menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"
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martedì 10 luglio 2018

Lenin e la situazione rivoluzionaria - By Renato Caputo

Lenin e la situazione rivoluzionaria

È il fine stesso della lotta rivoluzionaria a imporre gli strumenti necessari per la sua realizzazione.

Lenin e la situazione rivoluzionaria 
Sebbene nessuno possa, necessariamente, sapere a priori se le condizioni rivoluzionarie oggettive si tradurranno in atto, il compito fondamentale dell’avanguardia – abdicando al quale perderebbe la propria ragione d’essere – è secondo Lenin: “svelare alle masse l’esistenza della situazione rivoluzionaria, mostrarne l’ampiezza e la profondità, svegliare la coscienza rivoluzionaria del proletariato, aiutarlo a passare alle azioni rivoluzionarie e creare organizzazioni corrispondenti alla situazione rivoluzionaria” [1], dal momento che in tali momenti risulta decisiva, in primo luogo, “l’esperienza dello sviluppo dello stato d’animo rivoluzionario e del passaggio alle azioni rivoluzionarie della classe avanzata, del proletariato” [2]. In ogni caso l’avanguardia potrà adempiere al proprio compito solo tenendosi pronta all’evenienza che si produca una situazione rivoluzionaria, anche perché, spesso, come insegna la storia, essa si viene a creare per “un motivo ‘imprevisto’ e ‘modesto’, come una delle mille e mille azioni disoneste della casta militare reazionaria (l’affere Dreyfus), per condurre il popolo a un passo dalla guerra civile!”[3].
Il partito rivoluzionario, per poter affrontare dei mutamenti repentini del corso storico indipendenti dalla propria volontà e che possono sfuggire alla propria capacità di previsione, deve essere addestrato ad utilizzare ogni forma di lotta, sapendo di volta in volta selezionare la più adeguata alla fase. Così, ad esempio, la Rivoluzione di Febbraio si è imposta, in una situazione di partenza molto arretrata, ovvero il dominio dell’autocrazia zarista, proprio grazie al suo aver coinvolto, in modo interclassista, ceti sociali anche molto differenti fra loro come la media e alta borghesia liberal-democratica e il proletariato urbano egemonizzato dai socialisti. Dunque, come chiarisce a questo proposito Lenin, “se la rivoluzione ha trionfato così rapidamente e in modo – apparentemente, al primo sguardo superficiale – così radicale, è soltanto perché una situazione storica singolarmente originale ha fuso insieme, e con un notevole grado di ‘coesione’, correnti del tutto diverse, interessi di classe eterogenei, aspirazioni politiche e sociali del tutto opposte” [4].
D’altra parte, generalmente, l’avversario di classe è sempre pronto ad avvalersi di qualsiasi mezzo utile, anche il più turpe, quando vede messi in discussione i propri privilegi. Così, come ricorda Lenin, “nella lotta contro il socialismo essi sono ricorsi a tutti i mezzi di cui disponevano, hanno utilizzato la violenza, il sabotaggio e hanno trasformato anche ciò che è il grande orgoglio dell’umanità – il sapere – in un’arma per lo sfruttamento del popolo lavoratore” [5].
Del resto non può che essere il fine stesso a imporre gli strumenti di volta in volta necessari per la sua concreta realizzazione. Così, ad esempio, più si avvicina, tramite lo sviluppo della coscienza di classe del proletariato, il momento dello scontro frontale, della guerra di movimento, più diviene necessario trovare la giusta dialettica ossia, per dirla con Lenin, “l’importanza della combinazione della lotta legale con la lotta illegale. Questo problema assume un grande significato sia generale che particolare, perché in tutti i paesi civili e progrediti si avvicina con rapidità il tempo in cui questa combinazione diventerà – e in parte è già diventata – sempre più impegnativa per il partito del proletariato rivoluzionario, per effetto del maturare e dell’avvicinarsi della guerra civile del proletariato contro la borghesia, per effetto delle furiose persecuzioni contro i comunisti da parte dei governi repubblicani, e dei governi borghesi in tutti i modi (l’esempio dell’America vale per tutti)” [6].
Dunque, quanto più ci si approssima al momento dello scontro finale fra oppressi e oppressori, tanto più tende ad aumentare la repressione violenta degli apparati dello Stato e la feroce persecuzione delle avanguardie dei subalterni, che impone al partito rivoluzionario di combinare i consueti strumenti di lotta legali con i mezzi illegali. Proprio perciò la possibilità, quasi sempre remota, di poter battersi per le proprie idee sul piano della dialettica politica, può comportare la momentanea rinuncia ai metodi generalmente necessari alla realizzazione della rivoluzione.
D’altra parte il pacifismo, la nonviolenza, in una società divisa in classi rischiano di essere pie illusioni – fughe idealistiche dinanzi a una deplorevole realtà, un abdicare del proletariato al compito storico di porsi quale classe universale [7] e addirittura un abbandonare lo stesso programma di dura lotta concreta per le riforme e i diritti democratici agli opportunisti o all’intervento dall’alto del governo, che le concederà per passivizzare le masse. Dunque, a parere di Lenin, la non violenza e il pacifismo comportano, nei fatti, un’abdicazione alla lotta per le stessa riforme di struttura. “Noi sosteniamo – osserva a tal proposito Lenin – un programma di riforme che è anch’esso diretto contro gli opportunisti. Questi tali sarebbero ben felici se noi lasciassimo loro in esclusiva la lotta per le riforme e, fuggendo la triste realtà, trovassimo riparo sopra le nuvole, sulle cime d’un qualsiasi ‘disarmo’. Il ‘disarmo’ è appunto la fuga dalla deplorevole realtà e non un mezzo per combatterla” [8].
Tanto più che, generalmente, sarà possibile liberarsi dallo sfruttamento capitalista e dalle guerre imperialiste unicamente attraverso la tragica esperienza della guerra rivoluzionaria. Perciò Lenin contesta le teorie pacifiste, non violente e del disarmo in quanto solo apparentemente costituiscono l’opposizione più risoluta alla guerra e al militarismo, mentre in realtà sono la manifestazione propria dei filistei piccolo-borghesi “di restare estranei alle grandi battaglie della storia mondiale” [9]. Come ricorda Lenin “solo dopo che avremo rovesciato, definitivamente vinto ed espropriato la borghesia in tutto il mondo, e non soltanto in un paese, le guerre diventeranno impossibili” [10], solo allora infatti non vi saranno più guerre imperialiste, di classe o di liberazione nazionale.
Detto questo, rimane essenziale, per un rivoluzionario, sapere distinguere le diverse tipologie di guerra, anche per smascherare i tentativi dei revisionisti che, come Kautsky e Plechanov, magari utilizzando in modo improprio - estrapolandole dal contesto - citazioni dello stesso Marx, tendono a giustificare il sostegno dato dagli opportunisti alle proprie borghesie nazionali in occasione di guerre di natura imperialistica. Osserva a questo proposito Lenin, richiamandosi alla risoluzione finale dell’ultimo congresso della II Internazionale, prima dello scoppio della prima guerra mondiale: “la risoluzione di Basilea non parla della guerra nazionale, né della guerra popolare – di cui si ebbero esempi in Europa, e che furono anzi tipiche nel periodo 1789-1871 – e nemmeno della guerra rivoluzionaria, guerre alle quali i socialdemocratici non hanno mai rinunciato. Ma essa parla della guerra attuale che si svolge sul terreno dell’‘imperialismo capitalista’ e degli ‘interessi dinastici’, sul terreno della ‘politica di conquista’ degli ambedue gruppi di potenze belligeranti […]. Plekhanov, Kautsky e soci ingannano senz’altro gli operai, ripetendo la menzogna interessata della borghesia di tutti i paesi, che tende, con tutte le forze, a presentare questa guerra imperialista, coloniale e brigantesca come una guerra popolare difensiva (non importa per chi) e che tenta di giustificarla con gli esempi storici delle guerre non imperialistiche” [11].
Perciò Lenin non può che giudicare filistei quei socialisti che tentavano di giustificare il loro sostegno a una guerra imperialista sulla base del fatto che sarebbe una legittima guerra difensiva, quale difesa della propria patria occupata dall’esercito nemico: “per il filisteo l’importante è di sapere dove stiano gli eserciti, chi adesso abbia la meglio. Per il marxista è invece essenziale il motivo per cui si combatte una guerra concreta, durante la quale possono risultare vittoriosi questi o quegli eserciti” [12]. Anche perché, pure le masse prive di coscienza di classe danno credito alle giustificazioni che i revisionisti tendono a dare del loro schierarsi con le borghesie nazionali nella guerra imperialista, richiamandosi a un sedicente “difensismo rivoluzionario”. In tal modo, in effetti, le masse non comprendono il legame che c’è fra il capitalismo, in particolare nella sua fase di sviluppo imperialista, e la guerra e rischiano di cadere nell’illusione dei pacifisti per cui sarebbe possibile giungere a una pace giusta e duratura, senza aver prima rovesciato l’imperialismo.
“Data l’innegabile buona fede di larghi strati di rappresentanti delle masse favorevoli al difensismo rivoluzionario, che accettano la guerra solo come la necessità e non per spirito di conquista, e poiché essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna spiegar loro con particolare cura, ostinazione e pazienza l’errore in cui cadono, svelando il legame indissolubile tra il capitale e la guerra imperialistica, dimostrando che è impossibile metter fine alla guerra con una pace veramente democratica, e non imposta con la forza, senza abbattere il capitale” [13]. Perciò Lenin critica quelli che definisce i social-pacifisti, ovvero coloro che pur dichiarandosi socialisti portavano avanti una linea pacifista che, come mostra Lenin, è inconciliabile con il socialismo rettamente inteso. “Ecco l’argomento essenziale: la rivendicazione del disarmo è l’espressione più chiara, risoluta e conseguente della lotta contro ogni militarismo e ogni guerra. Ma proprio in quest’argomento essenziale risiede l’errore fondamentale dei fautori del disarmo. I socialisti a meno che cessino di essere socialisti, non possono essere contro qualsiasi guerra. In primo luogo, i socialisti non sono mai stati e non potranno mai essere avversari delle guerre rivoluzionarie” [14].
Proprio per questo Lenin critica, severamente, le parole d’ordine che proclamano il disarmo in una condizione in cui il mondo è ancora essenzialmente sotto il dominio di paesi imperialisti. La tendenza, che Lenin giudica meschina, degli Stati di piccole dimensioni di rimanere neutrali, anche grazie alla politica del disarmo, è paragonata alla pia illusione del “piccolo-borghese di restare estraneo alle grandi battaglie della storia mondiale e di approfittare di una posizione di relativo monopolio per continuare a vivere in uno stato di passività abitudinaria: ecco la situazione sociale oggettiva che può garantire all’idea del disarmo un certo successo e una certa diffusione in alcuni piccoli Stati. Beninteso, questa tendenza è reazionaria e riposa esclusivamente su illusioni, perché in un modo o nell’altro l’imperialismo trascina anche i piccoli Stati nel vortice dell’economia e della politica mondiale” [15]. Se anche nel caso dei piccoli Stati la politica del disarmo è insensata, proprio per la sua natura particolaristica, che non tiene nella dovuta considerazione le linee fondamentali di sviluppo della storia mondiale, tale prospettiva non può in alcun modo essere rivendicato da un socialista. “Il ‘disarmo’ è oggettivamente il programma più nazionale, più specificamente nazionale, dei piccoli Stati, ma non è in nessun caso il programma internazionale della socialdemocrazia rivoluzionaria internazionale” [16].
Note
[1] I. V. Lenin, Il fallimento della II Internazionale (maggio-giugno 1915), in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 21, p. 194.
[2] Ibidem.
[3] Id., L’estremismo, malattia infantile del comunismo (aprile-maggio 1920), in Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 493.
[4] Id., Lettere da lontano (marzo 1917), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 101.
[5] Id., Discorso sullo scioglimento dell’Assemblea costituente alla seduta del Comitato esecutivo centrale di tutta la Russia (gennaio 1918), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 301.
[6] Id., L’estremismo, op. cit. pp. 467-68.
[7] A parere di Lenin il proletariato moderno è la classe universale poiché: “è la classe più forte e più avanzata della società civile; in secondo luogo perché nei paesi più progrediti esso costituisce la maggioranza della popolazione.” Id., La grande iniziativa (28 giugno 1919), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 418. Dunque, a parere di Lenin, “solo una classe determinata, e precisamente gli operai delle città, e in generale gli operai di fabbrica, gli operai industriali, è in grado di dirigere tutta la massa dei lavoratori e degli sfruttati nella lotta per abbattere il giogo del capitale, di dirigerli nel corso stesso dell’abbattimento, nella lotta per mantenere e consolidare la vittoria, nella creazione del nuovo ordine sociale, dell’ordine socialista, in tutta la lotta per l’abolizione completa delle classiivi: p. 416.
[8] Id., Il programma militare della rivoluzione proletaria (settembre 1916), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 92.
[9] Ivi, p. 94.
[10] Ivi, p. 86.
[11] Id., Il fallimento della II Internazionale (maggio-giugno 1915), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 9.
[12] Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico” (agosto-ottobre 1916), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 63.
[13] Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale (aprile 1917), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 109.
[14] Id., Il programma militare… op. cit., p. 84.
[15] Ivi: p. 94.
[16] Ivi: p. 95.

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30/06/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte: 

“Conservazione”, “progresso”. “Destra”, “Sinistra”. La verità oltre lo storytelling

Realtà: L’ISTAT certifica l’aumento della povertà assoluta in Italia. I dati, riferiti al 2017, riguardano circa 5 milioni di individui, l’8,3% della popolazione residente, in espansione rispetto al 7,9% del 2016 e al 3,9% del 2008. Le famiglie in povertà assoluta sono 1,8 milioni, con un’incidenza del 6,9%, in crescita di sei decimi rispetto al 6,3% del 2016 (era il 4% nel 2008). La ripresa dell’inflazione nel 2017 spiega circa la metà (tre decimi di punto percentuale) dell’incremento dell’incidenza della povertà assoluta, la restante parte deriva dal peggioramento della capacità di spesa di molte famiglie che sono scese sotto la soglia di povertà (Fonte: Presidente dell’ISTAT, Giorgio Alleva, in scadenza di mandato – 14 Luglio 2018 – con indennità di carica di 240.000,00 € lordi annui).
Complessivamente, si stima che nel 2017 siano in povertà assoluta 154 mila famiglie e 261 mila individui in più rispetto al 2016. Dal punto di vista territoriale, i dati provvisori mostrano aumenti nel Mezzogiorno e nel Nord, e una diminuzione al Centro. L’aumento delle famiglie in povertà assoluta è, inoltre, sintesi di una diminuzione in quelle in cui la persona di riferimento è occupata, e di un aumento in quelle in altra condizione.
Inoltre, un milione di famiglie è senza lavoro, sono raddoppiate in 10 anni. Nel 2017 in 1,1 milioni di famiglie italiane “tutti i componenti appartenenti alle forze di lavoro erano in cerca di occupazione”, pari a 4 famiglie su 100, in cui non si percepiva dunque alcun reddito da lavoro, contro circa la metà (535mila) nel 2008. “Di queste, – dice Alleva – più della metà (il 56,1%) è residente nel Mezzogiorno. Nel complesso si stima un leggero miglioramento rispetto al 2016 (15mila in meno), ma la situazione al Sud è in peggioramento (13mila in più)” (Fonte: ANSA).
Politica: … Ehm. Secondo il timbro col quale viene pronunciata può sottolineare un moto di incertezza, di imbarazzo, di incredulità, o di indifferenza, riassumere una larvata minaccia (Non si lasci scappar parola… altrimenti… ehm! aveva detto uno di que’ bravi – “I promessi sposi” di A. Manzoni, 1827) o semplicemente servire di avvertimento per qualcuno che parla a interrompere o cambiar discorso.
Conservazione”, “progresso”. “Destra”, “Sinistra”. La verità oltre lo storytelling
«Ogni nuova verità nasce nonostante l’evidenza», Gaston Bachelard
Per avviare il discorso sulla “conservazione” nella società contemporanea, si propone qui una riflessione sui cambiamenti economico-sociali e politico-culturali in atto che riguardano, prevalentemente, la forma e non la sostanza dei rapporti sociali. Più precisamente, si ritiene che all’orizzonte non sia affatto possibile scorgere nuove strutturazioni e/o ribaltamenti gerarchici nella “composizione” [1] e “situazione” [2] di classe su scala planetaria; semmai, alcuni aspetti di costume “politically correct” hanno distolto l’attenzione dai processi di emancipazione storico-sociale, ritenuti ormai quasi inessenziali, considerata, con pervicacia antistorica ed antiteorica, l’inalterabilità della dimensione mercantile ed interdipendente delle formazioni economico-sociali nell’odierno capitalismo globale [3].
Tra l’altro, le alternative di costume [4] – apparenze fenomeniche di mutamenti affatto fondativi di un inedito vivere sociale – non procurano gli effetti auspicati, bensì sono esse stesse congegnate come perfettamente funzionali all’attuale consolidamento del cosiddetto capitalismo post-borghese e post-proletario. Ecco perché la categoria filosofico-politica della “conservazione” è quella che meglio s’adatta all’odierno scenario nell’interpretare le tipiche dinamiche delle attuali formazioni economico-sociali. Infatti, “conservazione” non significa “inazione”, “immobilismo”, “stasi”, “blocco nostalgico”; palesa semanticamente, viceversa, l’azione del “mantenére”, l’agire in modo che il presente, con le sue caratteristiche, duri a lungo, perduri appunto, rimanga in essere e in efficienza; questa accezione mette in rilievo l’intenzione, l’opera, i mezzi volti a tal fine; evidenzia, dunque, il ruolo indispensabile della soggettività che orienta i comportamenti nel far rimanere la situazione sociale in una determinata stabile condizione, oltre la quale non vuole andare.
Le battaglie sociali di retroguardia – quelle sui “diritti” sociali e politici, ad esempio –, rispetto a quella centrale per il “potere”, sono diventate, quindi, veri e propri ostacoli culturali per l’elaborazione di un pensiero e di una cultura efficacemente anticapitalistiche e delle correlate prassi antagoniste.
Concentrare su questo tema – la “conservazione” – il pubblico dibattito è arduo perché si rischia il fraintendimento o il linciaggio da parte delle vestali della realpolitik ignare queste ultime, in verità, del fallimentare problem solving connesso al “pragmatismo” che avrebbe dovuto secolarmente generare.
Le critiche a questa analisi sono fin troppo chiaramente presenti nella coscienza di chi scrive; tuttavia, rinunciare non favorirebbe il superamento del pregiudizio tardo-illuminista, veicolato dal positivismo e contrastato dal marxismo, secondo cui non potrebbe essere realizzato se non ciò che storicamente si realizza. Scrive a suo modo, in proposito, Il giovane favoloso (rif. al film del 2014 diretto da Mario Martone), Giacomo Leopardi (rif. al Canto XXXIV – La ginestra, o fiore del deserto, 1836): Dipinte in queste rive Son dell’umana gente Le magnifiche sorti e progressive. Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. Distaccandosi dal lirismo, più in generale, le definibili magnifiche sorti e progressive ci portano ad affermare che, secondo il pregiudizio tardo-illuminista, l’umanità avrebbe operato indefessamente, pur nell’affiorare di contraddizioni, pur nell’inevitabilità dei conflitti e del fiorire di dilemmi teorico-pratici, per il progresso economico, tecnico, scientifico, sociale e politico dei popoli. A questa errata convinzione è necessario opporre domande obiettive riguardo alla realtà della condizione umana 5 e sulla sua configurazione attuale circa il possesso d’una specifica dimostrazione di verità sul raggiunto “progresso”. Pertanto, ci si propone di scomporre questi interrogativi in due delimitate questioni, che saranno affrontate in successione.
  • La prima può essere così formulata: esiste una comprensione “obiettiva” dell’idea di progresso consegnataci dalla rivoluzione socio-culturale, prima che politico-istituzionale, dell’intraprendente borghesia del Settecento europeo? Esiste, cioè, un’ermeneutica super partes di questa nozione, capace di metterne in luce aspetti nuovi e originali rispetto a quanto farebbero l’organizzazione economica della società, la filosofia o le scienze, di chiarire eventuali ambiguità o esplicitarne meglio le implicazioni?
  • La seconda quaestio alla quale si giunge è la seguente: può l’interpretazione di classe, il punto di vista partigiano, aiutare a comprendere i rapporti che intercorrono fra progresso economico-sociale, scientifico e progresso umano, la dinamica delle loro interazioni, ma anche le condizioni richieste per una loro convergenza?
In ambedue i casi ci si chiede, in definitiva, cosa il tempo presente possa aggiungere ad un ragionamento sul “progresso” e, specularmente, sulla “conservazione”.
Come chiosa a queste riflessioni, si riferisce la formulazione, per certi versi la più avanzata nonostante l’aspetto feuerbachianamente alienato, dell’idea di progresso decodificata come “sviluppo umano”: secondo la definizione dell’United Nations Development Programme, esso consiste in «un processo di ampliamento delle possibilità umane che consenta agli individui di godere di una vita lunga e sana, essere istruiti e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di vita dignitoso», nonché di godere di opportunità politiche economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza.
Gli obiettivi generali dello sviluppo umano sono i seguenti:
* promuovere la crescita economica sostenibile, migliorando in particolare la situazione economica delle persone in difficoltà; * migliorare la salute della popolazione, con attenzione prioritaria ai problemi più diffusi e ai gruppi più vulnerabili; * migliorare l’istruzione, con priorità all’alfabetizzazione, all’educazione di base e all’educazione allo sviluppo; * promuovere i diritti umani, con priorità alle persone in maggiore difficoltà e al diritto alla partecipazione democratica; * migliorare la vivibilità dell’ambiente, salvaguardare le risorse ambientali e ridurre l’inquinamento.
Al posto degli indicatori che si riferiscono alla sola crescita economica (come il prodotto nazionale lordo), che nulla dicono degli squilibri e delle contraddizioni che stanno dietro alla crescita, l’U.N.D.P. utilizza dal 1990 un nuovo indicatore di sviluppo umano (ISU o HDI nell’acronimo inglese).
Bisogna riconoscere che corrispondere in maniera conoscitiva alle problematiche poste va incontro ad alcune difficoltà. Nei riguardi della prima, circa l’esistenza di una specifica ermeneutica teleologica di progresso, va osservato che molte delle visioni filosofico-politiche sul tema affondano le loro radici proprio nel pensiero classista borghese e in alcuni casi ne rappresentano sviluppi, ma anche derive e radicalizzazioni.
Sarebbe difficile scrivere una storia dell’egemonia economica e culturale della borghesia, fino all’assetto globale della contemporaneità, eterodiretto dall’Occidente, senza chiamare in causa categorie originariamente elaborate dal processo rivoluzionario che ha fatto i conti con l’ancien régime (ricordiamo che con il colpo di Stato del 9 termidoro, il 27 Luglio del 1794, le vicende volgono verso altre mete determinando l’ascesa di Napoleone); se non lo si fa è perché queste vengono di solito implicitamente assunte, non più tematizzate verificandone l’applicazione storica, o in alcuni casi perfino espropriate dei loro originari significati.
In merito alla seconda domanda, quella inerente le eventuali luci che i principi di uguaglianza, libertà e fratellanza, precocemente abbandonati, avrebbero gettato sul rapporto fra progresso economico-sociale, scientifico, tecnico e progresso umano, la difficoltà nasce da alcune visioni oggi non più compresse e non più comprimibili nell’ideologia della classe dominante, come ad esempio quella di una supposta dialettica armonia fra ragione capitalistica e democrazia, fra materialità dell’esistenza e sistema giuridico-valoriale, fra scienza e umanesimo, fra poteri e popoli, che finisce col condizionare anche la comprensione del rapporto fra ciò che è umanamente rivendicabile e ciò che è ritenuto oggetto di immodificabile, totalitaria organizzazione (secondo il criterio di naturalizzazione dei fatti storici) dei rapporti di produzione e di riproduzione della vita sociale. Desiderando sintetizzare, si può dire che la tela può più volte essere dipinta, ma sempre all’interno d’una stessa cornice, mentre è il perimetro del quadro oltre che l’effige a caratterizzarne la qualità; nel caso in questione, l’estensione del capitalismo e la tutela di società e natura (rif. a K. Polanyi).
Solo lasciando alla storia e non alla storiografia la libertà di impiegare le proprie potenzialità piuttosto che affidarsi alla retorica ed all’apparato teorico categoriale, sarà possibile superare alcuni schemi predeterminati e giungere perfino a suggerire, come si mostra in questo intervento, che progresso economico-sociale ed emancipazione umana sono, per la ricerca non prezzolata, intimamente legati. Un vero progresso non può che essere progresso sociale, ed una vera emancipazione umana non può che includere in sé, come sua dimensione costitutiva, un vero ed irreversibile avanzamento nelle forme storiche dei rapporti sociali.
Pertanto, vigente tutt’ora il sistema capitalistico-borghese [6] (i cui prodromi sono di epoca remota e affondano alcune delle proprie radici nell’Europa tardo-medioevale, in particolare in quel protocapitalismo finanziario e commerciale incarnato dalla figura dei mercanti imprenditori e dalla fenomenologia dell’accumulazione originaria), nient’altro si può affermare che la sussistenza strutturale d’una compatibilità tra “conservazione” e regime politico planetario. Tale compatibilità non è mai stata scalfita in oltre quattro secoli, nonostante la legislazione sociale, il Welfare State universalistico, la fuoriuscita nominale dallo schiavismo che autorizza alcuni a ritenere avvenuto un miglioramento delle condizioni di vita senza precedenti nella storia dell’umanità mettendo sotto silenzio in quali circostanze e come avesse avuto origine e come continua tutt’ora l’accumulazione di ingenti somme di danaro che sole hanno potuto avviare e consolidare la grande produzione capitalistica e la “società di massa”.
Per valutare quale contributo la borghesia abbia recato all’idea di progresso non è la concezione imprenditoriale della tecnica o del lavoro umano che va messa a tema, perché un rapporto fra capitalismo e progresso coinvolge comunque in primis la concezione della storia e della libertà, e solo secondariamente l’emancipazione umana dallo sfruttamento e la riconciliazione tra lavoro manuale ed intellettuale nella generalità delle persone. Questo perché la “rivoluzione borghese”, nell’ambito dell’affermazione definitiva del modello capitalistico, ha sostituito funzioni ed inventato “figure” sociali, ma non ha alterato la gerarchia del comando politico a difesa dei propri interessi economici sussumendo, nella logica del profitto, le classi subalterne.
Forgiata soprattutto nella “modernità”, l’idea di “progresso” contrapposta a quella di “conservazione”, viene ampiamente perfezionata nel Seicento da Francesco Bacone e da Cartesio, allo stesso modo nel Settecento con la fondamentale stagione illuministica che si immette nell’indirizzo di pensiero positivista di Comte e trova, successivamente, un importante crocevia rappresentato dall’Idealismo hegeliano il cui portato filosofico darà più tardi origine a commistioni con le utopie veicolate nell’Ottocento dal socialismo non scientifico. Nel crocevia idealistico-hegeliano avviene la contaminazione di tutti i discorsi filosofico-politici provenienti da altri “luoghi” teorici e delle diverse opzioni culturali al punto tale da agevolmente incorporare nei pur disparati impianti teorici lo sviluppo dello Spirito come concettualità aprioristica assumendone, ciascun impianto, conseguentemente, i caratteri del determinismo, dell’autorealizzazione e della totalità.
Il punto in questione è che tutte queste visioni, da Bacone fino alla “rottura epistemologica” (rif. a Gaston Bachelard e, in particolare, a Louis Althusser) di Marx, nascono e prendono forma grazie a concezioni e categorie introdotte dal superamento dell’oscurantismo medievale, o che hanno comunque in esso le loro radici oppositive [7]. Inoltre, non poche delle risorgenti utopie politiche o sociali dell’epoca moderna con propaggini nella contemporaneità, anch’esse fondate sull’idea di progresso, si basano su idee e concezioni proprie di un idealismo borghese alle quali però, come da tempo è stato osservato (rif. a Romano Guardini ne La fine dell’epoca moderna, 1950), è rimasto solo il guscio esteriore e sono pertanto condannate a esaurirsi o ad impazzire, venendo a mancare, a motivo del materialismo e della secolarizzazione, la linfa spirituale che le sosteneva e che generava con il misticismo logico l’equazione tristemente nota tra “ragione “ e “realtà”.
Guardare l’andamento storico obiettivo delle vicende umane significa fare esperienza del movimentato assetto della “conservazione”, della conoscenza scientifica mediante la diuturna osservazione dell’attitudine alla riconferma del potere classista statuito, del recepire lo storytelling del comando sociale come “conoscenza” delle contraddizioni e non come “l’adattivo ed omologante racconto di un’esperienza”, efficace per manipolare le menti ottenendone la subalternità e passività. La conoscenza operativa genera una possibilità: avanzare alla volta di un effettivo oltre, dirigendosi collettivamente verso un obiettivo di irreversibile liberazione.
Giovanni Dursi
Note
[1] Ci si riferisce all’elemento soggettivo, leggendo lo stesso sviluppo capitalistico, la tecnologia, l’organizzazione del lavoro posto come esito perennemente in divenire dei rapporti di forza tra le classi; pertanto, l’accumulazione non è governata esclusivamente da leggi oggettive, ma riflette il continuo gioco tra iniziativa del capitale e comportamenti dei proletari. Come è stato osservato (intervento di Salvatore Cominu all’incontro sulla “composizione di classe” nel ciclo COMMONWARE di autoformazione di Piacenza, 3 Marzo 2014 ), Sergio Bologna, all’epoca giovane militante e in seguito promotore di una delle principali esperienze intellettuali del marxismo degli anni Settanta, la rivista Primo Maggio, al precedente ciclo di incontri COMMONWARE, ha fornito della composizione di classe la seguente definizione“capire”: «la classe per come si dà “nel processo produttivo e in rapporto con l’organizzazione tecnica, ma anche per cosa pensa, come vive, di quali valori, desideri, aspettative è portatrice”. E certamente l’idea che l’operaio taylor-fordista fosse diverso, per valori, atteggiamento verso il lavoro, l’azienda, la professionalità, dalla vecchia generazione in possesso di un “mestiere”, ha rappresentato la principale intuizione politica dei Quaderni Rossi». Fonte: COMMONWARE – GENERAL INTELLECT IN FORMAZIONE (web site).
[2] Si ritiene adeguata la seguente definizione: “Il sistema delle disuguaglianze strutturali di una società, nei suoi due principali aspetti: quello distributivo, riguardante l’ammontare delle ricompense materiali e simboliche ottenute dagli individui e dai gruppi di una società e quello relazionale, che invece ha a che fare con i rapporti di potere esistenti tra essi” (rif. A. Bagnasco, 1997).
[3] Rif. a “Capitalismo e globalizzazione”, di Nerio Nesi e Ivan Cicconi, Prefazione di Luciano Canfora, biblio-sitografia e contestualizzazione a cura di Giovanni Dursi, Koinè Nuove Edizioni, 2002
[4] In questa sede ci si riferisce alla potenzialità del classico tradeunionìsmo di mobilitazione e di unificazione di diverse soggettività sociali, all’interno della complessa organizzazione della vita pubblica, la cui azione rivendicativa non intacca il carattere di merce dei beni prodotti dal lavoro e delle relazioni di mercato che vengono estesi anche a moneta, terra, ambiente, non più fuori dalla produzione, alle attività di cura e sociali.
[5] Per approfondimenti, si propone la lettura di Mutamenti della struttura di classe in Italia di Alberto Baldissera, il cui testo integrale è in https://journals.openedition.org/qds/1470.
[6] Per capitalismo (termine entrato in vigore solo nei primi decenni del XIX secolo) si intende un insieme di condizioni e relazioni socioeconomiche quali: la proprietà privata dei mezzi di produzione; la libertà di perseguire il profitto, in conseguenza dell’investimento del proprio capitale nel giro degli affari, con criteri di razionalità e quindi di efficienza; l’esistenza di una manodopera che vende al capitalista la propria forza lavoro in cambio di un salario; il comando, da parte del detentore del capitale, sulle modalità del processo produttivo e di accesso dei prodotti stessi al mercato; la propensione all’investimento di nuovi capitali per l’innovazione delle tecnologie; la logica dell’allargamento del mercato come conseguenza del progresso e come presupposto per l’accaparramento di materie prime; il proseguimento e l’allargamento dell’impresa in un contesto globale segnato dalla concorrenza tra imprese. Non vi è dubbio che il capitalismo in quanto sistema assunse una sua fisionomia compiuta tra XVIII e XIX secolo, durante la rivoluzione industriale, trovando la sua più tipica espressione nella fabbrica come luogo di concentrazione delle macchine, del ciclo di lavorazione e degli operai salariati inquadrati in una definita organizzazione del lavoro. Di qui il concetto e la realtà del capitalismo industriale.
[7] Sarebbe sufficiente una lettura dei capitoli centrali delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel (postume, 1837) per rendersene conto: qui la fenomenologia dello Spirito che si realizza nella storia, giungendo alla sua autocoscienza come Assoluto, è spiegata in costante dialogo, quasi in parallelo, con il fine soprannaturale della religione cristiana, tanto il processo di perfezionamento ascetico del singolo, come quello di universale glorificazione di Dio.
FONTE
https://www.mentinfuga.com/

mercoledì 26 aprile 2017

Classifiche sulla libertà di stampa

World Press Freedom Index
The 2017 World Press Freedom Index compiled by Reporters Without Borders (RSF) reflects a world in which attacks on the media have become commonplace and strongmen are on the rise. We have reached the age of post-truth, propaganda, and suppression of freedoms – especially in democracies.
L’organizzazione non governativa Reporter Senza Frontiere (RSF) ha pubblicato il “World Press Freedom Index” del 2017, la classifica annuale che sostiene di ordinare i paesi del mondo sulla base di quanto è libera la loro stampa. L’Italia quest’anno è al 52° posto su 180, recuperando 25 posti rispetto al 2016 (quando era al 77° posto). Ai primi posti ci sono Norvegia, Svezia, Finlandia (che ha ceduto il primo posto, che deteneva da sei anni, a causa di «pressioni politiche e conflitti d’interesse»). L’ultima nazione in classifica è la Corea del Nord, preceduta da Turkmenistan ed Eritrea (la Turchia è al 155° posto). Davanti all’Italia ci sono paesi che difficilmente si possono definire campioni di democrazia: per esempio al 42° posto, nella stessa posizione del 2016, c’è il Burkina Faso, un paese che non ha grandi organizzazioni editoriali e dove negli ultimi anni si sono succeduti colpi di stato, attacchi di al Qaida e dove l’anno scorso si sono tenute le prime elezioni democratiche in 27 anni (il Burkina Faso ha incredibilmente ottenuto posizioni in classifica superiori all’Italia anche quando era una dittatura).
La metodologia utilizzata da RSF per stilare la classifica segue alcuni criteri qualitativi e altri quantitativi. RSF distribuisce un questionario tradotto in 20 lingue ai suoi partner in tutto il mondo: sono associazioni, gruppi e singoli giornalisti, scelti a discrezione di RSF. La lista dei partner non viene diffusa (per proteggerli, dice RSF). Questi partner rispondono alle 87 domande raggruppate in sette argomenti assegnando un punteggio. Gli argomenti sono: pluralismo, indipendenza dei media, contesto e autocensura, legislatura, trasparenza, infrastrutture e abusi. I vari punteggi vengono “pesati” diversamente con una complicata formula matematica con la quale, in base ai primi sei argomenti, si ottiene un primo punteggio, il cosiddetto “ScoA”.
Il secondo punteggio viene elaborato tenendo conto del numero di giornalisti uccisi nel paese, di quelli arrestati, di quelli minacciati e di quelli licenziati. Anche questi valori vengono pesati in maniera differente: un giornalista ucciso conta più di un giornalista arrestato, per esempio. Il risultato di questa formula viene a sua volta inserito in un’altra formula insieme allo “ScoA”. Dati quantitativi su violenze e minacce sommati allo “ScoA” producono il secondo punteggio, lo “ScoB”. Nello “ScoB” l’analisi quantitativa sugli abusi pesa per il 20 per cento, mentre il resto del punteggio deriva dallo “ScoA”. Nella classifica finale, RSF utilizza il dato più alto tra “ScoA” e “ScoB”. La mappa viene infine colorata in base ai punteggi ricevuti: da 0 a 15 punti “buono” (colore giallo chiaro), da 15,01 a 25 punti “abbastanza buono” (colore giallo), da 25,01 a 35 punti “problematico” (colore arancione, l’Italia sta qui), da 35,01 a 55 punti: “grave” (colore rosso), da 55,01 a 100 punti “molto grave” (colore nero).
È un metodo molto complesso, che RSF ha raffinato nel corso degli anni – un grosso cambiamento di metodologia è avvenuto nel 2013 – e che è stato discusso e criticato su diverse riviste specializzate. La cosa più importante da capire è che si basa in gran parte sulle opinioni soggettive di enti e persone scelte da RSF, e questo ha causato negli anni diverse critiche. RSF è stata accusata di avere tra i suoi partner personaggi legati all’opposizione cubana e venezuelana, per esempio, che quindi nel valutare i loro paesi potrebbero non essere stati completamente obiettivi; cose simili possono essere successe anche in altri paesi. Gran parte del punteggio – almeno l’80 per cento – deriva dalle valutazioni dei partner di RSF ed è quindi influenzato dalla loro sensibilità personale e dal loro contesto: un “4” assegnato in Italia, insomma, non ha necessariamente lo stesso valore di un “4” assegnato in Burkina Faso.
Di certo la metodologia rischia di portare a risultati bizzarri o difficilmente spiegabili. Tra il 2013 e il 2014 per esempio, l’Italia aveva perso 24 posizioni in un solo anno, scendendo dal 49° al 73° posto. Tra le ragioni fornite da RSF per questo calo c’era stato un aumento delle intimidazioni nei confronti dei giornalisti, con «un grande incremento di attacchi alle loro proprietà, specie le automobili». Erano aumentate anche le cause di diffamazione che RSF giudicava infondate, passate da 84 nel 2013 a 129 nei primi dieci mesi del 2014. Per il 2015, l’anno a cui si riferiva il rapporto dello scorso anno, RSF non era scesa altrettanto nei dettagli per spiegare un’ulteriore perdita di quattro posti in classifica, ma segnalava comunque altre motivazioni: il numero di giornalisti sotto protezione della polizia (tra i 30 e i 50, ma il rapporto lo diceva citando Repubblica) e il processo in cui erano coinvolti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, giornalisti autori di due libri sugli scandali nella Chiesa cattolica. Il processo di Nuzzi e Fittipaldi aveva influito negativamente sul punteggio italiano anche se, di fatto, avveniva in uno stato che non era l’Italia bensì il Vaticano. Nuzzi e Fittipaldi sono stati poi assolti.
Nel rapporto appena uscito, Reporter Senza Frontiere scrive che comunque l’Italia si trova al 52° posto perché sei giornalisti sono ancora sotto protezione avendo ricevuto minacce di morte soprattutto da parte della mafia o di gruppi fondamentalisti e perché il livello di violenza contro i giornalisti (intimidazioni verbali, fisiche e minacce) è allarmante, soprattutto a causa di «politici che non esitano a colpire pubblicamente i giornalisti che non amano». Il rapporto cita esplicitamente Beppe Grillo e il Movimento Cinque Stelle tra gli autori di queste minacce. Si dice poi che i giornalisti si sentono in generale sotto pressione da parte dei politici, che sempre di più scelgono di censurarsi e che nel sud del paese si devono confrontare con gruppi mafiosi e bande criminali locali. Infine, si parla del disegno di legge presentato dalla senatrice Doris Lo Moro del PD sul contrasto alle intimidazioni agli amministratori locali, licenziato nel giugno del 2016 dalla commissione Giustizia del Senato. La proposta è stata approvata al Senato e dal 17 aprile scorso è in corso di esame alla commissione Giustizia della Camera: l’articolo 3 dice che «Le pene stabilite per i delitti previsti dagli articoli 582, 595, 610, 612 e 635 sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio». In sostanza, dice RSF, esiste il rischio di un aumento della pena per un giornalista che diffama a scopo ritorsivo (da dimostrare in tribunale) un politico o un magistrato. Il disegno di legge non è stato però ancora approvato definitivamente.
Fonte:
ilPOST

 

sabato 11 febbraio 2017

I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista

Dopo Teramo, Roma e Bolzano è esposta a Chieti la mostra “I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista” realizzata dalla Fondazione Università degli Studi di Teramo e curata dalla ricercatrice dell’Ateneo di Teramo Annacarla Valeriano e dallo storico Costantino Di Sante.

La mostra, promossa dall’associazione Chieti Nuova 3, si terrà nella sede del Liceo Classico “G.B. Vico” e sarà aperta al pubblico dal 2 al 19 febbraio dal martedì a domenica dalle 10.30 alle 12.30 e da martedì a venerdì anche dalle 17 alle 19.
La mostra foto-documentaria sarà inaugurata alla presenza dei curatori il 2 febbraio alle ore 17.30. Interverranno il preside del Liceo Classico “G.B. Vico” Paola Di Renzo, il direttore dell’Archivio di stato di Chieti Antonello De Berardinis e gli studenti del Liceo Classico.
L’idea di realizzare una mostra sulle donne ricoverate in manicomio durante il periodo fascista è nata dalla volontà di restituire voce e umanità alle tante recluse che furono estromesse e marginalizzate dalla società dell’epoca.
Ci è sembrato importante”, spiegano i curatori della mostra, “raccontare le storie di queste donne a partire dai loro volti, dalle loro espressioni, dai loro sguardi in cui sembrano quasi annullarsi le smemoratezze e le rimozioni che le hanno relegate in una dimensione di silenzio e oblio. Alle immagini sono state affiancate le parole: quelle dei medici, che ne rappresentarono anomalie ed esuberanze, ma anche le parole lasciate dalle stesse protagoniste dell’esperienza di internamento nelle lettere che scrissero a casa e che, censurate, sono rimaste nelle cartelle cliniche”.
È possibile prenotare visite guidate per studenti ai numeri 347 4521937 e 338 1734161.
I volti e le espressioni di donne internate in manicomio durante il regime, restituiti allo sguardo del visitatore da efficaci fotografie, condividono la sorte della condanna morale con il titolo dell’omonima opera di Baudelaire.
All’ingresso della sala ci accoglie “La geografia dei manicomi”, una cartina dell’Italia che traccia la presenza di tutte le strutture, sessantacinque manicomi distribuiti in diciassette regioni. La mostra è divulgativa e chiara, le testimonianze immediate. Occupa il primo piano, con una zona più ampia destinata alle foto e ai documenti cartacei originali, e una più piccola, delimitata da un cartongesso divisorio, che accoglie pannelli e locandine. Lo spazio è raccolto, l’esposizione è armonica nei colori. Nonostante i medico-tecnicismi dell’epoca, restituisce il senso, risignifica, costruisce una narrazione con l’osservatore. Il taglio è differente rispetto agli spazi che solitamente sono dedicati alle vite che hanno popolato le istituzioni totali. Più che le pratiche di internamento, è il clima di repressione che conduce all’internamento a essere co-protagonista dei volti. Sulla stessa tela confluiscono il volto dell’alienata e la sua cartella medica, uno stralcio di suo scritto al quale è accompagnata una traduzione in digitale per favorirne la comprensione, la diagnosi del medico, le informazioni cliniche, lettere di familiari o amati. Un amaro sorriso compare sulla bocca quando sui diari clinici si leggono i sintomi concausa delle diagnosi: loquace, incoerente, erotica, capricciosa, eccitata, indocile, impulsiva, petulante, piacente, rossa in viso, dedita all’ozio.
Dalla parte opposta della sala si ritrovano i manifesti della donna “pro familia” e degli almanacchi della massaia fascista, così da non destare dubbio che quelli elencati potessero essere sintomi sufficienti. Ci sono testi che danno modo di orientarsi nel contesto storico, nel quadro normativo in materia di leggi razziali e di condotte morali. Le vicende delle internate si svolgono tutte in Abruzzo, nell’Ospedale psichiatrico di Teramo che nacque nel 1323 e inaugurò la sezione psichiatrica nel 1881. Ha chiuso il 31 marzo del 1998 per effetto della legge Basaglia. Si stima che in questo periodo siano passati per questo manicomio circa ventiduemila “folli”, con un picco durante il ventennio fascista, periodo in cui, tra i direttori, ritroviamo anche Marco Levi Bianchini, fondatore della Società Italiana di Psicoanalisi.
Questa è la storia di donne che non sono riuscite ad adattare il loro animo alla remissività e alla pubblica esaltazione della funzione riproduttiva, come volevano gli slogan fascisti. Donne che uscivano la sera, destando pubblico scandalo, ritenute anaffettive con i figli e disinteressate alla famiglia. Donne che, dopo i conflitti bellici, hanno vissuto una repulsione per ogni attività che aveva caratterizzato in modo perpetuo la loro esistenza. In gran parte massaie, casalinghe, nate e cresciute in piccoli paesi e comuni, alcune con volti di bambine, un’età compresa tra i dodici e sessanta anni, anche se non sono mancati casi di bambine con soli due anni di vita. C’è Paolina, venti anni, povera, rinchiusa per “immoralità costituzionale”; Crocifissa G., trent’anni, casalinga, rinchiusa nel 1905; Adelaide D., che raggiunge la sorella in manicomio per il morso di un gatto nero; Chiara D., zingara e anche strega. Molte di queste donne hanno scritto lettere, grida mai giunte a destinazione, che ritroviamo allegate alle cartelle cliniche, sequestrate dalla direzione medica a scopo diagnostico (lettere e cartelle cliniche si possono ritrovare sul sito della Fondazione della Università di Teramo).
Come ha scritto una di queste donne, Haidè B., quarantacinque anni, casalinga e una diagnosi di “psicosi isterica”, «come naufrago che in una tempesta si appiglia alla prima tavola che gli capita davanti, così io immersa nelle barbarie inaudite, sono costretta a chiedere aiuto».Voci che rimarranno inascoltate fino a quando la riforma Basaglia non porrà fine alla barbarie inaudita dei manicomi civili. Si esce alla luce del giorno e ripercorrendo le scale che portano al lungo fiume si ha la sensazione di un conflitto continuo che sottende gli “eserciti della morale”, che non ha conosciuto armistizi di pace, neanche a guerra finita.
Approfondimenti e video

venerdì 6 gennaio 2017

Il regime del salario

By FERRUCCIO GAMBINO

Prefazione Il regime del salarioPubblicato Il regime del salario, l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato (casa editrice Asterios di Trieste) che raccoglie tutti gli interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi la prefazione di Ferruccio Gambino.
***
Questa premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.
Molti commentatori sono del parere che la BCE sia stata mal consigliata dalla Bundesbank e che abbia commesso «errori» madornali di gestione. A loro dire, il principale errore sarebbe consistito nel rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro a causa di una cieca adesione della Bundesbank al dogma della lotta all’inflazione. Tuttavia può darsi che il dogma della lotta all’inflazione abbia un peso non superiore al doveroso aiuto congiunturale offerto dall’UE al sofferente capitale statunitense. Una delle forme più importanti di tale aiuto è consistita nel rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro e nella conseguente grave crisi delle esportazioni di alcuni paesi dell’Eurozona, in particolare di quelli dell’Europa meridionale. Qui basta rammentare che nella fase di massima onda sismica del sistema finanziario statunitense (tra l’aprile e il luglio del 2008) il dollaro veniva scambiato a più di 1,50 contro l’euro, nel tripudio dei telegiornali e dei gazzettieri euro-continentali che inneggiavano all’«Europa forte» e alla «locomotiva Germania». In altri termini, l’euro forte costituiva un forte balzello prelevato sul monte-salari dell’Eurozona e, al tempo stesso, una dose di ossigeno per le grandi banche e assicurazioni dopo la crisi scatenata dai crolli bancari negli Usa. Al brusco prelievo dall’Eurozona in nome dell’atlantismo si aggiungeva la beffa della grande stampa finanziaria anglosassone, secondo la quale occorreva mettere in riga non le grandi istituzioni finanziarie salvate con la socializzazione internazionale delle loro perdite, bensì i salari dell’Europa meridionale. Inoltre, gli investimenti diretti all’estero dei capitali industriali dell’Eurozona ci mettevano del loro nella decurtazione del monte-salari, approdando in gran numero – e mai in ordine sparso – nell’Asia orientale e nell’Europa orientale.
Si può constatare che in primo luogo la lotta all’inflazione porta regolarmente acqua al mulino dei detentori dei capitali e delle rendite e che a parità di altre condizioni si avvale di misure che generalmente intaccano l’occupazione, in particolare quando alla capacità di mobilitazione in difesa delle condizioni di vita e di lavoro si contrappongono tutte le leve del potere statale e mediatico, mentre quello che resta di larga parte delle organizzazioni sindacali generalmente si accoda. In secondo luogo, le misure che contrastano l’inflazione finiscono poi per comprimere i salari, in particolare i salari bassi e precari. Persino il salario minimo orario è destinato a significare ben poco per chi lavora in modo intermittente.
Nel regolare l’occupazione e i salari nell’Europa continentale eccelleva il Partito socialdemocratico tedesco. Con la sua cosiddetta Agenda 2010 il primo governo (1998-2002) del socialdemocratico Schröder (cancelliere dal 1998 al 2005) compiva un duro lavoro: tagli alla previdenza sociale, ossia al sistema sanitario, all’assegno di disoccupazione, alle pensioni, irrigidimento delle regole nei confronti di quanti cercano lavoro: salari passabili nei settori ad alta produttività, pochi euro all’ora per gli altri, in parte stranieri e straniere e in parte pure tedeschi e tedesche. Anche se il Partito socialdemocratico ha pagato tale operazione con le sconfitte elettorali a partire dal 2005, di fatto l’erculeo Schröder ha acquisito benemerenze imperiture presso i partiti conservatori di Germania ai quali, una volta arrivati al governo, è poi rimasto il più facile compito di passare con lo strofinaccio sul «mercato del lavoro». A Schröder il padronato internazionale ha poi mostrato la sua gratitudine perdonando in men che non si dica i giri di valzer con Putin e i lauti proventi lucrati grazie all’operazione Northstream, che porta il gas dalla Russia alla Germania attraverso il mare del Nord, evitando la Polonia.
In realtà i socialdemocratici tedeschi hanno fatto scuola, dimostrando agli altri governi delle più svariate gradazioni nell’Eurozona, compresi i governi italiani, che la compressione salariale è possibile a condizione di procedere con cautela e di cominciare a operare i tagli dagli strati più deboli. Questa è vecchia e sordida politica europea. Quando nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro primo ministro filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la Grande Depressione non toccava la Francia sottintendeva che, con il benevolo concorso dei poteri pubblici e privati, la crisi stava già ricadendo sulle spalle degli immigrati e di quei francesi che non disponevano di strumenti politici per contrastare il deterioramento sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i disoccupatori e i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di Bruxelles. In breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al comando nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.
http://www.asterios.it/
 La cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni salariali. Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà l’imbrigliamento dei salari, con il loro spostamento progressivo nell’area del lavoro precario. Annualmente la Commissione europea appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di disoccupazione tale da non generare aumenti salariali: per il 2015 il NAWRU ha varcato la soglia del 10% per l’Italia, è salito al 25% per la Spagna, all’11% per la Francia ed è sceso al 5% per la Germania. Al fine di assicurare una certa tranquillità ai poteri finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre più in alto per i Paesi «a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna istituzione le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento spicca il ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e della Bundesbank.
Fin dagli anni 1990 la struttura di potere in Italia ha cercato con alterne vicende di seguire la ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata più prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di applicazione della ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In realtà, le grandi manovre italiane erano cominciate già nel 1992, erano proseguite sia con il piano di riduzione delle pensioni attraverso la conversione del sistema retributivo nel sistema contributivo (governo Dini, 1995) sia con una prima prova sul mercato del lavoro (governo Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le grandi manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo (governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002 decidendo di aggredire lo Statuto dei lavoratori e in particolare di abrogare l’articolo 18 che vietava il licenziamento senza giusta causa. Seguivano gli inevitabili sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che sanno fare più cautamente e meglio. Le manifestazioni di milioni di oppositori in tutta Italia nel marzo 2002 mettevano in quarantena l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato. In altri termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del suo elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei confronti dello Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è risultata bruciante ma non definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i cocci e poi sono stati chiamati a raccolta i poteri economici, politici e mediatici, i quali nell’arco di una dozzina d’anni hanno ridotto l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua abolizione (2014).
Lo stillicidio di misure e ancor più di pratiche quotidiane contro la forza-lavoro ha deteriorato non soltanto le condizioni ma anche i rapporti di lavoro tra compagni/e di lavoro, desocializzando ambienti dove in precedenza la solidarietà aveva a lungo prevalso, nonostante il clima di crisi. Inoltre, la frustrazione che ne è seguita si è ritorta ulteriormente contro il sindacato, dissolvendo diffusamente i legami che si erano già indeboliti fin dagli anni 1980, ossia da quando il sindacato aveva cercato di pilotare a favore dei suoi fedelissimi le liste degli ammessi e degli esclusi dalla cassaintegrazione. La posta in gioco diventava dunque il monopolio delle decisioni riguardanti le maestranze. Il datore di lavoro andava riprendendosi il diritto assoluto di assumere e licenziare. La parentesi della più che quarantennale limitazione all’arbitrio del licenziamento grazie all’articolo 18 volgeva al termine, cancellata dalla insindacabilità del licenziamento. Esclusa così di fatto la magistratura da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una questione di voucher.
Domandiamoci: qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove, intende avviarsi? Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in breve, scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i salari da lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti politici e sindacali è messo in naftalina, la perdita del posto di lavoro è deciso su di un pezzo di carta padronale, e – contrariamente a gran parte della schiavitù moderna – il diritto di trasmettere la vita è rimandato a tempi migliori – e di fatto negato ai molti che hanno perso la speranza di ottenere un salario adeguato a mantenere la prole.
Oggi in Italia i grandi mezzi di comunicazione nazionali gongolano per la previsione della produzione di 650mila auto all’anno. Pochi notano che le nascite sono scese ben al di sotto di tale cifra: 509mila nel 2014, la più bassa natalità dall’unità d’Italia. Il saldo naturale della popolazione del 2014 è negativo (meno 100mila unità), cifra del biennio di guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio ma che va estendendosi per varie cause – tra cui le forme della precarietà del lavoro e dei regimi lavorativi – in molti paesi industrializzati e in via d’industrializzazione. Al fondo della compressione della forza-lavoro e della sua precarietà è in gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e alla trasmissione della vita.

PREFAZIONE DI FERRUCCIO GAMBINO