menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
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mercoledì 11 ottobre 2017

Cerchiamo ancora: Capitalismo e società all’inizio del XXI secolo

Cerchiamo ancora: capitalismo e società all’inizio del XXI secolo - Giovedì 19 ottobre l’incontro inaugurale del ciclo di seminari formativi organizzato dal CRS e curato da Alessandro Montebugnoli

Contenuti, ispirazione, propositi
Il capitalismo di oggi sullo sfondo del capitalismo di sempre, il capitalismo al tempo delle piattaforme digitali sullo sfondo del capitalismo ‘in quanto tale’; e poi la vita del sistema e quella della società, il funzionamento dei mercati e l’orizzonte normativo dello ‘sviluppo umano’. Ragioni sostanziali fanno sì che il quadro degli argomenti e degli interessi di ricerca difficilmente potrebbe essere più largo. Almeno in parte, però, l’ampiezza di un panorama può essere riscattata dalla specificazione del punto di vista o del layer – che si adotta. Meglio ancora, l’estensione di un territorio può essere compensata dalla comunicazione, prima di partire, del cammino che si pensa di percorrere.

Da sempre, il capitalismo ha impresso nella forma merce una verve espansiva che non prevede e non sopporta limiti; da sempre vi ha iscritto l’‘istruzione’ di plasmare quante più aree e quanti più aspetti sia possibile delle vite private e di quella collettiva. Alle soglie dell’età moderna, il mercato ne ha ricavato pretese di validità che in effetti, già nel concetto, configurano un’attitudine di tipo ‘imperialistico’. La messa a fuoco di quest’ultima – della sua natura, degli attori che ne sono interpreti, dei dispositivi grazie ai quali ha sempre dispiegato i suoi cospicui effetti – costituisce parte integrante delle finalità che il seminario intende perseguire.
Al tempo stesso, considerazioni del genere faranno da sfondo a un discorso più ravvicinato. Il grosso dell’attività seminariale sarà infatti dedicato alle pretese di egemonia della forma merce leggibili nell’evoluzione recente e nell’attuale configurazione del capitalismo: l’offensiva neoliberista nei confronti dei servizi pubblici, la colonizzazione mercantile dei mondi della vita quotidiana e della stessa ‘interiorità’, la manipolazione delle questioni legate ai planetary boundaries e altro ancora, compreso lo sfruttamento commerciale delle identità personali in più sensi associato al capitalismo delle piattaforme digitali. Dell’attitudine imperialistica del mercato, il seminario intende appunto documentare le principali manifestazioni che oggi la confermano, e alle quali, anche, appartengono le crisi che in questo inizio di Ventunesimo secolo, come tante altre volte nella storia del capitalismo, hanno fatto da contrappasso alla mancanza di misura delle sue pretese. Che la verve espansiva della forma merce sia insofferente d’ogni limite non significa infatti che non incontri ostacoli, né che sia sempre sicura dei propri mezzi e del proprio modo di procedere.
Così definito, l’argomento si presta bene a tenere insieme un approccio di tipo ‘analitico’ e uno di carattere ‘fenomenologico’.
In primo luogo, è chiaro che la dinamica della forma merce va descritta, ricostruita e spiegata come quel fatto sistemico che in effetti è. Per questo aspetto, il linguaggio del seminario sarà quello delle discipline pertinenti alla sua materia: in generale la teoria economica e la sociologia, aperte ai buoni venti della riflessione storica e condite con una certa dose di filosofia; ma anche discipline più ‘specifiche’, variamente chiamate in causa dalla suddetta operazione di documentazione.
D’altra parte, è pur vero che nella dinamica della forma merce avvertiamo che si tratta del modo in cui viviamo, con il suo inevitabile portato riflessivo – la “vecchia questione”, come dice Beck, del modo in cui vogliamo vivere. In questo senso, un argomento importante ‘per noi’, per il segno che ne ricavano le esperienze delle quali ci capita di essere partecipi, come tale suscettibile di essere affrontato in chiave comprendente. Così, l’impostazione del seminario prevede che vi abbiano diritto di cittadinanza anche le percezioni della realtà depositate nella soggettività dei presenti, ravvisando in esse la dignità di uno specifico modo di conoscere.
Come vogliamo vivere: la domanda fa sì che il discorso non possa non aprirsi a considerazioni intorno al ‘che fare’. Non tanto, o almeno non immediatamente, in chiave ‘propositiva’, quanto, innanzi tutto, in termini di orientamento dell’agire politico. Meglio ancora, nei termini di un orizzonte di senso che collochi il ‘che fare’ all’altezza delle attuali contingenze storiche.
Molti anni fa, su questa lunghezza d’onda, Claudio Napoleoni ebbe a sostenere l’idea che “si tratta di allargare nella massima misura possibile la differenza tra il capitalismo e la società”. Intuitivamente, fatta salva la necessità di dedicare alla ‘società’ un discorso non meno impegnativo di quello sul capitalismo, il collegamento con il tema della verve imperialistica iscritta nella forma merce non dovrebbe essere difficile da cogliere. Così, tra schiette ragioni di consenso e qualche (non trascurabile) distinguo, la parte del seminario più vicina alla politica farà perno sulla formula appena riferita – cercando di precisarne il contenuto ideale, di portarla a esisti più determinati e di mettere a fuoco, anche, il singolare mélange di radicalità e ragionevolezza che la contraddistingue.
Va da sé che il punto di vista che verte sull’imperialismo della forma merce non è l’unico possibile. Senza dubbio, la realtà del capitalismo si presta ad altre critiche, in certo modo, anche, più immediate: basti pensare agli insensati livelli di disuguaglianza raggiunti negli ultimi decenni, che in un certo senso si impongono da soli come argomento di studio e di denuncia. Nondimeno, quello selezionato sembra un punto di vista che non conviene disattendere, e anche abbastanza comprensivo. Prendiamo ancora, come esempio, il tema dell’eguaglianza: a parte la nota domanda di Sen, of what?, che in effetti si sposa bene con il mood del seminario, quest’ultimo comprende anche l’idea che gli attuali livelli di dispersione dei redditi non siano affatto privi di rapporto con le pretese di egemonia della forma merce, e che in effetti convenga partire da queste per arrivare a quelli, perché il percorso inverso non è altrettanto agevole. Cosa ancora più importante, la critica delle pretese di egemonia della forma merce non sembra affatto priva di rilievo dal punto di vista delle strategie da adottare per venire a capo dei problemi legati al binomio occupazione-redditi – che tanta parte hanno nel ‘che fare’ - Qui il PDF.

 L’articolazione tematica
Di seguito, i titoli dei 25 incontri in programma. L’ordine deve essere ritenuto indicativo, soggetto a variazioni. Cliccando sui nomi delle sezioni si accede a brevi illustrazioni degli argomenti che allo stato degli atti, fatto salvo quanto emergerà nel corso dei lavori, formano il percorso di ricerca che sarà proposto ai partecipanti. Il risvolto della brevità è una discreta densità, dovuta all’intenzione di consentire una presa di contatto abbastanza ravvicinata con le tesi dalle quali, di volta in volta, il seminario prenderà le mosse. Nello stesso spirito, questo link consente di accedere testo della relazione introduttiva che sarà presentata in occasione del primo incontro.
Centro per la riforma dello Stato

1. Cerchiamo ancora
Percorso 1
La visione del capitalismo
2. La figura del processo di accumulazione
3. Innovazioni radicali e profitti straordinari
4. Le “alte vette” della finanza
Le categorie del sociale
5. Il nesso di individualizierung e socializierung
6. La pluralità delle forme di riconoscimento
7. La rosa delle forme nella croce della vita materiale
La forma del problema
8. La differenza di società e capitalismo
9. I capitalisti in un’economia non capitalistica
10. Eticità e politica
Percorso 2
Problemi di storia recente
11. Dalla Golden Age alla Global Turbolence
12. La New Economy
13. Le crisi del 2001 e del 2008
Spazi di crescita e vincoli di ragionevolezza
14. Il paradigma digitale
15. La Green Economy
16. I servizi sanitari
17. Il “capitalismo culturale”
18. Il terziario povero
Cittadinanza, occupazione e reddito
19. Dagli Internal ai Transitional Labour Markets
20. Il contributo del settore pubblico
21. Il reddito e il lavoro nell’arco della vita
A scala globale
22. Le proiezioni geografiche del capitalismo
23. La fine del secolo americano
24. Dove va la Cina?
25. Problemi di ordine monetario internazionale

Docenti
La conduzione del seminario è affidata ad Alessandro Montebugnoli; sono previsti interventi di Cristiano Antonelli, Vincenzo Artale, Laura Bazzicalupo, Salvatore Biasco, Michela Cerimele, Giorgio Cesarale, Giulio De Petra, Alisa Del Re, Lelio Demichelis, Tristana Dini, Nerina Dirindin, Ida Dominijanni, Roberto Finelli, Elena Granaglia, Cristina Morini, Giorgio Rodano.

Per partecipare
L’iniziativa è rivolta a giovani studiose/i di economia, sociologia, scienze politiche, storia e filosofia, o comunque interessate/i ai temi illustrati nelle schede.
Gli incontri si terranno con cadenza settimanale, il giovedì dalle 17.00 alle 20.30.
Il seminario inaugurale si terrà giovedì 19 ottobre, alle ore 17, nella sala conferenze di via della Dogana Vecchia 5.
Sono chiuse le iscrizioni per il cui perfezionamento è possibile effettuare il pagamento della quota di euro 100 tramite bonifico da destinarsi entro il 23 ottobre a:
CENTRO PER LA RIFORMA DELLO STATO ONLUS
Banca di Credito Cooperativo – Agenzia di Roma 21
IBAN: IT96A0832703221000000002925
In alternativa è inoltre possibile effettuare il pagamento direttamente in contanti in occasione del primo incontro previsto per giovedì 19 ottobre.
Coloro che avranno seguito con continuità l’attività seminariale riceveranno un attestato di frequenza e potranno partecipare alla realizzazione di un volume collettivo, dedicato alla documentazione delle idee che avranno avuto modo di sedimentarsi nel corso degli incontri.

domenica 2 luglio 2017

Sulla duplicità aspettuale del corpo

Dalla Prefazione di Silvano Tagliagambe
Perché nel mondo fisico esistono entità dotate di coscienza ed entità che, invece, ne sono sprovviste? Nel dibattito filosofico contemporaneo le teorie che indagano sul rapporto mente-corpo prendono come riferimento una concezione troppo vaga e astratta di corpo. Questa errata formulazione della nozione di corpo ha condotto, negli ultimi cinquant’anni, alla nefasta conseguenza di impedire la piena comprensione della coscienza. Lo scopo di questo libro è spiegare che esiste una sostanziale identità tra corpo e coscienza e delineare una nuova definizione di corpo a partire dalle proprietà che possiede e che determinano, ipso facto, il manifestarsi della coscienza. Per tutto il secolo scorso, fino ai giorni nostri, filosofi e neuro-scienziati, a partire da specifiche problematiche, hanno via via rintracciato nuove proprietà esplicative che caratterizzano l’essere coscienti, senza tuttavia sistematizzare le recenti acquisizioni in una nuova precisa visione d’insieme. «Il corpo cosciente» rappresenta lo sforzo originale e brillante dell’autore di ricomporre il puzzle della coscienza dando una nuova forma teorica alla nozione di corpo e alle sue ancora inesplorate risorse.

Massacra, Laura, Il corpo cosciente

Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, pp. 194, euro 15, ISBN 978-88-498-4389-7

RECENSIONE

martedì 10 gennaio 2017

Zygmunt Bauman, un pensiero errante nel flusso della società

È morto a Leeds, all’età di 91 anni, il sociologo e filosofo polacco. Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento.

Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda.
OGNI VOLTA CHE PRENDEVA la parola in pubblico Bauman faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali. Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra.
E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua «erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute.
Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando nell’esercito della Polonia libera.
 
FINITA LA GUERRA, la prima scelta da fare: rimanere nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte. Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel, Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia, Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman prende la parola per appoggiarli.
È ORMAI UN NOME noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista, acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non salutato positivamente dal regime Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito.
Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi), dove prende le distanze dall’’idea marxiana del proletariato come soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a perseguire effimeri vantaggi.
TOCCA POI ALL’IDENTITÀ ebraica divenire oggetto di studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto (Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro, perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per alcuni anni.
CAMMINARE NELLA CASA di Bauman era un continuo slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità). Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa. Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto, in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato. La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008.
SONO GLI ANNI dove l’amore è liquido, la scuola è liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità, Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode. Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare forma al vivere associato.
È MOLTO AMATO dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo.
BAUMAN NON AMAVA considerarsi un intellettuale impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle lamentazioni sulle cose che non vanno.
Fonte:

Osservare e raccontare le principali dinamiche sociali dell’ultimo mezzo secolo ha portato Zygmunt Bauman all’elaborazione di un pensiero organico sull’epoca in cui stiamo vivendo. E probabilmente il suo pensiero è il più lucido e valido a cui possiamo affidarci oggi. Nato in Polonia nel secondo decennio del Novecento da una famiglia di origini ebree, Bauman ha assistito all’occupazione nazista del suo Paese ed è fuggito in territorio sovietico, dove si è arruolato per opporsi al dominio tedesco. Al termine della guerra, ha studiato sociologia e ha cominciato ad occuparsi di sociologia del lavoro, di socialismo e delle relazioni tra pensiero moderno e Olocausto (Modernità e Olocausto, 1992). Inizialmente di impostazione marxista, Bauman si è avvicinato progressivamente alle posizioni gramsciane e ha così cominciato a pubblicare i suoi studi su riviste destinate a un pubblico vasto, di certo non specialistico, per contribuire alla formazione di una cultura compartecipata e aperta alle masse. Nel corso degli anni si è occupato anche di negazionismo e ci ha messo in guardia contro il pericolo dell’autoassoluzione e della rimozione delle responsabilità storiche che hanno portato all’eccidio del popolo ebraico – e, si potrebbe aggiungere, a tutti gli eccidi degli ultimi due secoli.
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La «società liquida». È soprattutto a partire dagli anni Novanta, tuttavia, che Bauman intravede quei processi di trasformazione che si sono pienamente sviluppati negli ultimi decenni. In quel periodo lo studioso si accinge a descrivere e a spiegare ciò che nota, mettendo i suoi contemporanei davanti allo specchio senza ombre di un’analisi acuta. Nel 1995 pubblica Life in Fragments. Essays in Postmodern Morality, nel 2000 Liquid modernity (Modernità liquida, Laterza, 2002), nel 2005 Liquid life (Vita liquida, Laterza). Insieme al nuovo millennio nasce l’espressione “società liquida”, che Bauman conia per usarla in opposizione alla “società solida”, dotata di ideologie di riferimento, e caratterizzante la modernità novecentesca. Il postmoderno, l’epoca degli anni zero, è invece un tempo senza gerarchie, un tempo “mobile” e incerto, in cui i legami tra gli esseri umani sono diventati labili (Liquid love è il titolo di un altro saggio del sociologo). Nella società liquida l’individuo non è più un “produttore”, bensì un “consumatore”. Non sogna più di possedere quanto è necessario per la sua esistenza, ma vuole avere il superfluo, poiché gli status symbol sono diventati essenziali per l’accettazione sociale. I saggi del ’95 e del 2000, a cui si potrebbe aggiungere anche Globalization. The human consequences (Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone), uscito nel 1998, costituiscono le pietre angolari della sociologia contemporanea e continuano ad essere validi anche oggi. La grandezza di Zygmunt Bauman è espressa dalla sua capacità di rendere consapevole il prossimo di ciò che sta vivendo.
La vita online e offline. Il 18 e il 19 settembre è stato ospite del Festival Filosofia, una kermesse itinerante che si svolge in Emilia Romagna, da Carpi a Sassuolo. Insieme a lui è intervenuto anche Ezio Mauro, direttore di la Repubblica, con il quale Bauman ha scritto a quattro mani Babel, di recentissima pubblicazione. Il soggetto messo a fuoco all’evento emiliano è quello degli effetti del mondo virtuale sul mondo reale, sull’educazione e sulle relazioni tra persone. Nel corso del suo intervento, Bauman ha parlato di due “quartieri”, quello fisico in cui risiediamo, e quello online, a cui accediamo tramite Internet. Nel primo siamo sottoposti a una serie di condizioni che ci è impossibile cambiare e a una serie di regole (di convivenza civile) da cui non si può sfuggire. Nel secondo, invece, siamo noi a dettare le regole. La rete virtuale è un sistema che controlliamo interamente: decidiamo con chi tenerci in contatto, chi annettere ai nostri “Amici”, chi cancellare dalla lista. Non possiamo fare lo stesso con i vicini che abitano alla porta accanto. La loro presenza non dipende da una selezione del mouse. La realtà, dunque, tende ad essere avvertita dall’uomo internauta come una dimensione impositiva che sfugge a qualsiasi tipo di controllo. Al contrario, la virtualità della rete è completamente controllabile, dunque gratificante e piacevole. Freud avrebbe parlato di opposizione del principio di realtà al principio del piacere. Ma ciò che in psicoanalisi si definisce trasgressione (reale) alle regole di vita sociale e familiare, in sociologia è diventato, al suo stadio più grave, alienazione. Bauman afferma: «Tutti noi senza eccezione viviamo adesso, a intermittenza ma assai spesso simultaneamente, in due universi: online e offline». Ciò ci conduce all’interno di un labirinto di specchi, in cui la nostra immagine ci viene restituita moltiplicata e deformata. La doppia esistenza che conduciamo influisce sulla nostra identità, su ciò che decidiamo di privilegiare, il profilo di un account social o l’aspetto con cui ci presentiamo alle altre persone. La scissione della vita in due luoghi, di cui uno è tangibile, mentre l’altro è meglio definito come “non-luogo”, è lesiva nei confronti della formazione di identità forti.

Identità, morale, società. La debole definizione delle identità personali, un processo che avviene attraverso l’auto-riconoscimento e il confronti con l’altro, conduce, a sua volta, alla disgregazione della società, per come la conoscevamo, vale a dire, la società intesa come aggregazione di individui consapevoli di lavorare e collaborare per il benessere comune e il mantenimento dell’ordine. Per spiegare meglio quest’ultimo passaggio, occorre rifarsi a ciò che Bauman intende con “morale” – e che ha rielaborato a partire da altri filosofi: la morale è l’impulso ad essere per l’altro, a darsi all’altro qualsiasi sia il comportamento da questi tenuto. Un atto morale, per essere tale, implica però la presenza di un “io” che decide autonomamente di affidare il controllo ad un “tu”, che in ultima analisi coincide con la società intera – essendo la società un “Tu” plurale con cui ogni soggetto entra in contatto. Perciò, se manca un “io”, manca anche l’atto morale, e con esso una società in grado di agire a favore degli individui che la compongono.
Favorire l’interdipendenza (reale). Il venir meno dell’identità impedisce anche di andare incontro all’altro non come a una persona dramatis, cioè come a una maschera, ma come a un volto, a un’altra identità. E questo aspetto è riscontrabile nell’atteggiamento di alcuni soggetti e di interi Stati nei confronti dei migranti. L’intervento di Zygmunt Bauman a Modena (18 settembre, con Ezio Mauro) e a Carpi (19 settembre) può essere idealmente integrato da un’intervista cronologicamente anteriore e rilasciata a Antonello Guerrera, per la Repubblica. Bauman aveva espresso la sua opinione in merito al dramma dei migranti e aveva osservato che l’unico modo possibile per uscire dall’emergenza sarebbe stato quello di raggiungere l’«interdipendenza», a livello europeo, ma non solo: «Trovare vere soluzioni ai problemi reali». Ora, l’“interdipendenza” di cui si parla è, ovviamente, una interconnessione reale e tangibile, non quella della rete online. Anzi, per raggiungere una vera interdipendenza tra popoli, o una «fusione degli orizzonti», come direbbe Bauman, occorre che l’individuo si riappropri del posto che gli spetta all’interno del suo quartiere cittadino, uscendo pertanto da quello virtuale. Bauman sembra volere sfruttare le dinamiche di interdipendenza del web, per applicarle tuttavia come “medicina” alle fratture del mondo moderno. Bisogna perciò uscire dalla «prigione del benessere» e rinunciare alla finta sicurezza della dimensione virtuale, per ritrovare il vero dialogo.
Fonte:

venerdì 6 gennaio 2017

Il terrorismo del desiderio

Written by Francesca Coin, 07.02.2011

ovvero di rivoluzione e miele
ovvero lettera ai compagni (e a Jung)
1.
Vorrei parlare di una storia d'amore, quella tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein. Il mio scopo in realtà è provare a discutere con un pò di cognizione di causa il cosiddetto scandalo sessuale che attuttoggi nella sua miseria eccita i media. Premetto che poco m'importa della cosa in sè, m'importa il fatto che tale scandalo abbia in realtà ben poco di scandaloso, anzi costituisca la prassi stessa in cui muovono oggi destra e sinistra istituzionale e non, ovvero buona parte dei potenti insieme ai rivoluzionari.
Scrivo questo per ragionare in ultima analisi non tanto sulla differenza, quanto piuttosto sul desiderio, dopo che per decenni il mercato ha tentato di eccitarlo, di sublimarlo, di trarne valore, di atrofizzarlo, di capitalizzarlo, di trasformarlo in plus-godere direbbe Zizek. L'oppressione del desiderio collettivo si riflette in molte cose, ma anzitutto nelle relazioni tra maschile e femminile, inteso sia come controsessuale che come intersessuale, rilegando spesso la differenza ad intermezzo, passaggio dal positivo al negativo del negativo che è il positivo ancora, in un processo in cui la donna figura ancora come stampella anfetaminica di scalata all'onnipotenza. La strumentalità del femminile come intermezzo di carne e sorgente di amor di sé, come meravigliosa stampella carnale e psichica di un ordine primitivamente patriarcale, vale oggi in Italia per uomini maschilisti e femministi insieme. Peggio, vale anche per quel femminile che fa di tale stampella uno strumento per competere nel capital/Edipo. Su questa falla abissale poggia oggi un processo di rigenerazione divenuto oramai imprescindibile.
Il processo di distruzione e rinascita che oggi c'impone rapidamente di ripensare in termini anzitutto redistribuitivi una struttura sociale in crisi terminale, non può per un istante in più prescindere dal rimescolamento amoroso ed orgiastico del desiderio maschile e femminile insieme nelle moltitudini, fuori ed oltre l'ordine fallologocentrico cui l'hanno rilegato – rilegandovisi - compagni e padroni, sino ad una profonda rivoluzione delle relazioni affettive. Questo riguarda oggi tutti: donne e uomini insieme, rivoluzionari e potenti. Poco m'importa dei potenti, che la strada la faranno soli a partire dall'inferno. M'importa per amor di loro e di noi stesse di quei compagni con cui è giunta l'ora di muovere oltre l'impasse che rifiuta di parlare alla donna orizzontalmente e fuori l'intermezzo, per rinnegare dal basso una relazione con il femminile che troppo spesso ancora si fa orizzontale solamente nei letti.
Comincio dunque da una storia d'amore perchè essa è, al contempo, meravigliosa e straziante. Ancor più è simbolica del potenziale poeticamente terrorista del desiderio, un potenziale che dirompe dentro ed oltre il doppio legame che storicamente ha tratto forza dal bisogno psichico, sociale e politico di proteggere il maschile dall'“altro”, un bisogno figlio della società competitiva del capital/Edipo e la cui potenza immanente e libera sola può riportare la vita nostra e di tutti verso un nuovo dis/ordine sociale non più contraddittorio al desiderio. Il desiderio primordiale di trascendere sé che è insieme morte e rinascita, e che nel suo abbandonarsi per muovere oltre sé in un incontro con l'alterità è un processo meravigliosamente proletario, opta qui, nell'Occidente contemporaneo e barbarico, in un processo di protezione dell'esistente di fronte all'abisso del perturbante, una protezione che per meccanismi psichici e sociali ricorda la rimozione dell'altro dell'ordine autoritario fascista, e che così facendo nega la trasformazione economica, politica, affettiva e spirituale della società tutta. La forza costituente che si è a ragione e a diritto oggi imposta sul dibattito politico mondiale non può portar con sé i rimasugli del(lo) (piedi)stallo del maschile, del femminile e delle relazioni umane tutte, nè prescindere da un processo di distruzione e rinascita, anzi la sua prima vittima dovrà per forza essere quel bulimico moltiplicarsi del “more of the same”, quell'uno atrofizzato e mille vote decrepito che ancor oggi sopravvive come una malattia dalla finanza al pensiero sino ai letti, anzitutto in Italia.
Comincio dunque da una storia d'amore per comprendere che cosa significhi qui ed oggi “terrorismo” del desiderio, utilizzando come metafora introduttiva una relazione a due simbolica di ben di più di due, in quanto essa siede non solo alle origini della psicanalisi, ma anche, e per le stesse ragioni, all'origine della diffusione sociale delle sue manipolazioni, portando a un doppio legame con il femminile che trova espressione a un tempo nella triade proprietà, famiglia e stato, e nella doppia morale di una società il cui dissesto trova negli scandali ultimi solo il sintomo ultimo di tale triade, la punta di un iceberg costruito sopra un letto di marcio. Tento dunque una riflessione contorta, lacunosa e disagiata al fine ultimo di reinserire nella lotta l'amore.
 
2.
Sabina Spielrein e Carl G. Jung furono una coppia di amanti le cui vicende sono state raccontate qualche anno fa da Aldo Carotenuto, psicanalista di Napoli che per primo ha avuto accesso al carteggio di lettere scambiate, in quell'inizio novecento, dai tre psicanalisti.
Maledetta Felicità, gridava allora Carl Gustav Jung alla sua amante, Sabina Spielrein, in un momento di abbandono. La donna, bella, giovane ed intensamente perturbante, era stata dapprima sua paziente e poi la sua amante, infine una collega, pur rimossa dagli archivi della psicanalisi come ombra minacciosa nella scienza legittima di Freud e Jung. Maledetta felicità, gridava lui, dimenticando per un istante la moglie, la carriera e la società vittoriana di cui egli era magistrale simbolo. Quell'amore lo faceva acqua e vulnerabilità. Terrore, in altre parole, era per lui l'amor per lei, il cielo stesso e l'abisso, l'infinito e la propria infinita minuzia. Da questa intensa storia nascono lunghe pagine di psicanalisi, un pensiero che non a caso dispiega dalle relazioni tra gli esseri umani e che da tali relazioni viene parimenti, come ricorda Luce Irigaray, delegittimato.


Aldo Carotenuto ripercorre questa storia d'amore e le sue implicazioni nella teoria e nella pratica psicanalitica, implicazioni su cui ritornerò dopo. Diciamo solo che Jung ebbe in cura Sabina inizialmente come paziente. Lui era il suo medico e lei una donna straordinariamente bella, di un'espressività corporea grezza e dirompente. Lei era il perturbante, quel familiare che porta con sé come un oceano il magma dell'inconscio. Lui era un medico di grande promessa che adorava lei come di lei il transfert, l'onnipotenza di sé riflessa negli occhi di lei per cui lui, medico guaritore, era persona “potentissima che tutto può”. Declino in romanticismo le gerarchie di genere sottese al loro rapporto d'amore agli inizi, ma è ovvio che queste sono fondamentali: lui la conosce fragile e malata, e non è possibile negare che la passione di Jung per Sabina trovò sicurezza ed espressione proprio in questa vulnerabilità. Amare è dare ciò che non si è a qualcuno che non lo vuole, avrebbe detto Lacan, e la prima metà di quest'affermazione trova qui conferma: lui amava in lei la potenza propria che lei vedeva ed amplificava, enfatizzandone con la propria vulnerabilità il miraggio d'infinito, infinito che egli, non a caso, dubitava. Si può pensare dunque che il loro rapporto si sia sviluppato in una situazione di asimmetria acquistando tutte le connotazioni di un rapporto narcisistico, scrive Carotenuto, ed in un certo senso è così. Ma se togliamo Sabina dalla condanna storica all'intermezzo vediamo invece che lei, donna di sottile e sofisticata complessità, decifrava in lui ciò che egli stesso non riconosceva. Un po' come Dioniso amava di Arianna ciò che mai avrebbe potuto amare un Teseo, scriveva Nietzsche, così lei percepiva in Jung ciò che solo una sensibilità complessa poteva riconoscere, e con forza coraggiosa, la stessa forza dionisiaca che appunto fece poi di lei una rivoluzionaria, non smise di morire e rinascere le turbolenze di un sentimento che mai ebbe la viltà di rinnegare. “Diario di una segreta simmetria”, s'intitola non a caso il testo di Carotenuto, perchè l'amore avido e generosissimo di lei, coraggioso e commovente si affianca all'amore vile di lui, che nella viltà cercava segretezza e nel terrore rivelava dilagare.
Fu impossibile per Jung calarsi nel mondo di Sabina senza che questa si impadronisse di lui, scrive Carotenuto. “La seduzione è come un gas inodore inalato, i cui effetti si avvertono soltanto quando l'avvelenamento è già avvenuto” (Carotenuto, 87). Il loro rapporto parla dunque di una conoscenza psichica profonda, che fu “la nascita di un dio che è come il profumo di Baudelaire, si può goderne ma non è mai completamente qui, è insieme corpo e negazione del corpo”. Su quell'infinità abissale, effimera e pervasiva s'infrangeva Proust, quando riconosceva nell'amore un essere che si estende a tutti i punti dello spazio e del tempo che esso ha occupato e occuperà, ma che egli non toccherà mai. Un amore disarmante e mai raggiungibile, dunque, infinito ed abissale come l'universo stesso ed in cui Jung naufragava in tutta l'umana minuzia.  
Troppa immensità dunque per un piccolo uomo? Verrebbe da dire di si, alle volte, volendo essere semplicistici, d'altro canto l'arte occidentale non dice che questo. “Ciascuno uccide le cose che ama, diceva Jeanne Moreau in Querelle de Brest di Rainer Werner Fassbinder: “alcuni uccidono l'amore da giovani, altri quando sono vecchi, chi lo strangola con la passione e chi con l'oro, i più gentili usano il coltello perchè il cadavere si raffreddi prima. Ciascuno uccide le cose che ama, alcuni amano poco altri troppo a lungo, alcuni lo vendono altri lo comprano, alcuni lo fanno piangendo altri senza neppure un sospiro. Così ogni uomo uccide le cose che ama, e nessun uomo muore”. Nessun uomo muore mentre uccide le cose che ama, anzi le uccide per sopravvivere. È questa la legge triste che ci ricorda Natoli e che cinicamente dovremmo forse tener presente.
Ma Natoli a parte, che pur con questa matrice ci spiega guerre e stermini, così ci dicono anche R.D.Laing e Pasolini, Baudleaire e Jorge Enrique Adoum, Pessoa e Derek Walcott. “Dimenticherò il sentire, disimparerò il mio dono. E' più grande e arduo questo, di quanto là passa per vita”, scriveva Walcott. Disimpariamo il sentire, sono molti gli uomini che hanno parlato con certo compiacimento dei benefici della rinuncia. E come loro, così faceva Jung. Jung era in difficoltà: “Il mio animo è lacerato sino nel più profondo […] Saprà perdonarmi di essere così come sono?  [...] Lei saprà capire e accettare che sono una delle persone più deboli e incostanti?” “Queste esperienze […] hanno scatenato l'inferno in me”, scriverà lui. E così Jung combattè lei, se stesso e la loro relazione per tutta la vita,  rifuggendola, umiliandola. Ne scrisse a Freud, che commenterà le “astuzie psichiche inimmaginabili” di queste donne (Carotenuto, 121), prima di essere a sua volta conquistato dall'intelligenza sensibile e brillante della Spielrein. Jung ne scriverà poi alla madre di Sabina, chiedendole un “adeguato onorario” per le visite alla figlia, perché “non avendo mai preteso un compenso, non mi sento impegnato come tale” (Carotenuto, 121). Il denaro rappresenta allora lo strumento vile di continenza cui aggrapparsi per limitare il proprio tormento, onorario che insieme al concetto di controtransfert intendeva riportare entro valori vittoriani un desiderio dirompente. Aveva paura, Jung, e si sentiva minacciato: ho paura del “destino che mi minaccia”, “paura per il mio lavoro”, per “il mio obiettivo di vita” (Carotenuto, 120). Jung pregò dunque Spielrein di aver compassione per lui, di rendergli un po' di quell'aiuto che lui le aveva dato. Fatto sta che l'amore tra i due diviene lentamente aborto. Sabina si allontana, ma non porterà mai, come dirà Freud “alla luce l'odio che gli si addice", né distruggerà l'idolo. Continuerà ad amarlo, ma i due si perderanno gradualmente. Che cosa terrorizza Jung di Sabina? È questa la domanda cui Carotenuto cerca di rispondere con lunghissime pagine. Ma la domanda è più ampia, e ha a che fare con gli aborti del desiderio, a partire dal maschile singolare, sino alle sue cause e alle sue implicazioni.
Partiamo dunque da Sabina, in quanto la storia ne ha compreso la grandezza, ma il ricordo di lei rimane sempre inter-detto dai padri. Parafrasando Luce Irigaray, potremmo dire che Sabina è inter-mezzo, stretta dai padri della psicanalisi e di quelli il negativo, l'inverso, il contrario, forse addirittura il contraddittorio. Le parole della Irigaray si sposano meravigliosamente con il caso Spielrein, perchè lei è forse addirittura il simbolo di questo perverso gioco tra scienziati: carne, cuore e mente di una storia che lei non ha mai scritto, né è stata autorizzata a scrivere, inter-posta tra due uomini, cerniera nella loro relazione lacerata dal tentativo di controllare il potere e il sapere (Irigaray, 17), Sabina era fuori potere, fuori gioco, fuori io e fuori linguaggio. Sabina si forma nelle parole di Jung, il linguaggio di lui diventa la vita di lei, da paziente a psicanalista. Lui è linguaggio e lei è il significato, il contenuto, la teoria, l'amore, ciò che gli dà vita. Nonostante il suo contributo alla psicanalisi (o appunto per quello), Sabina sarà dunque il rimosso, il rimosso dell'affettività di Jung, il rimosso della storia, il rimosso della psicanalisi. Per tutto questo Sabina “non è”. Torna a mente ancora Lacan, Sabina non è e la relazione non c'è, e non c'è relazione perchè non c'è Sabina. Per Jung Sabina è anima e ombra. Jung concettualizzò dopo l'incontro con Sabina un'idea di Anima di derivazione kantiana indagabile dalla psicologia empirica. L'immagine dell'anima è per Jung la donna nell'inconscio dell'uomo, è l'alterità, il femminile, in altre parole è la modalità eterosessuale interna con cui Jung vuole indicare l'immagine controsessuale inconscia presente in ogni essere umano. “Ma non solo il concetto di anima, bensì anche il concetto di ombra - la personalità repressa, inconscia, autonoma - risale alla Spielrein” (Carotenuto, 40). Sabina è anima e inferi, e così il femminile scompare nel metafisico, diviene l'oggetto trascendentale che da Kant a Hegel ha cancellato l'empiricità della donna facendone un oggetto animico e il suo contrario. L'anima sposta sul piano del metafisico o del destino una donna invece immanente, in carne ed ossa, qui ed ora, oltrepassandola, senza ricongiungervisi mai se non in modo tarslato in un doppio legame con la bulimia del corpo. Sabina per Jung è traslata, è continuamente sfocata, non è mai sullo stesso piano.
Così come Emma Goldman avvisava che maggiore è la crescita della donna e meno possibile sarà per lei essere riconociuta dall'altro non solo come corpo ma come “quell'individualità forte che non può né deve perdere un singolo tratto del proprio carattere”, ugualmente Sabina diveniva gestibile solo traslata, dissezionata o deformata. Ecco che Sabina era gestibile sino a quando la malattia le conferiva un'identità vulnerabile, allora la piccola Sabina poteva essere lo specchio immanente del desiderio di Jung. L'emancipazione di Sabina e del suo desiderio rende invece la sua immanenza debordante, e Jung ha paura.
“Per molto tempo, ho sempre sentito con diffidenza la parola amore”, scrive Jung. Il sentimento legato alla donna fu per molto tempo di naturale sfiducia. Padre significava per me qualcosa di cui ci si può fidare”. Ma non così fu per madre o donna. Jung equipara l'Anima alla Madre, simbolo di ciò che avvolge e al tempo stesso soffoca e minaccia. La caverna, dal mito di Platone origine corporea del feto nell’utero materno, diviene nel complesso di svezzamento di Lacan un trauma che obbliga alla “rottura di contiguità con l'interno del corpo della madre”. Il maschile cercherà sempre di ritornare nella caverna e vivrà come un trauma “il distacco dalle membrane che avvolgono il feto, il distacco dal cordone ombelicale, il distacco dall'allattamento”. Ma la sfiducia, il desiderio continuamente frustrato della caverna come luogo di riconciliazione tra espansione e protezione non trova consolazione nel mondo. L'alveo della famiglia, prigione per marito e moglie protegge ma non espande. L'amante espande ma non protegge. La relazione con la donna diviene così biforcazione e doppio legame, e si “risolve” nella storia occidentale da un lato nell'apologia alla famiglia e nella triade proprietà privata famiglia e stato, e dall'altro nella penetrazione bulimica di corpi da questa inscindibile. Questo doppio legame psichico ed emotivo del maschile al femminile, privo di libertà e perfettamente inserito nel capital/Edipo, non trova entro quest'ordine risoluzione, né peraltro potrà mai trovarlo, anzi riproduce ancora una volta e trasversalmente l'esisistente con le sue prigioni.
Il rapporto di Jung con Sabina si risolve dunque in un doppio legame che biforca il sentimento e lo trasla: Sabina si troverà così spesso a incarnare la madre, la sorella, la donna amata, la dea celeste e la strega infernale, l'amata e la minaccia, la fata e la strega. Lei diventa i fantasmi di lui, ed in questa traslazione vive non solo l'incapacità di lui di rispondere a tutti i piani di lei, ma un rischio di disintegrazione per Sabina. Il doppio legame di Jung è per Sabina tenaglia: la disintegrazione colpevolizzante che lui opera di lei rischia di frammentarla. L'amor di lei per lui confronta Sabina e si fa disgregante mettendo a rischio Sabina per intero, la sua immanenza nuda impreparata a difendersi dal guaritore. Sabina è in una morsa. Scapperà, diverrà psicanalista lei stessa e si sposerà, ma la sua è una liberazione inconclusa, in parte vestita di catene. Così lei seguirà le orme di lui e lo ripercorrerà per riappropriarsi di sé. Indomita Sabina, della sua fine si sa solo che la sua foga di libertà fu uccisa dalla mano della repressione stalinista.
Indomita Sabina, e Jung? È un problema il desiderio di Sabina, identificato su Jung quasi a evidenziare la paura di sperdimento che lei ha a pensare la disconnessione. Lei l'ha incontrato perduta, e non riesce a dimenticare che l'unica sua casa fu lui. Il problema volendo in questo caso si fa più ampio e diparte nel linguaggio: come diceva Spivak, if we are not who they say we are, then who are we and who are we not? Ma proprio perchè l'identità è ironicamente inscindibile dalle relazioni, il problema è anche il desiderio di Jung. Jung infatti si dispera e perde la ragione. "L'amore di Sabina per Jung ha reso conscio qualcosa che prima egli presentiva solo in modo confuso, cioè come potenza che determina il destino dell'inconscio, potenza che nel loro caso, nel riflettersi delle loro anime doveva essere sublimato o avrebbe portato alla concretizzazione dell'inconscio” (Carotenuto, 141).
Jung analizza il suo desiderio, lo riallinea alla famiglia, lo traspone metafisicamente, lo trasla e lo biforca in mille tentativi di depotenziarlo, di salvarsi la pelle. Jung è esposto ad un magma di inespresso, un fantasmagorico miscuglio d'ombre senza forma, e non sa che fare. Sabina risveglia in lui un desiderio rivoluzionario e distruttivo, gravido potenzialmente di creazione. Ma confrontarsi con il proprio desiderio significa esserne minacciati: minacciare moglie famiglia morale professione, la sua immagine di sé. Vacilla, Jung, e la odia. La odia perchè il desiderio di lei mina la stabilità di lui. Maledetta felicità, grida tant'è, in modo quasi disperatamente tenero. E poi ignora, trasla, frammenta. Come un neonato ricorre alla madre, ai simboli e agli archetipi. Ricorre all'autoanalisi per conoscere il suo inconscio oppure il suo demone interiore, come lui lo chiama. E poi fugge, fugge il terrorismo del desiderio e neutralizza Sabina. La uccide interiormente per continuare a vivere.
Jung preferisce non sentire. Torna alla mente quella lunga letteratura che vede malinconicamente consolare il maschile della propria inadeguatezza rispetto al desiderio. Sixto Vazquez Zuleta Toqo, poeta indigeno argentino, supplica ghiaccio nelle vene per gelare il desiderio, o il suo piedistallo diventerà pozzo. Pessoa chiede non l'amore ma i suoi dintorni, perchè possedere significa essere posseduti e “sciuparsi”. È lunga la lista degli uomini che preferirebbero farsi masso piuttosto che cedere a un languore perforante, perchè almeno l'assenza di desiderio consente di stare interi e verticali. Meglio proteggere l'interezza, meglio rinnegare la vulnerabilità. Ecco che Hegel usa la negazione solo ai fini di ristabilire l'universalità dell'uno, ed il femminile come contraddizione da togliere ai fini del ristabilimento della prima immediatezzza, o della semplice universalità, così da rifugiarsi di nuovo ed immediatamente nell'altro dell'altro, nel negativo del negativo che è il positivo, nell'identico, nell'uniersale (Hegel, 948-949).
Emerge qui una contraddizione vile ed alienante in quanto paradossalmente la psicanalisi fa proprio questo: isola il desiderio dalla morale come bandolo che libera la vita, ma la scoperta della libido come fattore vitale dirompente viene ripiegata dagli stessi scopritori nel familismo dell'esistente, generando così un cortocircuito. “La psicanalisi opera così un riallineamento del desiderio entro i recinti del “Capitale/Edipo”, scrivono Deleuze e Guattari, che la riporta nel passato cupo dell'esistente. Ecco che il rapporto col desiderio diviene contraddittorio: riportando “il complesso familiare stesso nel trasnfert o nel rapporto paziente-medico”, scrivono Deleuze e Guattari, la psicanalisi fa della famiglia un certo uso intensivo [e la rende] il gradimetro delle forze di alienazione e di disalienazione (Deleuze e Guattari, 103). Riallineando il desiderio alla famiglia o a metafisici archetipi, Jung trasforma così l'apertura in un eterno ritorno, il desiderio in malattia e l'ordine in salvezza. Ecco preservata l'interezza, e il potenziale trasformativo del desiderio viene riportato all'esistente. Parafrasando Foucault, e per giungere al nocciolo della questione, si potrebbe dire che Jung non fa altro che difendere il rapporto malato - medico, ovvero il proprio ruolo di guaritore nella relazione con Sabina ed oltre la relazione con Sabina. Jung uccide Sabina per salvare il proprio piedistallo. Si riproduce qui quel vecchio uno nel quale il desiderio voleva violentemente irrompere rivoluzionandolo. Ma la trasformazione richiede una rivoluzione interiore, e Jung scappa. Si aggrappa al piedistallo, si rifugia in un antro leggero e capitalizza la propria debolezza. “Il magnetismo di Jung per tutti i tipi di donne nevrotiche era rimarchevole”, scrive Carotenuto. “Una parte del segreto di Jung consisteva nella forte partecpazione emotiva con donne che erano o si sentivano non capite. Senza dubbio la sua estrema vulnerabilità femminile contribuì al suo sex-appeal (Carotenuto, 86). Fatto sta che Jung passa il resto della sua vita tra gli archetipi e le giovani seguaci. Soffoca il potenziale dirompente del desiderio, muore dell'implosione interiore della sua potenza. Cerca indifferenza e probabilmente (non) la trova.
Che cosa spaventa Jung? “E' assolutamente spiacevole dover dire cose così rudimentali: il desiderio non minaccia una società perchè è desiderio di andare a letto con la madre, ma perchè è rivoluzionario. E questo non significa che il desiderio sia qualcos'altro rispetto alla sessualità, ma che la sessualità e l'amore non vivono nella camera da letto di Edipo, sognano piuttosto il mare aperto e fanno passare strani flussi che non si lasciano immagazzinare in un ordine stabilito” (Deleuze e Guattari, 129). È nell'incontro con la vulnerabilità evocata dal desiderio che siede il terrore di Jung. Il desiderio infatti “non vuole la rivoluzione, è rivoluzionario da sé e involontariamente, volendo ciò che vuole” (Deleuze e Guattari, 129). Il desiderio è rivoluzione in senso stretto, null'altro è il desiderio se non questo. In questo senso il desiderio non è bisogno, non è sopperibile attraverso un processo di addizione o di integrazione, il desiderio necessariamente distrugge. Disintegra, rigenera, rivoluziona. Disintegra perchè esercita la sua potenza a partire dal raggiungimento costituente della crisi. È la potenza del desiderio ciò che sconvolge Jung. Lo spiega la Spielrein: “la libido ha due aspetti”, scriveva Sabina nel 1912: “essa è la forza che tutto abbellisce ma all'occasione tutto distrugge” (Spielrein, p. 133). Si capisce la resistenza emotiva di Jung di fronte alla distruzione. La crisi di Jung non nasce dai limiti che egli pone al desiderio, ma dai limiti che il desiderio pone a lui. È una minaccia potenzialmente feconda, quella del desiderio, ma solo potenzialmente. Il desiderio non promette niente. Il desiderio è un terrorista. È un veleno d'oppio che ci accompagna inconsapevolmente sino alla crisi, nel tunnel intermittente di vita e morte, di mondo e finimondo ove il soggetto deve dominar se stesso e poi aprire aldilà del conosciuto. Dentro la crisi non c'è strada da seguire. Ci sono buio ed inferi, fantasmi e ricordi che danzano con un ghigno di profumo ed inganni. Qual è la strada – non c'è. La strada unica è quella dolce dell'abbandono al rischio della distruzione. È lì che il desiderio si fa fecondo. Forse. Forse, perchè il desiderio chiede tutto ma non promette mai. Qui sta la bellezza del desiderio femminile libero, secondo Sabina: “una donna che si abbandona alla passione […] sperimenta solo troppo presto l'aspetto distruttivo”. La meraviglia proletaria del desiderio di lei sta proprio dunque nella disponibilità all'abbandono: Sabina morirebbe mille volte nel suo desiderio. Jung invece non lo fa. Si rifugia nel privilegio e cerca pace.
 
3.
Eccoci dunque arrivati a dove la questione si diparte da Jung e Sabina, e diventa una questione politica. Il desiderio represso si esprime infatti nell'esistente, nel famoso capitale/Edipo, nella competizione del maschile e nella negazione del perturbante. Fa un errore forse la psicanalisi a riallineare in termini familistici il desiderio nel capitale/Edipo, ma fa né più né meno di ciò che ha fatto la storia, salvo sublimi eccezioni. La competizione e la castrazione come conseguenze della necessità di proteggere l'Io dalla sua crisi vanno ben aldilà della romanticissima relazione tra Sabina e Carl. Vanno alle radici del rapporto del maschile con il desiderio, ed ai conflitti che esso genera. Il rapporto del maschile con il desiderio è infatti importante per almeno due ragioni. Primo, perchè il desiderio oppresso si vendica. Secondo, perchè si vendica sulle donne e sulle relazioni umane tutte.
I compagni di Maschile Plurale ragionano esattamente su queste questioni, evidenziando la resistenza al vulnerabile nel maschile performativo. A me interessa qui invece la questione politica, ovvero mi interessano le conseguenze politiche dell'interdizione delle funzioni desideranti nel maschile. Perchè “del maschile”: perchè storicamente il maschile è stato luogo di privilegio, e come nel caso di Jung, dal privilegio è disceso spesso, per viltà ed opportunismo, il ripiegamento del desiderio nell'esistente ed il ricorso quasi sistemico al femminile come intermezzo. Con tutte le contraddizioni del caso, il desiderio inteso come forza rivoluzionaria assume nel femminile un potenziale dirompente antiteticamente meno negoziabile del desiderio maschile, ed una carica erotica la cui riappropriazione fuori ed oltre l'intermezzo è ciò che di più potente esiste al mondo. Su questo voglio tornare, ma per ora desidero ragionare sul modo in cui il ripiegamento del desiderio nell'esistente ha aperto alla vendetta sulla differenza: il desiderio imbestialito dei militari in guerra, il desiderio degli orchi di Arcore per meraviglie adolescenti opportunisticamente conformate al patologico, l'italiano su due che trivella a pagamento vita dalle donne, quelle stesse donne che puntano dall'intermezzo al potere maschile: che cos'è tutto questo se non un desiderio perfettamente inserito nel capital/Edipo che estrae gasolio per competizione dalle relazioni con l'altr@?
La parte delicata è che tale ripiegamento sfocia inevitabilmente non solo nella ricerca del potere, ma anche della sottomissione. Le due cose del resto sono inscindibili: il piedistallo di Jung che cos'è se non l'incapacità di rapportarsi orizzontalmente a Sabina? Ma questo punto è controverso in quanto dall'osservatorio del corpo femminile, sui piedistalli vive solamente il potere. Ecco che la questione diventa delicata, perchè non solo ovunque c'è un piedistallo non vi è nulla di orizzontale, ma perchè dal piedistallo discendono pratiche oppressive che trascendono le identità politiche e da destra come da sinistra introducono egualmente nelle relazioni affettive germi di terrore.


Ne parla in modo suggestivo Theweleit, il cui studio è interessante qui non tanto per i risultati quanto appunto per le suggestioni. Theweleit riflette sull'interdizione delle funzioni desideranti nel fascista. Il fascista non è completamente nato, scrive Theweleit. Le sue funzioni desideranti sono interdette nell'armatura dell'io esternalizzato che quello costruisce. Con disciplina il fascista esclude rigorosamente dal proprio mondo esterno tutto ciò che da dentro minaccia dissoluzione. Ecco che la psiche fascista concepisce il mondo attraverso una serie di opposizioni dialettiche nelle quali nega di volta in volta il femminile, l'altro, il nomade, il migrante, il morbido, il tenero, il brulicante, ovvero tutto ciò che minaccia hegelianamente di volta in volta la possibilità di dissoluzione di sé, negando continuamente il diverso dentro e fuori sino a ripiegare ferocemente nella moltiplicazione dell'uno. Con mille semplificazioni, il rifiuto dell'altro si esprime qui con la costruzione di meccanismi di aggressività perfettamente inseriti nel quadro competitivo del capital/Edipo, in una infinita ripetizione dell'uno che infondo non disegna altro che schematicamente la meccanica stessa della storia del capitalismo. L'uomo bianco ha lavorato per secoli alla moltiplicazione infinita dei pani e dei pesci sino alla saturazione dei mari e dei pesci. Ha corso contro ai competitori e alla minaccia di castrazione dei minareti (cito Borghezio). Ha risolto la propria saturazione con la moltiplicazione compulsiva della saturazione stessa, moltiplicando problemi e debiti sino a che la crescita si è fatta declino e a pioggia ha restituito declino al mondo. È patetica la prevedibilità moltiplicatrice e compulsiva dei dittatori, come patetico è il loro terrore, l'apparato repressivo e competitivo di cui solo sono capaci. Il problema vero però è che se la riproduzione dell'uno nasce dalla paura dell'altro, allora nelle relazioni attuali tra maschile e femminile prolifera il fascismo.
Partiamo dall'ovvio:“faccio una vita terribile, ho orari disumani. Sono una persona giocosa, se ogni tanto sento il bisogno di una serata distensiva come terapia mentale [...] nessuno alla mia età mi farà cambiare stile di vita del quale vado orgoglioso''. Così dichiarava Berlusconi sul caso Ruby. Similmente Tony Blair definiva le amanti come uno strumento per uscire dalla"prigione del self control”, e noi donne ben sappiamo come storicamente la consolazione del maschile all'inettitudine che inevitabilmente nasce dalla competizione nel capital/Edipo sia passata sui nostri corpi. Passi ora la minuzia dei dittatorelli che giocano a fare la guerra e poi supplicano a pagamento le donne di consolazione: il problema serissimo è che l'utilizzo della donna come stampella si estende a tutte le fasce sociali, incluse quelle oppresse o quelle colte.
Fa male ammetterlo, ma la ricerca di empowerment non a caso così detto sul corpo dell'altro tradisce spesso un reinvestimento del desiderio nella competizione con/tro i potenti, ove l'ambiguità del trattino introduce nel desiderio un doppio legame con il piedistallo dei potenti da una parte ed il femminile dall'altra. Doppio legame del desiderio significa da un lato deriva autoritaria nei rapporti del maschile con il femminile, e dall'altro competizione con/tro il potere per il potere, in una relazione antinomica che minaccia di trasformare l'impeto rivoluzionario in una forza autoritaria.  In questo senso, scriveva Foucault, “un investimento inconscio di tipo fascista, o reazionario, può coesistere con l'investimento conscio reazionario” (Foucault, 116), il che significa peraltro che si possano “perfettamente concepire delle rivoluzioni che lascino per l'essenziale intatte le relazioni di potere che avevano permesso allo stato di funzionare” (Foucault, 17). Ecco che la discriminante tra potenti e rivoluzionari, generalmente assai più ambigua nei prodromi che nelle conseguenze, si rende spesso facilmente manifesta sul corpo delle donne.
Qui servono una specificazione e una parentesi. Si fa infatti un gran parlare in questi giorni della supposta contrapposizione tra la mercificazione dei corpi a destra e la libertà dell'amore a sinistra. Ma tolto il fatto che in questo mondo non ci sono libertà né amore, e dunque l'argomento è miope o quantomeno ingenuo, il punto è che la sessualità è intrisa di potere. Ecco che la contrapposizione tra mercificazione o libertà, tra innocente femminile e maschile autoritario, tra libertario e moralista o tra rivoluzionario e potente viene sempre a cadere, in quanto tutte queste identificazioni rimangono inserite nel cortocircuito del capital/Edipo. Il bandolo oltre al cortocircuito in questo senso non può coincidere nè con l'identità nè con la morale. Il bandolo risiede solo nella necessità di spostare il discorso dalle categorie di identità politica o di morale alla categoria unica di desiderio. Il problema infatti non è dove avviene il ripiegamento del desiderio nel capitale/Edipo. Il problema è che avviene. Il problema non è che una figlia di migranti tenti la scalata al potere trasformando una stampella tappezzata di diamanti nel punto più alto (o più basso) dell'immaginario femminile. È che il ripiegamento del desiderio entro l'esistente contraddice sempre la produzione di nuove corrispondenze tra sessualità e desiderio, tra desiderio e vita, e ripiega così il desiderio in una forza oppressa tanto a destra quanto a sinistra, tanto tra le donne quanto tra gli uomini, tanto tra i potenti quanto tra i compagni. Ma se i potenti come vampiri vivono della riproduzione dell'esistente, per tutti noi questo diventa invece una problematica contraddizione.
Tornano qui puntuali le famose parole di Wilhelm Reich: perchè sopportiamo da secoli lo sfruttamento, l’umiliazione, la schiavitù, fino al punto di volerli non solo per gli altri, ma anche per noi stessi? […] Perchè coloro che soffrono la fame non rubano sempre e coloro che vengono sfruttati non si ribellano? “Le masse non sono state ingannate, esse hanno desiderato il fascismo in un determinato momento, in determinate circostanze, ed è questo che bisogna spiegare, la perversione del desiderio gregario” rispondono Deleuze e Guattari (Deleuze e Guattari, 32). Il ripiegamento sul piedistallo o sull'intermezzo come compensazione per l'assenza di libertà, qualunque sia l'identità politica o di genere che lo produce, reinserisce il desiderio nel capital/Edipo e lo costringe all'interno degli stessi confini di cui brama il varco. È questa la perversione del desiderio di cui parla Guattari. E la causa di questa perversione non ha nulla a che fare con la morale. È perversa solo in quanto controrivoluzionaria.
Come si libera la fantasia del desiderio dopo decenni di ripiegamento nel capitale/Edipo vestito nei due sessi? È questa la domanda.  E lo scarto sta esattamente nella scelta tra l'abbandono di sè alla potenzialità distruttiva del desiderio immanente, e l'abbandono del desiderio per il salvataggio dell'esistente. È lì che la differenza diviene nemica o complice. La relazione con la differenza è l'angolo nel cui rovesciamento l'interdizione delle funzioni desideranti verso il femminile, l'altro, il migrante, il morbido, il tenero, il brulicante, si scioglie in caosmosi proliferante. Il rovesciamento di quest'angolo trasforma la verticalità dell'uno in molteplicità orizzontale e promiscua. Ecco che il segreto sta nella potenza che si libera dall'incontro con l'altro inteso tanto come intersessuale e controsessuale. È in questo incontro che il desiderio si fa costituente, nella trasformazione in potenza della nudità vulnerabile condivisa. A favore di Jung dobbiamo dunque dire che affatto semplice è l'abbandono alla vulnerabilià che il desiderio rende manifesta: “Questi uomini del desiderio (oppure non esistono ancora) sono come Zaratustra. Conoscono incredibili sofferenze, vertigini e malattie. Hanno i loro spettri. Devono reinventare ogni gesto. Ma un tal uomo si esibisce come uomo libero, irresponasbile, solitario e gioioso, capace infine di dire e di fare qualcosa di semplice in nome proprio, senza chiedere il permesso, desiderio che non manca di nulla, flusso che supera gli sbarramenti e i codici, nome che non designa più alcun io” (Deleuze e Guattari, 146-147).
È  oltre l'io che il desiderio diviene rivoluzionario. È nel passaggio oltre il singolare,  nella compenetrazione del maschile nel femminile e del femminile nel maschile ed in questa miscela  molteplice che si schiude la potenzialità costituente del desiderio. Il desiderio teme il superamento della crisi di sperdimento che si manifesta al limite dei propri confini, e nel contempo brama la penetrazione catartica nell'intermittenza orgasmica dell'ignoto. Così, risalendo lentamente l'ignoto dell'altro interno, si schiude la sorgente della forza dolce che si annida nella carezza del cuneo più doloroso dell'essere umano. Quella sorgente sola può aprire alla potenza sublime del desiderio immanente. La meraviglia orgasmica del desiderio immanente sta esattamente qui, nella disponibilità all'abbandono dolce alla distruzione dell'ordine che restituisce fecondità alla terra penetrando delicatamente gli inferi di una crisi nel cui buio solamente il profumo del desiderio diviene direzione. L'abbandono all'incontro con la nudità è la speranza nella quale vive il futuro: è lì, nel fare l'amore con il desiderio d'altro e dell'altro che si rimescolano di curve i verticalismi intermezzati e dialettici del vecchio potere maschile e che la molteplicità del desiderio tenero e vulnerabile delle moltitudini diventa una forza costituente.
Non dunque nel maschile singolare o nel femminile singolare trova soluzione il terrore che vive nelle relazioni affettive. Bensì “oltre l’io il soggetto esplode in tutto l’universo storico, il delirante incomincia a parlare lingue straniere, soffre di allucinazioni che modificano la storia; i conflitti di classe o le guerre diventano gli strumenti dell’espressione di sé” (Deleuze e Guattari, 147). Solo oltre l'io rinascono intrecciate le relazioni e la storia d'amore tra Sabina e Jung trova libertà. Oltre l'io la bomba di terrore misto a fecondità esplode in un fuoco d'artificio di miele. Nulla più ha importanza allora. La rivoluzione diventa un orgasmo d'amore in cui fiorisce proliferante la fantasia molteplice.
 
Bibliografia

A. Carotenuto, Diario di una Segreta Simmetria, Astrolabio, Roma, 1980.
G. Deleuze e F. Guattari, L'Anti-Edipo, Einaudi, Torino, 1975.
M. Foucault, Microfisica del Potere, Potere-Corpo. Einaudi, Torino, 1972.
F. Hegel, Scienza della Logica Libro III, Laterza, Bari, 1968.
L. Irigaray, Speculum, Feltrinelli, Milano, 1975.
W. Reich, Psicologia di Massa del Fascismo, Mondatori, Milano 1977.
S. Spielrein, La distruzione come causa della nascita, in: Giornale Storico di Psicologia Dinamica, vol. 1, n. 1, 1977.

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