menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

sabato 1 ottobre 2016

Questions

Islam e laicità francese: un concubinato complesso

di Stefano Carpentieri

Lo Stato rispetta e garantisce la libertà di religione. Ma cosa accade se una religione non rispetta le regole dello Stato

Quando si parla di Repubblica francese, vi sono delle parole che vengono in mente, prima di altre: “libertà, eguaglianza, fraternità”, senza dubbio, ma uno dei termini che meglio contraddistingue la macchina amministrativa francese è “laicità”.
Laicità tenuta in altissima considerazione, perché ottenuta in seguito a una lunga e dolorosa separazione dalla chiesa cattolica, culminata nella legge del 9 dicembre 1905 che pone fine al sovvenzionamento diretto del clero cattolico e sancisce l’assoluto controllo dello Stato sui tutti i luoghi di culto. Si completa quindi un processo di separazione tra Stato e Chiesa che era già iniziato con il Concordato napoleonico.
In breve, lo Stato laico è l’unico proprietario dei luoghi di culto e ne permette l’utilizzazione ai gruppi religiosi garantendone la manutenzione necessaria alla pratica. Per facilitare le relazioni tra l’amministrazione statale e la congregazione, quest’ultima è tenuta a organizzarsi in “associazioni di culto” e a fornire dettagliati rapporti sui fondi utilizzati per pagare i suoi rappresentati, i quali a loro volta pagano le tasse come tutti i cittadini.
Ma come si organizza lo Stato francese riguardo a quelle religioni che non erano rilevanti nel 1905 o rispetto a quei culti che non dispongono di una gerarchia clericale con la quale trattare? Più nello specifico: come si relaziona lo Stato francese all’islam?
All’indomani dell’attentato all’Hyper Cacher il primo ministro Manuel Valls invocava il divieto di finanziamenti esterni per il culto musulmano e il ministro degli interni Bernard Cazeneuve affermava che la Francia aveva bisogno di imam che conoscessero la lingua francese e i princìpi della Repubblica. Queste affermazioni sono rappresentative delle enormi difficoltà che sussistono nell’applicare pratiche di laicità all’islam.
Con un numero di fedeli stimato tra i 4 e i 6 milioni, l’islam è oggi la seconda religione di Francia; nonostante una presenza pluridecennale nell’esagono, i musulmani vivono in una condizione di crescente difficoltà e scissione dallo Stato francese. Senza dubbio un ruolo fondamentale è da attribuirsi ai recenti attacchi terroristici rivendicati dall’Is ed effettuati da sedicenti musulmani, ma le tensioni tra l’islam e la laicità francese hanno radici molto più lontane.
Già a partire degli anni Ottanta diverse personalità politiche si sono poste il problema della costruzione di un “Islam à la francese”; ossia di inquadrare la pratica della religione islamica in modo che lo Stato abbia un controllo diretto dei finanziamenti e possa accertarsi che la dottrina non professi valori contrari a quelli della Repubblica. Già nel 1988 l’allora ministro degli Interni Pierre Joxe cercò di inserire nell’agenda governativa una strutturazione del culto islamico; un secondo tentativo venne effettuato nel 1993 da Charles Pasqua che, assieme al “Consiglio rappresentativo dei musulmani di Francia”, rilanciò il dibattito.
Tuttavia i primi risultati concreti si sono visti solo nel 2003 con la creazione del tutt’oggi esistente Consiglio Francese del Culto Musulmano (CFCM). Questo organismo, strutturato come un’associazione di utilità pubblica (legge 1901) - avente come scopo la rappresentanza della comunità musulmana presso lo Stato francese - non ha di fatto alcun contatto con i fedeli, al punto che lo stesso ex-direttore Mohamed Moussaoui ha definito la sua esperienza “fallimentare”.
Non a caso, gli incidenti tra la comunità musulmana e lo Stato francese si sono moltiplicati: dal divieto, stabilito nel 2010, di portare il velo integrale (che sia niqab o burqa), alle continue difficoltà incontrate nella costruzione di luoghi di preghiera adeguati, al mancato inquadramento giuridico del mercato halal, al problema della radicalizzazione dei detenuti e alle partenze per il jihad (la maggior parte degli stranieri partiti per combattere in Siria per l’Is è di origine francese), per terminare, nel 2016, con il recente bando dei burkini (costumi da bagno che coprono integralmente il corpo della donna) da parte di diversi comuni nel 2016.
Tutto ciò su uno sfondo di crescente marginalizzazione sociale dei musulmani, per lo più residenti nelle banlieues (periferie) più povere, che a loro volta si ripiegano sulla loro identità culturale per difendersi dagli attacchi sempre più veementi; attacchi politici, ma non solo, in un Paese ove molte voci si levano per lamentare l’inconciliabilità tra islam e Repubblica.
La dottrina coranica prevede infatti un’unità di Stato e culto; in base a essa la legge sacra (sharia), che regola la vita dei cittadini sotto tutti gli aspetti, prevede che tocchi allo Stato permettere ai fedeli di praticare il culto, tramite la gestione dei luoghi di preghiera e il sostentamento dei predicatori, ossia gli imam. L’imam, a sua volta, non è un esponente di un clero, né è obbligato a seguire una formazione standardizzata, ma è “eletto” dalla umma (la comunità dei credenti) per le sue qualità. Diviene dunque impossibile per i musulmani di Francia ottenere che lo Stato sovvenzioni la pratica religiosa; altrettanto impossibile risulta per lo Stato francese controllare la dottrina predicata dai differenti imam, tanto più che i musulmani in Francia, per quanto si riconoscano in una comune identità opposta alla laicità, tra di loro non condividono la stessa dottrina.
Una commissione d’inchiesta parlamentare istituita lo scorso luglio ha confermato l’esistenza di molteplici comunità musulmane sul territorio francese, ognuna delle quali è legata inestricabilmente al Paese di origine. Le comunità maggioritarie sono la marocchina, l’algerina, la tunisina e la turca. Sono dunque i rispettivi Paesi che finanziano il culto musulmano inviando degli imam in Francia, pagandone gli stipendi e finanziando la costruzione e la gestione dei luoghi di culto. Infatti il Marocco nel 2016 ha versato 6 milioni di euro per il sostegno del culto musulmano in Francia, l’Algeria ha donato 2 milioni di euro alla grande moschea di Parigi, mentre risulta impossibile quantificare il contributo della Turchia, che viceversa transita direttamente sui conti degli imam distaccati.
Si crea pertanto il paradosso di uno Stato francese che, da un lato, vorrebbe integrare i cittadini di fede musulmana e assimilarli ai propri valori, ma, dall’altro, non può intervenire direttamente se non limitando le loro libertà secondo la dottrina della laicità dello Stato o della sicurezza e dell’ordine pubblico.
Nonostante queste difficoltà, l’islam ha sempre dato prova di un’estrema praticità e capacità di adattamento, tant’è vero che per lunghi secoli, tra il Medioevo e il Rinascimento, la cultura islamica è stata predominante nel bacino del Mediterraneo, come testimoniano i numerosi esempi di personalità di fede musulmana perfettamente integrati: uno per tutti Sadiq Khan, il nuovo sindaco di Londra.

Certo, Londra non è Parigi, ma ciò non toglie che per la maggioranza delle persone i musulmani di Francia sono ritenuti francesi a tutti gli effetti. Del resto l’integrazione non si persegue solo attraverso le politiche statali, ma è anche, e forse soprattutto, una questione di pratiche quotidiane.

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Adonis contro l'Islam totalitario

di Camilla Tagliabue

«La stragrande maggioranza della società araba è ancora dominata dall’ignoranza, dall’analfabetismo e dall’oscurantismo religioso… Purtroppo, bisogna constatare che il pensiero arabo, anche quello che viene definito moderno, rimane dogmatico e prigioniero di una mentalità tribale… Non siamo mai usciti dal Medioevo». A dirlo non è un politico reazionario né un militante di estrema destra né un cronista fallaciano (nel senso di Fallaci, non di fallace), ma un raffinatissimo poeta siriano, di formazione filosofica e studi internazionali, più volte candidato al Nobel e da anni di stanza a Parigi: Ali Ahmad Sai‘id Esber, alias Adonis.


Al di là della feroce invettiva storico-politica contro la confessione musulmana, quel che è più stimolante e inedito, in questo j’accuse intitolato Violenza e Islam, è l’interesse per la forma e metamorfosi linguistiche nel mondo islamico, perché – si chiede lo scrittore – «se la lingua non si è evoluta, come si può creare una modernità?». È la lingua, ad esempio, a smascherare lo strisciante sessismo e maschilismo di quella cultura: «Non esistono parole arabe per designare queste forme di maltrattamento nei confronti della donna, né alcun termine giuridico per nominare lo stupro coniugale». Quanto alla misoginia, «“vergine” si dice solo al femminile e la menopausa è l’“epoca della disperazione”… La donna è scomparsa a tutto vantaggio della matrice; la femminilità è stata ridotta a campo da coltivare per l’uomo». Pure della sessualizzazione del corpo, e viceversa della sessuofobia che costringe a coprirlo e velarlo, c’è traccia nel lessico: esistono, infatti, due lemmi per indicare il “corpo”, di cui uno è per «il corpo erogeno, libidico».
Da poco edito da Guanda (traduzione di Sergio Levi, pagg. 190, € 14,00), il saggio raccoglie lunghe conversazioni tra l’intellettuale e la psicoanalista Houria Abdelouahed, spesso troppo inchiodata al suo credo psicologico, così come Adonis è smaccatamente ateo: è questa duplice radicalità, forse, l’unico neo del libro, che nel complesso ha una encomiabile potenza drammatica e scuote più di tanti studi e variazioni sul tema. Lo choc è riservato soprattutto alle anime belle dell’intellighenzia progressista: qui non esiste il cosiddetto islam moderato perché «c’è un solo islam»: «L’uguaglianza e la democrazia non derivano dal testo coranico, né dalla storia degli arabi, ma dal mondo occidentale». Anche l’Occidente tuttavia ha le sue colpe, che sono – come sopra – in primis linguistiche: la parola “burqa”, ad esempio, non dovrebbe essere usata per designare il velo integrale, poiché significa “pecora, bestia da soma”. Politicamente poi l’Occidente «ha sempre contribuito al mantenimento delle dittature nel mondo arabo. E oggi sostiene i fondamentalisti».
Il pamphlet è decisamente sbilanciato sulla Pars destruens, anche perché, a detta dei due autori, finora poca o nulla è stata la messa in discussione dell’islam, del suo Testo, della sua Storia: «Nel mondo arabo manca dolorosamente, ancora oggi, un lavoro storiografico… C’è evidentemente una mancanza di spirito di ricerca e di innovazione. Si direbbe che agli arabi manchi una sana tendenza a mettere in discussione le cose». Nemmeno la recente “Primavera” è stata «una rivoluzione, bensì una guerra di matrice confessionale, tribale e non civica, musulmana e non araba… Ciò che è in corso a partire dal 2011 è una sorta di ritorno al pre-umano, al selvaggio». Nei secoli, i moti rivoluzionari interni e le rivolte progressiste sono stati pochi e risibili: prima repressi nel sangue e poi epurati dalle cronache ufficiali, senza che si potesse sedimentare alcuna memoria storica o coscienza civile.
L’islam è una religione «totalitaria», intrinsecamente politica, e quindi, per contro, la politica è sempre confessionale. Bandita la laicità, la fede è stata facilmente strumentalizzata a fini di controllo politico e arricchimento economico, come ha dimostrato l’Isis, il quale, «per estendere il proprio potere, si impadronisce dei pozzi di gas e di petrolio e si arricchisce vendendo pillole ai jihadisti. Ancora una volta, denaro e sesso». L’islam «è nato come potere politico ed economico, e fin dall’inizio ha adottato la violenza delle guerre e delle conquiste… L’altro va annullato in quanto altro. Di qui la violenza che pervade il jihad».
La guerra santa non ha risparmiato neanche la mistica e la spiritualità, in una religione, peraltro, «le cui basi erano più pulsionali che simboliche». Il paradiso è diventato una promessa materiale di carne vergine, «bere, magiare e copulare». La donna è ridotta a «un sesso, un oggetto», mentre l’uomo è «un libertino». Altro grave delitto è quello della cultura e dell’arte: la poesia e la filosofia sono state osteggiate e censurate, decretando la scomparsa della «dimensione estetica e di quella scientifica… Questa Umma (comunità, ndr) non ha alcuna presenza creatrice in alcun settore della civiltà umana. Nel mondo contemporaneo gli arabi sono assenti. È la morte». Oltretutto, la fede ha annichilito se non annientato l’io, la soggettività e quindi il libero arbitrio: il futuro, il progresso è tutto e solo nel passato, sempre idealizzato, e «il Testo è più importante della realtà».
Nell’apocalittica visione di Adonis, l’unica «speranza è che l’Isis rappresenti il canto del cigno di questo islam… Se guardiamo da vicino la sua bandiera nera, notiamo che mancano i punti diacritici. Persino la scrittura è invitata a regredire». Più che un Profeta, alla causa araba servirebbe un degno Poeta, o almeno un correttore di bozze.

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