto biografico di Ignazio Silone Uscita di sicurezza, Vallecchi, 1965). Affermare quanto segue
«le dicotomie oggi imposte dal politicamente corretto, come quella tra destra e sinistra, tra atei e credenti, tra islamici e cristiani, tra fascisti e antifascisti, tra stranieri e autoctoni, rendono invisibile la contraddizione – il nesso di forza capitalistico – e assumono lo statuto di risorsa ideologica e simbolica per l’assoggettamento dell’opinione pubblica al profilo culturale di quella teologia delle diseguaglianze che è l’odierna economia di mercato» (ibidem, pag. 67),
non crea scandalo perché è un sapere di classe già sedimentato e, a ben osservare rebus sic stantibus non lo crea almeno dalla fine degli anni ’60 del Novecento né le “primavere araba, europea e statunitense” l’hanno smentito. Ne consegue la disarmonia del lògos con le attuali urgenze sociali quando si scopre intento a promuovere un dislocamento dell’analisi, un suo salto in avanti, che non sia legato ad una forza, ad un soggetto che questo salto opera (attitudine diffusa, come già A. Negri, cit. in Nota 3, ha evidenziato in altra circostanza).
È gradevole e corretto il sofisma che recita: «Mutuando liberamente la sintassi di Heidegger, potremmo sostenere che, nella società del consenso universale e del conformismo di massa, il dissenso è esso stesso in preda al Si anonimo ed impersonale: ciascuno dissente come si dissente. E questo non solo perché il dissenso si capovolge puntualmente in anticonformismo e, quindi, in un nuovo conformismo, che semplicemente rovescia il paradigma dominante già assumendolo come proprio riferimento» (ibidem, pag. 63); l’ingegnosa coerenza formale, inoltre, non nasconde la verità di un potere che gestisce il consenso e, sempre più spesso, anche il dissenso, creando il consenso, pilotando, dirigendo ed incanalando il dissenso, di modo che che il primo sia garantito (e non messo a repentaglio), per via negativa, dal secondo; tutto ciò spiega che, apparentemente orizzontali i rapporti sociali, sono resi impossibili dall’ordine globale, il quale si regge strutturalmente e non per accidens, sul classismo e sulle disuguaglianze (ibidem, pag. 65); nondimeno, lo sviluppo reale della scienza sociale è guidato, più o meno coscientemente, dall’ideale d’una scientificità progressiva, cioè d’una capacità autonoma d’attribuire rilevanza differente alle azioni sociali, le quali saranno fondate sulla conoscenza quanto più possibile rigorosa delle leggi oggettive del movimento della materia sociale, quindi non abbandonate al predominio dell’opzione teorica filosofica glamour o all’intuizione degli operatori ideologici; di conseguenza, il compito urgente ed anche più impegnativo che spetta ai ricercatori sociali di verità è quello di evitare meri affreschi sul presente e di porre in questione lo stesso punto di vista dal quale si prendono le mosse, analizzandone il significato storico ed attuale, mettendone in rilievo i limiti e le condizioni di immanenza, indicandone eventuali linee di riorientamento ed i pericoli inerenti. Fusaro ne è consapevole quando afferma convinto che «il primo gesto di un dissenso autentico, non manipolato dall’ordine simbolico dominante, consisterebbe nel congedo da queste false dicotomie [nesso di forma capitalistico] e nella presa di posizione rispetto alla contraddizione reale» (ibidem, pagg. 67-68 e cfr. Capitolo 12. La neolingua e il nuovo ordine simbolico, pagg. 96-109) e prospetta il commiato dalle grandi narrazioni, senza però accorgersi che non si esce dal resoconto storico-teorico, a lato di espedienti critici e demistificanti che pur si producono nel dibattito pubblico, se non indicando l’immediata agibilità di un’azione contro lo stato presente di cose, partendo proprio dalla condizione sociale data.
In questo quadro il primo problema che pone, in verità, l’argomentazione di Fusaro è quello relativo all’incidenza dell’opposizione nel processo di formazione e promozione dell’indirizzo politico-sociale, nonché nel processo di controllo della sua attuazione; il fallimento dei sistemi costituzionali e parlamentari è sotto l’osservazione di tutti e, perciò, anche di Fusaro che non può fare altro che ritenere le opposizioni perversamente complementari all’assunzione di responsabilità di governo, entro un gioco delle parti che – essendo il “sistema” d’organizzazione economico-sociale secolarmente acclarato – può anche veder rovesciato il ruolo degli attori senza, peraltro, sovvertire la governance; in altri termini, il ruolo giocato dagli antagonismi sociali che esprimono dissenso si incarna in un’attitudine partecipativa che genera per sua natura meccanismi procedurali di manipolazione identitaria e di subordinazione delle soggettività antagonistiche.
Recensione in mentinfuga
La mediazione oppositiva è annichilimento dell’autonomia del pensare altrimenti ed agire contro (cfr. ibidem Capitolo 18. Dissento, dunque siamo, pagg. 144-156).
Pertanto, quando la critica dell’esistente non si pone nell’ottica d’una funzione oppositiva non integrabile (antisistema), quando non è in grado d’emanciparsi dalle mere dimensioni contestative sussumendo l’alternativa sistemica globale [8] – porre il problema del “potere politico” è l’orizzonte che va aperto -, rinuncia palesemente al progetto di liberazione umana che prevede il consenso dell’uomo ad un’inevitabile alternativa collettiva “totale” ed una coscienza traducibile in un’antropologia, in un’utopia – coincidente con quanto non è stato ancora realizzato, il non-ancora-attuale, la possibilità, l’immanente alternativa – originariamente e socialmente fruibile.
Al Pensare altrimenti di Fusaro manca un bilancio utopistico e rimane impigliato nell’angosciante assenza di un progetto storicamente determinato contro l’«integralismo economico globale» (resta irretito dalla stessa invenzione retorica dell’«ideologia del medesimo», rif. ibidem pagg. 77-86) intenzionalmente capace di scardinare davvero le strutture sociali conosciute. Tale sorta d’anomia intellettuale si limita a riconoscere, in ogni antinomia sociale, momenti “simbolici” del suo superamento, affermando l’idea di questo bisogno, ma rinculando nell’irrazionale della buona volontà filosofica: «il grande dissenso verso l’integralismo economico globale è chiamato a organizzarsi». Questo è certamente vero, ma non è sufficiente per rinnovare la storia umana, non per discendere dal cielo sulla terra, bensì per salire dalla terra al cielo.

Note
[1] Rif. a L. Althusser, Pour Marx, 1965; nella traduzione italiana, si consiglia la lettura dell’opera pubblicata da MIMESIS EDIZIONI, curata da Maria Turchetto; inoltre, a corredo, si propone anche C. Panciarola, Filosofia e politica nel pensiero francese del dopoguerra, Loescher, Torino, 1979.
[2] Non va evitata la portata dell’agire funzionale delle istituzioni ed agenzie formative nel dare impulso al “consenso” di massa; a tal proposito, resta esemplare la puntuale disamina contenuta nel volume di S. Stohr e I. Spano, Scuola e riproduzione dei rapporti sociali – Linciaggio, cultura di classe e disadattamento, Giorgio Bertani Editore, 1975.
[3] K. Marx, Sulla questione ebraica, in La questione ebraica e altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1974, pagg. 57-59.
[4] Si consiglia l’edizione de La Nuova Italia, Firenze 1997. I GRÜNDRISSE, secondo A. Negri sono “il progetto di rivoluzione che il “lavoro vivo” costruisce dall’interno della struttura della produzione capitalista. I Grundrisse sono insieme una “pratica teorica” che assume la rivolta del “lavoro vivo” nella crisi – considerando questa crisi come occasione rivoluzionaria – ed anche, come ben sottolinea Enrique Dussel, un motore generativo delle categorie di analisi dello sviluppo capitalistico” – Fonte: UniNOMADE 2.0 , 29.01.2013.
[5] Per inquadrare la questione dal punto di vista delle condizioni economiche delle disuguaglianze in essere, utile il volume di T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani / RSC,Libri, 2014.
[6] Del resto, Telesio prevede un’analisi globale ed al tempo stesso dettagliata del mondo, comprese passioni, azioni, operazioni ed aspetti delle singole parti e delle cose che esso contiene.
[7] Gli environment digitali e l’intelligenza “artificiale” (in grado di attingere al significato – semantic – delle informazioni disponibili), le piattaforme web integrate (manipolata nuova edizione dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers del XVIII sec.), i mass-media ed i dispositivi digitali che portiamo addosso e controllano tutti gli ambienti della vita sociale, dai luoghi di lavoro ai templi del consumo. La questione è stata adeguatamente trattata da R. Curcio in L’impero virtuale – Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Sensibili alle foglie, 2015; una riflessione sui dispositivi attraverso i quali questa oligarchia e queste tecnologie catturano e colonizzano il nostro immaginario a fini di profitto economico e di controllo sociale; altrettanto utile, la lettura di Renato Curcio (a cura di) L’egemonia digitale – L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, Sensibili alle foglie, 2016; ripercorrendo la micro-fisica dei processi innescati dai dispositivi digitali che mediano l’attività lavorativa – smartphone, piattaforme, sistemi gestionali, registri elettronici – in queste pagine si esplorano alcune metamorfosi radicali che, mentre rovesciano il rapporto millenario tra gli umani e i loro strumenti, sconvolgono ciò che fino a ieri abbiamo familiarmente chiamato “lavoro”.
[8] Vedere i Capitoli 14. Disobbedienza, rivoluzione, ribellione, pagg. 115-121 e 17. Due minuti all’odio, pagg. 135-143, op. cit.

Diego Fusaro: Pensare altrimenti, Giulio Einaudi Editore, 2017, pagine 176, € 12,00

giovedì 16 agosto 2018

Bikini

Secondo una certa linea di pensiero, quella occamistico-empirista, solo gli individui esistono, le idee generali essendo “flatus vocis”, o costruzioni mentali.
Eppure, mirando intorno, l'omologazione fisico-estetica, la standardizzazione dei comportamenti, la banalizzazione dei linguaggi usati per “comunicare”, l'uniformazione dei pensieri e delle emozioni rendono massificato, quasi indistinguibile il “proprio modo d'essere”. Originalità vo' cercando.
D'altro canto l’esser-un-individuo è davvero qualcosa di più immediato, di riscontrabile, di più facile da capire di un universale, di un collettivo, o, più banalmente, “e parte sermonis”, di un nome comune?
Quando fermarsi nell’analisi per trovare l’in-dividuo, ciò che non si può più dividere?
Per gli organismi viventi in fondo la cosa è dominabile, perché fa da discriminante quella misteriosa cosa che è chiamata “vita”.
Così sembra plausibile che un cane, o un cavallo, siano un individuo, e non un insieme di molecole: tagliandolo a pezzi, il cavallo “muore”.
Viceversa per le cose inanimate il problema pare di tutt’altra natura.
Un tavolo è un individuo o un ammasso di legno, o di molecole, o di atomi, o di particelle sub-atomiche, o, persino, nemmeno di materia, ma di materia/energia?
Secondo una certa altra chiave di lettura, un individuo è una astrazione metaempirica al pari di una categoria: in realtà noi esperiamo sempre e solo dati sensibili, e solo attraverso la percezione e la concettualizzazione li organizziamo poi in individui e collettivi.
Così l’individuo sarebbe una astrazione, un punto limite mai esperito, mentre il nostro vissuto si svolgerebbe entro una dimensione intermedia, un fascio di sensazioni simile alla primordiale broda cartesiana.
Quindi, ci si illude di vedere bikini, quel bikini in particolare, quella peculiare “forma” d'esistenza. Pensare di “vedere” l'oggettività, di “leggere” la sua struttura, contiene già in nuce quella vocazione di liberalismo esistenziale, che produce distanze, dalla verità. Ciò è esclusiva e inconsapevole condizione della solitudine di un “individuo” che s'affanna a capire il mondo. Del resto, la mentalità diffusa preannuncia direttive spirituali per l'intera umanità alle quali conformarla coercitivamente.
L'omologazione fisico-estetica, la standardizzazione dei comportamenti, la banalizzazione dei linguaggi usati per “comunicare”, l'uniformazione dei pensieri e delle emozioni sono anche la materialistica testimonianza della formazione di una gruppalità sociale, che venne storicamente costituendosi, a testimonianza del notevole livello di immaturità e di deprivazione culturale, facendo, dei consistenti gruppi sociali subalterni, davvero entità umane periferiche nel generale processo di incubazione della sempre mutevole barbarie.

lunedì 13 agosto 2018

Claudia Provenzano, scrittrice di nitido talento

Claudia Provenzano è autrice del romanzo Le ragioni degli altri, ma non solo: ecco infatti la sua bibliografia.


Storia di Miryam (2007- pubblicato da Armando Curcio nel 2016)- vincitore del premio Franz Kafka Italia 2017, è la storia laica e profana della maternità di Maria di Nazareth, nota come la madre di Gesù, senza arrivare però a toccare il momento della natività. In questo libro la sua figura di donna è resa utonoma, completamente svincolata dalla quella del figlio cui è tradizionalmente sempre associata. Storia di Miryam è una ricostruzione letteraria della biografia di Maria e della sua gravidanza spiegata attingendo alle fonti storiche del Vangelo e dell’Antico Testamento, senza fare alcun riferimento a spiegazioni divine e spiritualistiche. Maria è la controfigura reale dell’icona eterea della Madonna della tradizione religiosa cattolica. E’ una giovane donna di spiccata sensibilità esistenziale, che si interroga sulle credenze e i costumi del suo tempo, sui principi teologici del bene e del male e sull’esistenza di Dio con la freschezza di un’intelligenza incontaminata, fino a sfidare con determinazione, non senza paura, le convenzioni e le regole imposte dalla cultura patriarcale dell’epoca. In questa storia si disegna il profilo di una ragazza di quattordici anni dai tratti umani e del suo amore per Gabriele, un ragazzo reale, in carne ed ossa. Si narra del concepimento naturale e illegittimo di un bambino e della difficile scelta che Maria, nel contesto della società ebraica antica, con la complicità di Giuseppe, l’uomo onesto, generoso e lucidamente razionale che le fu destinato in marito, compie per salvare se stessa e il suo bambino. 
Miryam è la ragazzina ebrea narrata nei Vangeli in pochi scarni passaggi il cui profilo e le cui vicende vengono ricostruite dall’immaginazione femminile di una donna contemporanea che vede nell’amore terreno il vero senso dell’esistere umano e che trova nel libero arbitrio l’esercizio della propria ragione in relazione a domande metafisiche e alla fede. Una storia universale che va oltre il tempo per raggiungere ed entrare in risonanza con gli animi delle donne di oggi. Storia di Miryam è la storia del concepimento del figlio di Maria come non si è mai sentita prima.  Una giovane donna, due uomini, una madre, un’amica in un intreccio emozionante di amore, passione e ribellione.

Le ragioni degli altri (2015- pubblicato da Armando Curcio nel 2018) – Si tratta di un moderno racconto corale, in cui le vite dei vari personaggi si intersecano fra loro scambiandosi i punti di vista, parlando uno dell’altro in un reciproco gioco di specchi teso a dar voce alle ragioni degli altri. Tuttavia i vari personaggi non hanno lo stesso peso, ma si irraggiano da un unico centro, quella della protagonista, Clodel e di suo figlio. Un libro articolato sia per l’intreccio dei personaggi sia per l’incastro delle voci narranti. Strutturato su continui sbalzi narrativi dalla prima alla terza persona, conduce il lettore nel labirinto di un gioco prospettico fatto di salti dentro e fuori la psicologia dei diversi caratteri. Rovesciamenti del punto di vista che hanno lo scopo di fornire una rappresentazione a tutto tondo del personaggio, descritto sia dall’interno della sua soggettiva consapevolezza, sia dallo sguardo esterno più completo ed oggettivo di un ipotetico osservatore. Sono qui rappresentate, in uno spaccato di grande attualità, varie esistenze: storie di donne che concepiscono da sole i loro figli con l’inseminazione artificiale e di donne ebbre di autonomia che consumano gelide esperienze di sesso in una notte, storie di relazioni omosessuali, di trans-gender, di bulli e vittime di bullismo, di autolesionisti, di uomini-oggetto sessualmente usati come dispensatori di seme e di uomini figli del cambiamento dei tempi non più capaci di gestire la loro virilità, fino a tematiche più tradizionali come il delitto passionale, la sottrazione della patria potestà, l’adozione, l’occultamento della paternità biologica, l’adescamento e l’abuso di minori. Temi talvolta drammatici non privi di accenti ironici ed umoristici e mai caratterizzati da risvolti nichilistici. Il ritmo del racconto è spesso incalzante e la narrazione viene qua e là insaporita da momenti spiccatamente erotici e talvolta truculenti.

Libri in corso di stesura finale

Figli mancati (2017) : affronta le storie difficili di una serie di ragazzi con famiglie problematiche il cui trait d’union è la comune professoressa di psicologia di un istituto professionale: i ragazzi frequentano tutti, taluni negli stessi anni, taluni in anni diversi la stessa scuola. Daniel, il bambino ‘esposto’, figlio abbandonato davanti al negozio di McDonald che viene adottato dal poliziotto chiamato al momento del ritrovamento. I tre fratelli Arianna, Iacopo ed Elia, i figli di Giunone, tre fratelli sottratti dall’assistenza sociale alla madre obesa dichiarata incurante per le sue difficoltà a muoversi. Amal e Ikram, le ragazze senza velo, due sorelle algerine nate in Europa punite dal padre con la rasatura dei capelli per il rifiuto del velo. Agnieszka, la bambina ‘selvaggia’, bambina ucraina ritrovata dall’assistenza sociale allo stato selvaggio nel fienile della casa del padre, suo unico famigliare. Liang, il ragazzo nella cruna dell’ago, una studentessa liceale cinese nata in Europa sottratta alla famiglia dal padre per lavorare nella fabbrica nonostante i suoi risultati eccelsi a scuola. Danush, il ragazzo dei materassi, la storia di un bambino immigrato ad un anno con la madre dall’Albania, che dopo 12 anni di stenti morirà lasciandolo sulla strada. Bianca, la bambina di cera, la ragazza di famiglia borghese che scappa di casa e diventa una punk’a’bestia,


Libri in corso di seconda stesura

Le gravi madri (2017): Tre madri e i loro figli. Madri figlie di altre madri. Madri presenti, assenti, troppo presenti, ossessive, noncuranti, ipercuranti. Storie di vita che si intrecciano in un arco di tempo che va dagli anni ’70 del Novecento ad oggi. Storie di carriere in ascesa o in rovinosa caduta, storie di eterni adolescenti alla ricerca del proprio posto nel mondo, storie di amori e delusioni, di fedeltà e tradimenti, di gravidanze non volute, di adozioni mai rivelate, di distruttive battaglie legali per l’affido dei figli, di perfidi scambi di neonati nella culla, storie di stalking e di molestie pedofile, di ragazzi abusati, storie di senzatetto e di persone ai margini della società, storie di donne sole e di donne sempre alla ricerca. Storie tutte a loro modo segnate dalle tracce che, pur senza volerlo, “gravi madri” hanno lasciato sui loro figli. (“I nostri genitori hanno determinato  le nostre ferite, le nostre ferite ci sono genitrici”. James Hilman.)

Libro in corso di prima stesura

Il corpo parla: la vita di persone il cui malessere esistenziale si esprime attraverso il corpo.

Convenzionali ha il piacere di intervistarla per voi.

Da dove nasce Le ragioni degli altri? Che cosa rappresentano gli altri per lei?

Questo romanzo nasce dallo stupore per Le vite degli altri, che poi, in effetti, era il suo titolo originale. Ad un certo punto mi sono resa conto di aver collezionato un ventaglio variegato di storie di vita, osservazioni e testimonianze che avevo avuto modo di raccogliere nelle mie diverse esperienze di viaggio, nei miei studi all’estero, nel mondo dell’arte prima e dell’insegnamento dopo. Ogni incontro era per me una sorpresa, una gemma che ad attenderne l’apertura sbocciava sotto i miei occhi e a scrutarla mi rivelava il suo meraviglioso interno. Reale e immaginario. Ogni esistenza è un mondo denso e intenso che l’esperienza tesse col filo di seta, prezioso e resistenze, dei vissuti. Di questi mondi della nostra contemporaneità io volevo raccontare, fantasticare sulle loro ragioni. Perché non c’è verità nella nostra conoscenza. Ciò che cogliamo nelle storie delle vite degli altri non è che un’interpretazione soggettiva fatta della materia delle nostre credenze, delle nostre aspettative, dei nostri desideri e delle nostre paure, che vi proiettiamo dentro. E il romanzo è lo strumento che meglio coglie questa verità: verità interpretata. Dunque volevo ricostruire, inventandone le ragioni, le cause, l’origine, quelle vite che incrociando sulla mia strada mi avevano attratta, ammaliata, accalappiata.  E volevo renderle prototipo. Caso particolare che testimonia di tanti casi analoghi e simili, che ritornano sotto altri nomi ed altre fisionomie, ma che alla fine nel loro nocciolo essenziale si ritrovano nel minimo comun denominatore di un modello universale. Storicamente universale. Poiché ogni esemplare di vita è il precipitato storico della sua epoca. La lesbica, il transgender, il bullo, lo stalker, l’autolesionista, il pedofilo, il tossicodipendente, l’immigrato, il senzatetto, le donne single, le madri che concepiscono con l’inseminazione artificiale, le famiglie omosessuali, ricomposte, monoparentali… sono figure legate al loro tempo. Alcune sono sempre esistite ma assumono caratteri diversi a seconda dell’epoca in cui vivono, altre sono novità assolute sorte dalle innovazioni tecnologiche e culturali della modernità.


Parlando con le persone, scavando nei loro racconti, interrogando e frugando nei loro vissuti ci si rende presto conto che ogni esistenza non solo è un microcosmo complesso, un coagulo affascinante di emozioni, pensieri, bisogni e aspirazioni tutto da scoprire, ma anche che a seconda del punto di vista da cui la si guardi assume colori e forme diverse. E questo è il personaggio di un romanzo: il prototipo di una vita nella quale i lettori possono ritrovarsi. Più ci si addentra nella vita di un individuo, poi, più ci si accorge che, attraverso una fitta rete di relazioni, si intreccia a quella degli altri individui. Quelle vite degli altri che tanto mi intrigavano diventavano così un poliedrico gioco di specchi in cui l’essere di ognuno si definisce non solo in base a sé stesso, ma anche in base a ciò che gli altri vedono di lui. Ecco allora Le ragioni degli altri.

Dov’è la ragione quando si dialoga, si litiga, ci si lascia?


La ragione ha il suo luogo nel soggetto. Dunque non c’è una ragione, ci sono una, nessuna, centomila ragioni. È proprio questo che ho cercato di esprimere nel mio Le ragioni degli altri. Ed ho cercato di farlo tanto a livello dei contenuti quanto a livello narratologico utilizzando una voce narrante poliedrica, che continuamente balza da un narratore esterno ad uno interno, da un narratore che si rende complice del lettore ad uno che lo tradisce e balza fuori dal noi che prima li univa svelandogli dettagli e retroscena di cui lui solo sa.

La nostra è una società capace di empatia?


No. Sebbene le teorie sperimentali della psicologia abbiano verificato l’esistenza di neuroni specchio, il che dimostrerebbe il fatto che l’empatia è innata, tuttavia ogni comportamento innato nell’uomo, a differenza di quello animale che è rigido ed immodificabile, è plastico, modificabile in base all’esperienza che compie. L’apprendimento, la capacità di cambiare adattandosi all’ambiente, è infatti la caratteristica peculiare dell’essere umano, che non a caso ha predominato e vinto, indiscusso dominatore del mondo, su tutti gli altri esseri viventi. Pertanto anche l’empatia lo è. Modificabile, intendo. Se è vero che ha una base innata è pur vero che è modificabile dall’ambiente, dunque dal contesto storico-sociale in cui si esplicita. Nel nostro, nella società occidentale liberista, forgiato sul principio morale – e biologico– dell’egoismo, dove cioè la sopravvivenza sociale giustifica il primato dell’io sugli altri, l’empatia trova il suo spazio d’esistenza nella sfera del privato, nell’intimo delle proprie emozioni e dei propri affetti, ma nei confronti dell’altro in senso puro – l’estraneo –  no.

Il suo romanzo tocca molti temi: che importanza riveste al giorno d’oggi l’amore?

L’amore nel senso tradizionale del termine, nel senso in cui il filosofo Platone ha disegnato per noi all’origine della cultura occidentale, l’amore ideale, solido, eterno, l’unione con la metà mancante che ci completa, al giorno d’oggi, è utopia. Letteralmente, sentimento senza luogo.  È miraggio, desiderio etereo cui si tende. Cui ci si avvicina, lo si sfiora, forse si riesce a toccarlo perfino, ma che non si riesce ad afferrare e tantomeno a trattenere. Nella contemporaneità, per dirla con il sociologo Bauman nella società liquida, l’amore è esso pure diventato liquido. Non dura, galleggia sulla zattera di un sentimento che ci transita da una fase ad un’altra della vita, si consuma, ci consuma, e muore. E poi viene sostituito con uno nuovo, insieme a noi, che rinasciamo a nuova vita.  La legge e i costumi, che si adeguano al movimento del reale, sono cambiati e ce lo consentono. Ci legittimano a viverlo in questo modo senza più paure e sensi di colpa.

Il sesso? Il desiderio?

Il sesso da sempre è la vitalità che innerva la carne del nostro essere animale. È desiderio, brama. È piacere che conduce al benessere se appagato, frustrazione che conduce a malessere e all’aggressività se inappagato. Il sesso in senso più genuinamente freudiano è il desiderio per eccellenza, è l’energia che sta alla base di ogni nostra azione, di ogni nostra scelta, è ciò che ci muove, ci scuote, sbattendoci poi vilmente a terra o lanciandoci, sublimati, verso il cielo. Dipende da come, verso cosa canalizziamo quell’energia. Senza questa energia psico-sessuale non ci sarebbe l’arte (energia canalizzata nella creatività), la scienza (energia canalizzata nell’attività intellettuale), il volontariato sociale, la religione perfino. Il desiderio, con Freud, e con tutta la psicanalisi che ne segue, è sessualità. O meglio la sessualità non è altro che desiderio. Libido. Eros. Energia psichica che scorre nelle vene del nostro corpo. Perché corpo e psiche sono un tutt’uno. Non c’è l’uno senza l’altro. Non c’è vita senza desiderio. Ma nella nostra società della mercificazione, dove tutto è ridotto a merce, è anche la più preziosa merce di scambio e il più potente strumento di ricatto.

La colpa?

Colpa o senso di colpa? La colpa è il venir meno di una responsabilità che si è coscientemente e liberamente assunta. La si può riconoscere. La si può non riconoscere. Gli altri possono imporcela, scaraventandocela addosso come proiezione della loro propria assunzione di responsabilità, che però non ci riguarda. In questo senso, allora, ci sono due tipi di colpa. Una in senso morale, interna alla coscienza, quella che si è formata in noi con l’educazione dei genitori, che è puramente personale e non perseguibile. E c’è una colpa in senso legale, convenzionale, stabilita, oggettiva, quella che serve alla conservazione della società, e che perciò viene perseguita con la legge. Le due colpe spesso entrano in conflitto, si pensi al mito di Antigone.  È  ciò che sta alla base della distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. Il senso di colpa invece è quel peso opprimente con cui la nostra coscienza morale ci schiaccia per frenare le nostre pulsioni (quell’energia sessuale di cui si parlava sopra) quando queste non riescono ad essere canalizzate e dirompono allo stato puro, nella loro più cruda animalità. Di questa animalità ho parlato in Le ragioni degli altri attraverso un paio di personaggi secondari, che compaiono fulmini e… fulminanti, proprio per la truculenza della loro pulsione non governata.

L’ossessione?

L’ossessione è la fissazione assoluta e coatta su un’idea. Alla sua origine sta ancora quella pulsione erotica, di cui abbiamo parlato prima, desiderio, mancanza che chiede di essere colmata. Quell’ energia psichica che muove, smuove, ci agita e percuote, che non può essere ignorata, ma che nondimeno può essere indirizzata. Può essere diretta verso oggetti vili e allora diventa malattia, pericolosa nevrosi, oppure verso oggetti nobili e allora diventa fonte di creatività e devozione. L’ossessione è quella che spinge ai suoi delitti il serial killer, ma è anche quella che muove in modo sorgivo la mano dell’artista, dello scienziato, del missionario. L’ossessione è il rapimento della psiche da parte di un’idea che dapprima si insinua e poi si insedia nella coscienza. È un assedio invadente e tenace, prepotente ed esondante. L’idea ti chiama a sé con seduttiva dolcezza, ti solletica l’orecchio, sussurra, suggerisce, ti invita a seguirla, e poi ti cattura. Pretende tutto per sé. Attenzione, tempo, cura. È tirannica come un neonato. (Ma ti è cara,  la ami). Non ti lascia mai, di giorno, di notte, entra nelle tue azioni, nei tuoi pensieri coscienti, in quelli inconsci, anima i tuoi sogni, ti penetra fra le fibre del corpo, si fa largo sgomitando in mezzo alle tue relazioni. Non hai un momento per i tuoi figli, per il tuo compagno, per i tuoi amici, non per Gabriele Ottaviani che ti chiede un’intervista. Non ti dà tregua. Finché non l’hai divorata, spolpata, ridotta al midollo, finché non l’hai consumata, finché non ne è rimasta neanche una briciola, non puoi fare altro.

Poi, ti senti bene. Come dopo un parto.

La violenza?

È ancora una pulsione. È una delle modalità in cui la nostra energia psichica si manifesta.  Violenza è la pulsione sessuale (desiderante, libidica, erotica) che non riuscendo a trovare una via ‘umana’ per sfogarsi in modo alternativo, si sfoga in modo arcaico, bestiale. La violenza non è solo fisica ma anche psicologica, e questa, fra le due, di certo è la più subdola perché non porta la stigmate di un livido, di un’escoriazione, di un braccio rotto, e nondimeno comporta sofferenze anche più gravi.

La paura?

La paura è il senso di impotenza di fronte ad un pericolo che mette a rischio la nostra vita, pericolo individuato che sappiamo riconoscere come tale e dal quale possiamo pertanto tenerci a distanza. La paura non è dei vili è degli oculati, è lo strumento di cui ci equipaggia la biologia per difenderci dal rischio e tener salva la nostra vita. Chi non ha paura non è coraggioso come si crede, bensì un avventuriero che non ha cara la vita.

La speranza?

La speranza è il peggiore dei mali. Fra tutte le emozioni e i sentimenti umani è quella che resta sul fondo del vaso di Pandora, proprio perché la più temibile. La speranza induce ad attendersi qualcosa di meglio eppure è vano aspettarsi un futuro migliore perché nel momento in cui si realizza ci delude sempre, perché nella speranza noi proiettiamo tutti i nostri desideri impossibili.  E la delusione ci abbate, ci schianta al suolo, ci ammazza. Tuttavia l’uomo non può vivere senza questo effimero sentimento perché è ciò che ci proietta verso il futuro e, come ci ha insegnato l’esistenzialismo, non c’è presente senza tensione verso il futuro.

Il dolore?

Il dolore è mancanza. Vuoto, lacuna, fame. È il bisogno non appagato, è frustrazione, gioia mancata, privazione. È illusione delusa.

Il pregiudizio?

Il pregiudizio è uno stereotipo sovraccaricato di un giudizio di valore assoluto. Buono-cattivo, bello-brutto, sano-malsano, giusto-ingiusto. Lo stereotipo non è altro che uno schema irrigidito che non ammette eccezioni.  Se lo stereotipo è il cemento armato nel quale rimaniamo imbrigliati poiché inibisce la nostra curiosità, la spinta ad esplorare e a conoscere tutto ciò che è nuovo, ovvero ciò che fuoriesce dagli schemi, il pregiudizio ci autorizza a disprezzare, ovvero allontanare ed annientare, ciò che è diverso da noi. Nuovo e diverso si identificano nella nostra mente nel minimo comun denominatore di ciò che è ignoto e che in quanto tale temiamo. Tant’è vero che quando ci avviciniamo e curiosi ci lasciamo andare all’esplorazione di ciò che non conosciamo ecco che, visto da vicino, ci diventa familiare e non ci spaventa più. Stereotipi e pregiudizi nascono dalla paura dell’ignoto e del diverso, e dal bisogno di autoaffermazione di chi, sapendo di valere poco o nulla, non trova alto modo di prevalere se non affondando gli altri. Facile.

Perché scrive?

Scrivo per eccesso di libido. Sempre in senso psicanalitico, intendo. Desiderio, voluttà, bisogno vitale. Scrivere è una forma d’arte. Tutta l’energia che a fiotti mi scuote, sopraffacendomi con un eccesso di vitalità, io la scarico nello scrivere. Questa è la fonte del perché su cui mi interroga. La meta è il lettore. La possibilità di entrare in risonanza con gli altri attraverso le mie parole, veicoli di umani sentimenti e pensieri e desideri che agogno condividere con gli altri. Cosa possibile se il personaggio funziona, se è credibile, se è riuscito. Per dirla con Hemingway, un personaggio è riuscito se riesce ad essere umano. Solo così si innesca quel fenomeno psicologico definito identificazione.

Qual è il ruolo dello scrittore nella contemporaneità?

Bella domanda. Qual è il ruolo dello scrittore nell’epoca contemporanea non saprei dirlo. Ci sono tanti ruoli, così è sempre stato, in base alla poetica letteraria che lo ispira. Non c’è un ruolo che la società gli possa delegare, non in un paese libero almeno. Non c’è un unico ruolo che i lettori gli richiedano di svolgere perché ogni lettore è diverso dall’altro e cerca nella lettura cose diverse. Potrei dire quale vorrei che fosse il mio. Cioè: il narratore delle vicende umane.  Vorrei riuscire, e vorrei riuscirci davvero bene, a dare voce alle emozioni, ai pensieri, ai sentimenti, alle ambizioni e ai cedimenti che impregnano quelle vicende e farne di ognuna un prototipo nel quale i lettori possano riconoscerci. E perciò sentirsi meno soli e meno insignificanti nel marasma e nell’infinita sconfinatezza dell’esistenza. Io cerco questo.

Qual è la situazione culturale italiana?

Domanda da porre ad un sociologo. Per poter rispondere dovrei fare una ricerca storica e sociale, attingere alle statistiche di enti accreditati, rielaborare tutti questi dati raccolti, rifletterci sopra e infine riuscire ad elaborare una tesi mia. Cosa che richiederebbe troppo tempo ed io il mio lo impiego per scrivere e per compiere ricerche sui soggetti di cui scrivo. Se mai scriverò un libro che abbia a che fare con la situazione culturale italiana le risponderò.  (ride)

Il libro e il film del cuore, e perché?

Ho un libro ed un film del cuore per ogni fase della mia vita. Nel momento in cui ho scritto Le ragioni degli altri il libro era Il bacio della medusa di Melania Mazzucco, perché ho sentito risuonare nella sua la mia scrittura: quella tensione della creatività per cui le parole si riversano in modo alluvionale dall’anima. L’abbondanza delle emozioni che tracimano dai pensieri, la ricchezza della frase non secca, non anoressica, ma grassa di aggettivazioni, di figure retoriche, di ridondanze, di attenzione alla melodia, alla sonorità delle parole. Affinché affiorino sfumature, slittamenti di senso, evocazioni. Un romanzo in cui la potenza della parola sia affidata alle briglie capaci dello scrittore, pur senza togliere spazio alla libertà di immaginazione del lettore. Perché non è solo con l’asciuttezza dell’eloquio, con l’alveo vuoto della parola, che si può scatenare l’immaginazione. Concepisco il romanzo come il luogo in cui chi legge può scivolare nelle parole come sulle onde di un mare che non si assopisce, indugiando su quelle che più sente affini, affezionate o affascinanti per usarle come trampolino per la propria creatività immaginifica e lanciarsi “verso l’infinito ed oltre” (per citare un famoso cartone animato). Il film, per sua natura più sintetico ma anche più visivo, non è stato uno solo. Ma in quel periodo pensavo molto a America oggi e The Hours, per l’intreccio dei personaggi, per la molteplicità poliedrica dei punti di vista, per l’architettura narrativa e a Pulp Fiction, per gli aspetti di violenza parossistica cui mi sono ispirata.

By Gabriele Ottaviani

Convenzionali

martedì 10 luglio 2018

Lenin e la situazione rivoluzionaria - By Renato Caputo

Lenin e la situazione rivoluzionaria

È il fine stesso della lotta rivoluzionaria a imporre gli strumenti necessari per la sua realizzazione.

Lenin e la situazione rivoluzionaria 
Sebbene nessuno possa, necessariamente, sapere a priori se le condizioni rivoluzionarie oggettive si tradurranno in atto, il compito fondamentale dell’avanguardia – abdicando al quale perderebbe la propria ragione d’essere – è secondo Lenin: “svelare alle masse l’esistenza della situazione rivoluzionaria, mostrarne l’ampiezza e la profondità, svegliare la coscienza rivoluzionaria del proletariato, aiutarlo a passare alle azioni rivoluzionarie e creare organizzazioni corrispondenti alla situazione rivoluzionaria” [1], dal momento che in tali momenti risulta decisiva, in primo luogo, “l’esperienza dello sviluppo dello stato d’animo rivoluzionario e del passaggio alle azioni rivoluzionarie della classe avanzata, del proletariato” [2]. In ogni caso l’avanguardia potrà adempiere al proprio compito solo tenendosi pronta all’evenienza che si produca una situazione rivoluzionaria, anche perché, spesso, come insegna la storia, essa si viene a creare per “un motivo ‘imprevisto’ e ‘modesto’, come una delle mille e mille azioni disoneste della casta militare reazionaria (l’affere Dreyfus), per condurre il popolo a un passo dalla guerra civile!”[3].
Il partito rivoluzionario, per poter affrontare dei mutamenti repentini del corso storico indipendenti dalla propria volontà e che possono sfuggire alla propria capacità di previsione, deve essere addestrato ad utilizzare ogni forma di lotta, sapendo di volta in volta selezionare la più adeguata alla fase. Così, ad esempio, la Rivoluzione di Febbraio si è imposta, in una situazione di partenza molto arretrata, ovvero il dominio dell’autocrazia zarista, proprio grazie al suo aver coinvolto, in modo interclassista, ceti sociali anche molto differenti fra loro come la media e alta borghesia liberal-democratica e il proletariato urbano egemonizzato dai socialisti. Dunque, come chiarisce a questo proposito Lenin, “se la rivoluzione ha trionfato così rapidamente e in modo – apparentemente, al primo sguardo superficiale – così radicale, è soltanto perché una situazione storica singolarmente originale ha fuso insieme, e con un notevole grado di ‘coesione’, correnti del tutto diverse, interessi di classe eterogenei, aspirazioni politiche e sociali del tutto opposte” [4].
D’altra parte, generalmente, l’avversario di classe è sempre pronto ad avvalersi di qualsiasi mezzo utile, anche il più turpe, quando vede messi in discussione i propri privilegi. Così, come ricorda Lenin, “nella lotta contro il socialismo essi sono ricorsi a tutti i mezzi di cui disponevano, hanno utilizzato la violenza, il sabotaggio e hanno trasformato anche ciò che è il grande orgoglio dell’umanità – il sapere – in un’arma per lo sfruttamento del popolo lavoratore” [5].
Del resto non può che essere il fine stesso a imporre gli strumenti di volta in volta necessari per la sua concreta realizzazione. Così, ad esempio, più si avvicina, tramite lo sviluppo della coscienza di classe del proletariato, il momento dello scontro frontale, della guerra di movimento, più diviene necessario trovare la giusta dialettica ossia, per dirla con Lenin, “l’importanza della combinazione della lotta legale con la lotta illegale. Questo problema assume un grande significato sia generale che particolare, perché in tutti i paesi civili e progrediti si avvicina con rapidità il tempo in cui questa combinazione diventerà – e in parte è già diventata – sempre più impegnativa per il partito del proletariato rivoluzionario, per effetto del maturare e dell’avvicinarsi della guerra civile del proletariato contro la borghesia, per effetto delle furiose persecuzioni contro i comunisti da parte dei governi repubblicani, e dei governi borghesi in tutti i modi (l’esempio dell’America vale per tutti)” [6].
Dunque, quanto più ci si approssima al momento dello scontro finale fra oppressi e oppressori, tanto più tende ad aumentare la repressione violenta degli apparati dello Stato e la feroce persecuzione delle avanguardie dei subalterni, che impone al partito rivoluzionario di combinare i consueti strumenti di lotta legali con i mezzi illegali. Proprio perciò la possibilità, quasi sempre remota, di poter battersi per le proprie idee sul piano della dialettica politica, può comportare la momentanea rinuncia ai metodi generalmente necessari alla realizzazione della rivoluzione.
D’altra parte il pacifismo, la nonviolenza, in una società divisa in classi rischiano di essere pie illusioni – fughe idealistiche dinanzi a una deplorevole realtà, un abdicare del proletariato al compito storico di porsi quale classe universale [7] e addirittura un abbandonare lo stesso programma di dura lotta concreta per le riforme e i diritti democratici agli opportunisti o all’intervento dall’alto del governo, che le concederà per passivizzare le masse. Dunque, a parere di Lenin, la non violenza e il pacifismo comportano, nei fatti, un’abdicazione alla lotta per le stessa riforme di struttura. “Noi sosteniamo – osserva a tal proposito Lenin – un programma di riforme che è anch’esso diretto contro gli opportunisti. Questi tali sarebbero ben felici se noi lasciassimo loro in esclusiva la lotta per le riforme e, fuggendo la triste realtà, trovassimo riparo sopra le nuvole, sulle cime d’un qualsiasi ‘disarmo’. Il ‘disarmo’ è appunto la fuga dalla deplorevole realtà e non un mezzo per combatterla” [8].
Tanto più che, generalmente, sarà possibile liberarsi dallo sfruttamento capitalista e dalle guerre imperialiste unicamente attraverso la tragica esperienza della guerra rivoluzionaria. Perciò Lenin contesta le teorie pacifiste, non violente e del disarmo in quanto solo apparentemente costituiscono l’opposizione più risoluta alla guerra e al militarismo, mentre in realtà sono la manifestazione propria dei filistei piccolo-borghesi “di restare estranei alle grandi battaglie della storia mondiale” [9]. Come ricorda Lenin “solo dopo che avremo rovesciato, definitivamente vinto ed espropriato la borghesia in tutto il mondo, e non soltanto in un paese, le guerre diventeranno impossibili” [10], solo allora infatti non vi saranno più guerre imperialiste, di classe o di liberazione nazionale.
Detto questo, rimane essenziale, per un rivoluzionario, sapere distinguere le diverse tipologie di guerra, anche per smascherare i tentativi dei revisionisti che, come Kautsky e Plechanov, magari utilizzando in modo improprio - estrapolandole dal contesto - citazioni dello stesso Marx, tendono a giustificare il sostegno dato dagli opportunisti alle proprie borghesie nazionali in occasione di guerre di natura imperialistica. Osserva a questo proposito Lenin, richiamandosi alla risoluzione finale dell’ultimo congresso della II Internazionale, prima dello scoppio della prima guerra mondiale: “la risoluzione di Basilea non parla della guerra nazionale, né della guerra popolare – di cui si ebbero esempi in Europa, e che furono anzi tipiche nel periodo 1789-1871 – e nemmeno della guerra rivoluzionaria, guerre alle quali i socialdemocratici non hanno mai rinunciato. Ma essa parla della guerra attuale che si svolge sul terreno dell’‘imperialismo capitalista’ e degli ‘interessi dinastici’, sul terreno della ‘politica di conquista’ degli ambedue gruppi di potenze belligeranti […]. Plekhanov, Kautsky e soci ingannano senz’altro gli operai, ripetendo la menzogna interessata della borghesia di tutti i paesi, che tende, con tutte le forze, a presentare questa guerra imperialista, coloniale e brigantesca come una guerra popolare difensiva (non importa per chi) e che tenta di giustificarla con gli esempi storici delle guerre non imperialistiche” [11].
Perciò Lenin non può che giudicare filistei quei socialisti che tentavano di giustificare il loro sostegno a una guerra imperialista sulla base del fatto che sarebbe una legittima guerra difensiva, quale difesa della propria patria occupata dall’esercito nemico: “per il filisteo l’importante è di sapere dove stiano gli eserciti, chi adesso abbia la meglio. Per il marxista è invece essenziale il motivo per cui si combatte una guerra concreta, durante la quale possono risultare vittoriosi questi o quegli eserciti” [12]. Anche perché, pure le masse prive di coscienza di classe danno credito alle giustificazioni che i revisionisti tendono a dare del loro schierarsi con le borghesie nazionali nella guerra imperialista, richiamandosi a un sedicente “difensismo rivoluzionario”. In tal modo, in effetti, le masse non comprendono il legame che c’è fra il capitalismo, in particolare nella sua fase di sviluppo imperialista, e la guerra e rischiano di cadere nell’illusione dei pacifisti per cui sarebbe possibile giungere a una pace giusta e duratura, senza aver prima rovesciato l’imperialismo.
“Data l’innegabile buona fede di larghi strati di rappresentanti delle masse favorevoli al difensismo rivoluzionario, che accettano la guerra solo come la necessità e non per spirito di conquista, e poiché essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna spiegar loro con particolare cura, ostinazione e pazienza l’errore in cui cadono, svelando il legame indissolubile tra il capitale e la guerra imperialistica, dimostrando che è impossibile metter fine alla guerra con una pace veramente democratica, e non imposta con la forza, senza abbattere il capitale” [13]. Perciò Lenin critica quelli che definisce i social-pacifisti, ovvero coloro che pur dichiarandosi socialisti portavano avanti una linea pacifista che, come mostra Lenin, è inconciliabile con il socialismo rettamente inteso. “Ecco l’argomento essenziale: la rivendicazione del disarmo è l’espressione più chiara, risoluta e conseguente della lotta contro ogni militarismo e ogni guerra. Ma proprio in quest’argomento essenziale risiede l’errore fondamentale dei fautori del disarmo. I socialisti a meno che cessino di essere socialisti, non possono essere contro qualsiasi guerra. In primo luogo, i socialisti non sono mai stati e non potranno mai essere avversari delle guerre rivoluzionarie” [14].
Proprio per questo Lenin critica, severamente, le parole d’ordine che proclamano il disarmo in una condizione in cui il mondo è ancora essenzialmente sotto il dominio di paesi imperialisti. La tendenza, che Lenin giudica meschina, degli Stati di piccole dimensioni di rimanere neutrali, anche grazie alla politica del disarmo, è paragonata alla pia illusione del “piccolo-borghese di restare estraneo alle grandi battaglie della storia mondiale e di approfittare di una posizione di relativo monopolio per continuare a vivere in uno stato di passività abitudinaria: ecco la situazione sociale oggettiva che può garantire all’idea del disarmo un certo successo e una certa diffusione in alcuni piccoli Stati. Beninteso, questa tendenza è reazionaria e riposa esclusivamente su illusioni, perché in un modo o nell’altro l’imperialismo trascina anche i piccoli Stati nel vortice dell’economia e della politica mondiale” [15]. Se anche nel caso dei piccoli Stati la politica del disarmo è insensata, proprio per la sua natura particolaristica, che non tiene nella dovuta considerazione le linee fondamentali di sviluppo della storia mondiale, tale prospettiva non può in alcun modo essere rivendicato da un socialista. “Il ‘disarmo’ è oggettivamente il programma più nazionale, più specificamente nazionale, dei piccoli Stati, ma non è in nessun caso il programma internazionale della socialdemocrazia rivoluzionaria internazionale” [16].
Note
[1] I. V. Lenin, Il fallimento della II Internazionale (maggio-giugno 1915), in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 21, p. 194.
[2] Ibidem.
[3] Id., L’estremismo, malattia infantile del comunismo (aprile-maggio 1920), in Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 493.
[4] Id., Lettere da lontano (marzo 1917), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 101.
[5] Id., Discorso sullo scioglimento dell’Assemblea costituente alla seduta del Comitato esecutivo centrale di tutta la Russia (gennaio 1918), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 301.
[6] Id., L’estremismo, op. cit. pp. 467-68.
[7] A parere di Lenin il proletariato moderno è la classe universale poiché: “è la classe più forte e più avanzata della società civile; in secondo luogo perché nei paesi più progrediti esso costituisce la maggioranza della popolazione.” Id., La grande iniziativa (28 giugno 1919), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 418. Dunque, a parere di Lenin, “solo una classe determinata, e precisamente gli operai delle città, e in generale gli operai di fabbrica, gli operai industriali, è in grado di dirigere tutta la massa dei lavoratori e degli sfruttati nella lotta per abbattere il giogo del capitale, di dirigerli nel corso stesso dell’abbattimento, nella lotta per mantenere e consolidare la vittoria, nella creazione del nuovo ordine sociale, dell’ordine socialista, in tutta la lotta per l’abolizione completa delle classiivi: p. 416.
[8] Id., Il programma militare della rivoluzione proletaria (settembre 1916), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 92.
[9] Ivi, p. 94.
[10] Ivi, p. 86.
[11] Id., Il fallimento della II Internazionale (maggio-giugno 1915), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 9.
[12] Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico” (agosto-ottobre 1916), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 63.
[13] Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale (aprile 1917), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 109.
[14] Id., Il programma militare… op. cit., p. 84.
[15] Ivi: p. 94.
[16] Ivi: p. 95.

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30/06/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte: