menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

sabato 1 ottobre 2016

Alta formazione, tante contraddizioni


L’Università tra apocalittici e integrati

di Massimo Carlo Giannini

Un recente articolo di Sergio Rizzo ha puntato l’indice contro il familismo che alligna nell’Università italiana, facendo alcuni esempi impressionanti di figli, mogli e mariti che lavorano nei medesimi Dipartimenti. La denuncia nasce da alcune frasi di Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anti-corruzione, circa i numerosi esposti sui concorsi universitari e il fatto che la fuga dei cervelli sarebbe legata alla chiusura dell’Università al merito. Il medesimo “Corriere della Sera” pubblica anche l’intervista a Roberta d’Alessandro, una studiosa italiana che insegna a Leida e racconta la sua esperienza di emigrazione accademica. La questione è stata poi ripresa da altri quotidiani in un fuoco di fila di denunce e racconti di casi personali, di fronte ai quali è facile cadere nella consueta disputa tra favorevoli e contrari, puntualmente manifestatasi nei social network. Da un lato, coloro i quali condannano la decadenza dell’Università italiana, sentina di ogni vizio nazionale, a cominciare dal familismo dei “baroni”. Dall’altro, coloro i quali affermano che si tratta di un attacco ingiusto, frutto di un complotto per screditare l’Università, e che il vero problema risiede nel sotto-finanziamento della ricerca.

I meccanismi della comunicazione, come è noto, giocano su sentimenti elementari: empatia o indignazione. In questa contesa tra apocalittici e integrati, per rubare la celebre definizione coniata da Umberto Eco, si rischia, però, di perdere di vista alcuni elementi importanti e di non compiere alcuna analisi costruttiva. In primo luogo, è sotto gli occhi di tutti il sostanziale fallimento della legge Gelmini di riforma dell’Università, varata nel 2010, che, lungi dall’abbattere il potere dei “baroni”, lo ha ampliato e cristallizzato. La legge prevede il divieto di assumere coniugi e parenti nel medesimo Dipartimento universitario. Ma è davvero questo il principale problema? Secondo i dati forniti da Giuseppe De Nicolao sul sito Roars parrebbe di no. Il vero guaio è che la legge Gelmini non solo ha chiuso le porte della stalla quando i buoi erano fuggiti, ma ha consentito (casualmente?) che la scelta dei docenti fosse demandata, in pratica, all’arbitrio di rettori e direttori di Dipartimento. Questi agiscono senza alcun contrappeso né responsabilità, purché riescano a soddisfare gli interessi dei gruppi d’interesse e di potere.
Dobbiamo dunque guardare ai meccanismi di reclutamento. Accanto all’abilitazione scientifica nazionale - una sorta di patente per la docenza universitaria, cui non corrisponde, però, un posto - concessa senza alcun tetto, la legge Gelmini ha previsto un sistema cervellotico di concorsi locali: alcuni riservati agli abilitati “interni” (coloro i quali già lavorano nell’Università che bandisce il concorso), altri “aperti” (interni ed esterni all’Ateneo che bandisce il concorso) e altri ancora, una percentuale infima, riservati ai soli “esterni”. Il fatto stesso che ogni singola Università abbia norme diverse per tali concorsi ha finito per creare una condizione di assoluta opacità, che favorisce, da un lato, chi detiene le leve del potere accademico e, dall’altro, impedisce la mobilità dei docenti fra Atenei, l’ingresso di “outsider” e di studiosi non italiani, all’insegna del più ferreo localismo. Con quali esiti sulla meritocrazia tanto evocata da ministri e rettori è facile intuire. Questa situazione è stata ulteriormente complicata dal fatto che i diversi governi hanno preferito aggiungere svariati canali straordinari di reclutamento (le varie tipologie di “chiamate” dall’estero): meccanismi che non hanno risolto la crisi della docenza universitaria e, a ben vedere, sono un vero e proprio monumento all’incapacità di metter mano a riforme incisive.
Rappresentare l’Università come il concentrato di tutti i mali italiani ha il sapore dell’ipocrisia in un Paese in cui si ama parlare di promozione del merito solo se riguarda qualcun’altro. Spesso poi si discetta di ciò che non si conosce: ad esempio i mass-media raccontano che i “cervelli in fuga” all’estero conquistano posizioni e stipendi molto più elevati di quelli che elargisce l’Università italiana, come se ciò fosse la riprova della corruzione accademica. In realtà essi ignorano che, da almeno due decenni, l’Italia paga i docenti di Scuola e Università molto meno di quanto faccia il resto dei paesi industrializzati. E, allo stesso modo, nel resto del mondo, si vincono le cattedre universitarie, in un’età che il sistema gerontocratico italiano definisce “giovane” (fra i 30 e i 40 anni). Insomma chi ha ottenuto un posto all’estero non è pagato di più perché più bravo di molti colleghi italiani, ma solo perché all’estero i docenti universitari sono assunti nell’età di maggior capacità intellettuale e pagati per ciò che sono e non come impiegatucci cui far timbrare il cartellino. Quello che fa la differenza - e tanto - è il sistema di selezione, che in Italia non riesce a uscire dalle secche di una cooptazione poco trasparente.
Come uscire da questa situazione? Se proviamo a ragionare a mente lucida, vediamo che le ricorrenti campagne di denuncia contro il familismo distolgono l’attenzione dal fatto che esso va affrontato con pragmatismo. Nelle tanto esaltate Università degli USA, la scelta dei professori è discrezionale - sulla base del curriculum - ed è prassi normale e perfettamente logica consentire all’eventuale partner del vincitore di trovare lavoro nelle medesime strutture universitarie, nel settore amministrativo, oppure, ove ne abbia le competenze, come docente. Alla base vi è l’idea che, se al Dipartimento interessa una o un docente, deve metterla/o nelle condizioni di avere anche una vita familiare serena, così da poter ottenere da lei/lui il massimo. Il tutto avviene nella massima trasparenza, senza alcuno scandalo. Nel caso italiano, al contrario, tutto è lasciato al retto sentire di rettori, direttori di Dipartimento e delle commissioni di concorso. Il che significa che regna l’irresponsabilità: le commissioni valutatrici - se vogliono - possono consentire l’ingresso nei ranghi accademici a personaggi degni del cavallo di Caligola fatto senatore, perché nessuno sarà chiamato a rispondere delle sue decisioni. Con l’effetto che basta un solo caso scandaloso a gettare discredito su tutto e tutti senza distinzione.
Un primo rimedio, se si vogliono impedire dinastie e localismi, sarebbe stabilire per legge che l’accesso ai vari ruoli (ricercatore, professore associato e professore ordinario) non possa avvenire nella medesima Università, né all’interno della stessa regione. In questo modo si incentiverebbe una mobilità virtuosa che farebbe circolare aria nuova nell’Università italiana e, forse, la renderebbe interessante per gli studiosi stranieri o emigrati.
La soluzione più semplice e radicale sarebbe poi sbaraccare il farraginoso e opaco sistema di reclutamento, in cui leggi e regolamenti servono solo a essere regolarmente aggirati, per liberalizzare la scelta dei docenti. Se il Dipartimento X vuole come professore un asino, che sia libero di chiamarlo. Ciò deve avvenire alla luce del sole e a patto che la produzione scientifica del vincitore sia sottoposta a una valutazione a posteriori da superare con almeno un “buono”. Qualora i risultati in termini di produttività e di qualità della ricerca del vincitore non fossero adeguati, la commissione che l’ha selezionato e il Dipartimento che l’ha scelto dovrebbero subire una penalizzazione economica: perché no, una significativa decurtazione dello stipendio ai selezionatori e ai fondi del Dipartimento. In questo modo sarà salva l’insindacabilità del giudizio scientifico delle commissioni di concorso, i cui membri saranno, però, finalmente responsabili delle loro scelte di fronte alla collettività.

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