menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

lunedì 4 gennaio 2016

Caduta e ricostruzione della polis (Nota di Nicola Di Battista © riproduzione riservata)

Quanto accaduto a Parigi ci fa comprendere che la strada per arrivare a una pacifica convivenza dei popoli è ancora lunga e piena d’insidie; ma è anche l’unica strada possibile.
L’anno in corso si chiude con un ennesimo atto di barbarie contro la vita, orribile e straziante allo stesso tempo. Un atto violento e devastante compiuto da uomini contro altri uomini: un atto contro gente comune, avvenuto in luoghi comuni; un atto che ha seminato la morte in spazi pensati per la vita.
Di queste inaudite violenze è purtroppo piena la storia dell’umanità, ma quello che oggi maggiormente ci ferisce e rattrista è vedere che ancora possano accadere tali atrocità ed entrare a far parte del nostro quotidiano. Se poi è Parigi a essere colpita, allora ci sembra di tornare indietro di molti decenni. Questa volta, è stata colpita proprio la capitale francese, quella entità magistralmente descritta da Paul Valéry in un breve testo riproposto su Domus solo qualche mese fa, in cui ci racconta di una città che è di un “ordine più sofisticato” rispetto alle altre, di una città la cui funzione è necessaria ai parigini, ai francesi, agli europei e agli uomini tutti.
Quanto accaduto ci fa drammaticamente comprendere come la strada da percorrere per arrivare a una pacifica convivenza dei popoli sia ancora lunga e piena d’insidie; ci trasmette però anche la convinzione che per noi – così come speriamo per tanti – sia l’unica strada possibile: da questa prospettiva, allora, gli efferati avvenimenti mortali di questi giorni altro non fanno che rafforzare in noi la voglia di vita. Proprio di ciò vorrei parlare in questo editoriale: della vita degli uomini e dei luoghi pensati e costruiti da essi per viverla al meglio, e del dovere che abbiamo noi oggi di riconoscere, preservare, valorizzare e – se ne siamo capaci – anche di ampliare questi luoghi. 

L’occasione ci viene data dal ciclo d’incontri “Conversazioni sulle Rovine”, organizzato dal Teatro di Roma e dal suo direttore Antonio Calbi, che qui pubblicamente ringrazio per avermi invitato a partecipare a uno di questi colloqui. Si svolgono in un luogo straordinario, il Teatro Argentina di Roma, e si tengono la domenica mattina: tutto questo contribuisce a renderli speciali, connotandoli di una sorta di sacralità davvero incomparabile. Vedere quello splendido teatro affollato di oltre 800 persone, convenute lì non per assistere a una pièce teatrale, come normalmente ci si aspetterebbe, ma solo per ascoltare alcuni invitati conversare è già di per sé un fatto straordinario, un avvenimento capace di raccontare la voglia della gente di partecipare alla vita collettiva della città. 
A teatro, mi sono sempre trovato dall’altra parte, quella del pubblico, a guardare la scena; questa volta, invece, essere sul palco mi ha prima di tutto emozionato, ma mi ha anche dato la possibilità di constatare quello che a priori supponevo, vale a dire che la cosa più bella in una simile situazione sono le persone stesse, anzi i visi delle persone: tanti, centinaia, come in questo caso, ma in numero tale da poterli ancora guardare tutti, uno per uno, e riconoscerli; un’esperienza davvero unica ed esaltante.
Gli efferati avvenimenti mortali di questi giorni altro non fanno che rafforzare la voglia di vita
Essendo il tema della conversazione “Caduta e ricostruzione della Polis”, l’incontro si è caricato di significati squisitamente civili e politici: si è parlato di convivenza, di come la gente può vivere insieme in un luogo, in una comunità, in una città. Questo interessa molto le persone, perché ci si occupa della vita – della propria e di quella degli altri – e della possibilità che abbiamo di viverla nel miglior modo possibile. Devo anche dire che ho avuto la fortuna di essere sul palco insieme con ospiti di grande autorevolezza nei loro campi disciplinari e nei loro mestieri; persone vere e non finte, persone con storie da  raccontare: sulla polis, la città, l’esigenza e la possibilità per gli uomini di stare insieme. Ora, sarà stato il tema, sarà stata la sala, saranno stati gli ospiti, sarà stato il pubblico, ma in quell’occasione – domenica 22 novembre 2015 alle ore 11 del mattino – si respirava alto. Questo ci carica di responsabilità: prima di tutto, come cittadini, che cercano di raggiungere la massima consapevolezza possibile in merito all’idea di città che vorrebbero avere e che vorrebbero  abitare; vorrebbero comprendere con chiarezza cosa manca alle città reali vissute quotidianamente e cosa è indispensabile per vivere pienamente la loro vita. Come architetti, poi – se questo è il mestiere che facciamo –, la responsabilità diventa doppia e non possiamo più accontentarci di dire cosa non va; abbiamo il dovere di dire cosa va fatto e come farlo, anzi, come noi lo faremmo. Questo ci pone subito di fronte a un problema a cui sinora non si è prestata troppa attenzione: quello di definire ruolo e responsabilità dell’architettura, a priori, prima che essa si realizzi. A tale proposito, ci piace ricordare ancora una volta la precisa e lucida descrizione di Ortega y Gasset (Domus 977, febbraio 2014), dove dice che “[…] l’architettura non è, non può, non deve essere un’arte esclusivamente personale. È un’arte collettiva”. Basterebbe questo per differenziare l’architettura da tutte le altre arti, per riportarla alla sua realtà; per questo, ogni architetto ha l’obbligo di descrivere la propria architettura; di dire, per esempio, da dove essa venga, in che storia abbia l’ambizione d’inserirsi, cosa voglia innovare o ripetere. L’architetto deve fare questo soprattutto per poter condividere la  propria architettura prima che essa si realizzi, per discuterla con la committenza e, solo in seguito, per fissarla come il risultato ultimo di un lavoro collettivo e responsabile. In questa maniera, l’architetto non sarà più solo a difendere il proprio operato e avrà invece il privilegio di realizzare con la propria arte qualcosa che appartiene a tutti. Per questo, l’architettura non è, non può e non deve essere il frutto di una suggestione momentanea: è troppo importante per la vita degli uomini ed è impensabile che  possa darsi eludendo quanto descritto sopra. Se il rapporto con la committenza è sempre essenziale all’architetto per poter compiere il proprio lavoro, lo è in massima misura se si tratta di committenza pubblica, dove non è in gioco solo quello che riguarda il singolo – come nel privato –, ma quello che riguarda tutti. In questo caso, non avere una vera committenza all’altezza del compito può essere disastroso per il nostro vivere civile. Una comunità e una città che non riescano a realizzare i propri edifici e i propri spazi pubblici in maniera adeguata perderanno anche il senso della vita associativa e saranno invece più propense a richiudersi nella sfera privata e domestica. Si capisce come la questione sia davvero complessa e di grande rilevanza, molto difficile da affrontare, ma del tutto ineludibile e non semplificabile.

Ogni architetto ha l’obbligo di descrivere la propria architettura

A poco sono valse le scorciatoie intraprese da alcuni, che hanno preteso di misurare la qualità architettonica di un manufatto a partire dalle sue caratteristiche tecnico-prestazionali in merito alla sostenibilità, all’efficienza, al riciclo e altro ancora. È ovvio che oggi pretendiamo di realizzare edifici sostenibili ed efficienti, compatibilmente con le economie che abbiamo e con  l’ambiente e il contesto in cui lavoriamo. Quello che invece ci manca, e che cerchiamo, è molto di più: qualcosa che non si dà per legge, che non può essere misurato con una certificazione, che non è assicurato a priori, che non possiamo comprare. Stiamo parlando di quel qualcosa che i nostri antenati, in alcuni momenti, sono stati capaci d’introdurre nei loro manufatti, rendendoli magnifici al punto da essere ancora buoni per noi oggi. Queste nostre straordinarie città, che abbiamo ereditato dal passato, sono capaci di raccontarci tutto questo e c’incitano a ideare cose che possano rivaleggiare con esse. A questo punto, tornando al titolo della conversazione, “Caduta e ricostruzione della Polis”, possiamo constatare che almeno in  Europa – e sicuramente in grande rilevanza nel nostro Paese –, i due termini non sono mai stati in opposizione. Per meglio dire, possiamo affermare che da noi ogni generazione ha cercato di ricostruire la propria polis, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso; ogni uomo ha sentito forte in sé il diritto e il dovere di farlo, ma non con l’arroganza di chi vuole cancellare il passato per imporre il proprio presente, piuttosto con la consapevolezza di chi è convinto che il passato gli appartiene: convinto che “la bellezza ricevuta” è un suo patrimonio e che il suo compito – che poi dovrebbe essere il compito di tutti gli uomini –, resta quello di accogliere questa bellezza del passato, preservarla e ampliarla con il proprio operato. Ogni uomo è costretto a ri-negoziare la propria appartenenza a questo mondo e alla comunità di cui fa parte e ogni volta è obbligato a ricostruire la propria polis, dal punto di vista sociale, civile, politico, culturale e anche architettonico, e può farlo solamente distruggendo metaforicamente, e qualche volta materialmente, quella del passato. I due termini per noi non sono stati quasi mai in opposizione, bensì sono le due facce della stessa medaglia e sono proprio le nostre città a rappresentare oggi questa immensa ricchezza; uno sterminato e inesauribile palinsesto, in cui convivono materialmente e formalmente il vecchio con il nuovo, l’antico con il moderno, il normale con l’eccezionale, il simile con l’estraneo, il domestico con il pubblico, ma anche il potere politico con quello religioso e il lavoro con lo svago. In una parola, possiamo vedere le nostre città come i palcoscenici perfetti per vivere pienamente la grande commedia della vita umana, dove ognuno può essere protagonista e può scegliere il luogo dove stare al meglio, nel bene e nel male, anzi con il bene e con il male. Non un Eden ideale, ma un luogo reale, buono per costruire e vivere le proprie storie.

Ogni uomo è costretto a ri-negoziare la propria appartenenza a questo mondo e alla comunità di cui fa parte e ogni volta è obbligato a ricostruire la propria polis

Purtroppo, da qualche tempo, tutto questo sembra essersi interrotto in favore di finte città, costruite come – improbabili – isole felici, con luoghi apparentemente protetti dai rischi della vita e miseramente diventati veri e propri ghetti, dove le singole parti si pongono contro l’insieme delle parti: in una parola, tutto il contrario di quello che la polis rappresenta. A noi e alla nostra Domus il tema della città sta molto a cuore, c’interessa molto, al punto da averlo voluto addirittura nel sottotitolo della testata, “La città dell’uomo”, e avergli dedicato nel corso di questa direzione più di una riflessione. Per questo, sono stato davvero contento di vedere che un argomento così delicato e importante per la vita di tutti possa uscire al di fuori delle barriere disciplinari e approdare a un dibattito pubblico, addirittura dentro l’incomparabile cornice di un teatro. Aver visto, poi, così tanta attenzione e partecipazione intorno a queste conversazioni, ci conforta e ci spinge a fare di più, a fare meglio e a proseguire  nel lavoro. Tutto questo, però, ci mette anche di fronte al forte debito che le discipline che oggi si occupano dell’abitare hanno nei confronti dell’opinione pubblica, nei confronti dei cittadini: abbiamo un forte debito di comunicazione rispetto a quello che l’architettura potrebbe e dovrebbe fare per migliorare la vita gli uomini. Non vogliamo più entrare nel futuro indietreggiando e per questo vogliamo batterci, non da soli ma insieme con le centinaia di persone che abbiamo trovato al Teatro Argentina, con i lettori di Domus, con gli studenti universitari e tanti altri ancora: vogliamo vivere.
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