menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

martedì 10 luglio 2018

“Conservazione”, “progresso”. “Destra”, “Sinistra”. La verità oltre lo storytelling

Realtà: L’ISTAT certifica l’aumento della povertà assoluta in Italia. I dati, riferiti al 2017, riguardano circa 5 milioni di individui, l’8,3% della popolazione residente, in espansione rispetto al 7,9% del 2016 e al 3,9% del 2008. Le famiglie in povertà assoluta sono 1,8 milioni, con un’incidenza del 6,9%, in crescita di sei decimi rispetto al 6,3% del 2016 (era il 4% nel 2008). La ripresa dell’inflazione nel 2017 spiega circa la metà (tre decimi di punto percentuale) dell’incremento dell’incidenza della povertà assoluta, la restante parte deriva dal peggioramento della capacità di spesa di molte famiglie che sono scese sotto la soglia di povertà (Fonte: Presidente dell’ISTAT, Giorgio Alleva, in scadenza di mandato – 14 Luglio 2018 – con indennità di carica di 240.000,00 € lordi annui).
Complessivamente, si stima che nel 2017 siano in povertà assoluta 154 mila famiglie e 261 mila individui in più rispetto al 2016. Dal punto di vista territoriale, i dati provvisori mostrano aumenti nel Mezzogiorno e nel Nord, e una diminuzione al Centro. L’aumento delle famiglie in povertà assoluta è, inoltre, sintesi di una diminuzione in quelle in cui la persona di riferimento è occupata, e di un aumento in quelle in altra condizione.
Inoltre, un milione di famiglie è senza lavoro, sono raddoppiate in 10 anni. Nel 2017 in 1,1 milioni di famiglie italiane “tutti i componenti appartenenti alle forze di lavoro erano in cerca di occupazione”, pari a 4 famiglie su 100, in cui non si percepiva dunque alcun reddito da lavoro, contro circa la metà (535mila) nel 2008. “Di queste, – dice Alleva – più della metà (il 56,1%) è residente nel Mezzogiorno. Nel complesso si stima un leggero miglioramento rispetto al 2016 (15mila in meno), ma la situazione al Sud è in peggioramento (13mila in più)” (Fonte: ANSA).
Politica: … Ehm. Secondo il timbro col quale viene pronunciata può sottolineare un moto di incertezza, di imbarazzo, di incredulità, o di indifferenza, riassumere una larvata minaccia (Non si lasci scappar parola… altrimenti… ehm! aveva detto uno di que’ bravi – “I promessi sposi” di A. Manzoni, 1827) o semplicemente servire di avvertimento per qualcuno che parla a interrompere o cambiar discorso.
Conservazione”, “progresso”. “Destra”, “Sinistra”. La verità oltre lo storytelling
«Ogni nuova verità nasce nonostante l’evidenza», Gaston Bachelard
Per avviare il discorso sulla “conservazione” nella società contemporanea, si propone qui una riflessione sui cambiamenti economico-sociali e politico-culturali in atto che riguardano, prevalentemente, la forma e non la sostanza dei rapporti sociali. Più precisamente, si ritiene che all’orizzonte non sia affatto possibile scorgere nuove strutturazioni e/o ribaltamenti gerarchici nella “composizione” [1] e “situazione” [2] di classe su scala planetaria; semmai, alcuni aspetti di costume “politically correct” hanno distolto l’attenzione dai processi di emancipazione storico-sociale, ritenuti ormai quasi inessenziali, considerata, con pervicacia antistorica ed antiteorica, l’inalterabilità della dimensione mercantile ed interdipendente delle formazioni economico-sociali nell’odierno capitalismo globale [3].
Tra l’altro, le alternative di costume [4] – apparenze fenomeniche di mutamenti affatto fondativi di un inedito vivere sociale – non procurano gli effetti auspicati, bensì sono esse stesse congegnate come perfettamente funzionali all’attuale consolidamento del cosiddetto capitalismo post-borghese e post-proletario. Ecco perché la categoria filosofico-politica della “conservazione” è quella che meglio s’adatta all’odierno scenario nell’interpretare le tipiche dinamiche delle attuali formazioni economico-sociali. Infatti, “conservazione” non significa “inazione”, “immobilismo”, “stasi”, “blocco nostalgico”; palesa semanticamente, viceversa, l’azione del “mantenére”, l’agire in modo che il presente, con le sue caratteristiche, duri a lungo, perduri appunto, rimanga in essere e in efficienza; questa accezione mette in rilievo l’intenzione, l’opera, i mezzi volti a tal fine; evidenzia, dunque, il ruolo indispensabile della soggettività che orienta i comportamenti nel far rimanere la situazione sociale in una determinata stabile condizione, oltre la quale non vuole andare.
Le battaglie sociali di retroguardia – quelle sui “diritti” sociali e politici, ad esempio –, rispetto a quella centrale per il “potere”, sono diventate, quindi, veri e propri ostacoli culturali per l’elaborazione di un pensiero e di una cultura efficacemente anticapitalistiche e delle correlate prassi antagoniste.
Concentrare su questo tema – la “conservazione” – il pubblico dibattito è arduo perché si rischia il fraintendimento o il linciaggio da parte delle vestali della realpolitik ignare queste ultime, in verità, del fallimentare problem solving connesso al “pragmatismo” che avrebbe dovuto secolarmente generare.
Le critiche a questa analisi sono fin troppo chiaramente presenti nella coscienza di chi scrive; tuttavia, rinunciare non favorirebbe il superamento del pregiudizio tardo-illuminista, veicolato dal positivismo e contrastato dal marxismo, secondo cui non potrebbe essere realizzato se non ciò che storicamente si realizza. Scrive a suo modo, in proposito, Il giovane favoloso (rif. al film del 2014 diretto da Mario Martone), Giacomo Leopardi (rif. al Canto XXXIV – La ginestra, o fiore del deserto, 1836): Dipinte in queste rive Son dell’umana gente Le magnifiche sorti e progressive. Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. Distaccandosi dal lirismo, più in generale, le definibili magnifiche sorti e progressive ci portano ad affermare che, secondo il pregiudizio tardo-illuminista, l’umanità avrebbe operato indefessamente, pur nell’affiorare di contraddizioni, pur nell’inevitabilità dei conflitti e del fiorire di dilemmi teorico-pratici, per il progresso economico, tecnico, scientifico, sociale e politico dei popoli. A questa errata convinzione è necessario opporre domande obiettive riguardo alla realtà della condizione umana 5 e sulla sua configurazione attuale circa il possesso d’una specifica dimostrazione di verità sul raggiunto “progresso”. Pertanto, ci si propone di scomporre questi interrogativi in due delimitate questioni, che saranno affrontate in successione.
  • La prima può essere così formulata: esiste una comprensione “obiettiva” dell’idea di progresso consegnataci dalla rivoluzione socio-culturale, prima che politico-istituzionale, dell’intraprendente borghesia del Settecento europeo? Esiste, cioè, un’ermeneutica super partes di questa nozione, capace di metterne in luce aspetti nuovi e originali rispetto a quanto farebbero l’organizzazione economica della società, la filosofia o le scienze, di chiarire eventuali ambiguità o esplicitarne meglio le implicazioni?
  • La seconda quaestio alla quale si giunge è la seguente: può l’interpretazione di classe, il punto di vista partigiano, aiutare a comprendere i rapporti che intercorrono fra progresso economico-sociale, scientifico e progresso umano, la dinamica delle loro interazioni, ma anche le condizioni richieste per una loro convergenza?
In ambedue i casi ci si chiede, in definitiva, cosa il tempo presente possa aggiungere ad un ragionamento sul “progresso” e, specularmente, sulla “conservazione”.
Come chiosa a queste riflessioni, si riferisce la formulazione, per certi versi la più avanzata nonostante l’aspetto feuerbachianamente alienato, dell’idea di progresso decodificata come “sviluppo umano”: secondo la definizione dell’United Nations Development Programme, esso consiste in «un processo di ampliamento delle possibilità umane che consenta agli individui di godere di una vita lunga e sana, essere istruiti e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di vita dignitoso», nonché di godere di opportunità politiche economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza.
Gli obiettivi generali dello sviluppo umano sono i seguenti:
* promuovere la crescita economica sostenibile, migliorando in particolare la situazione economica delle persone in difficoltà; * migliorare la salute della popolazione, con attenzione prioritaria ai problemi più diffusi e ai gruppi più vulnerabili; * migliorare l’istruzione, con priorità all’alfabetizzazione, all’educazione di base e all’educazione allo sviluppo; * promuovere i diritti umani, con priorità alle persone in maggiore difficoltà e al diritto alla partecipazione democratica; * migliorare la vivibilità dell’ambiente, salvaguardare le risorse ambientali e ridurre l’inquinamento.
Al posto degli indicatori che si riferiscono alla sola crescita economica (come il prodotto nazionale lordo), che nulla dicono degli squilibri e delle contraddizioni che stanno dietro alla crescita, l’U.N.D.P. utilizza dal 1990 un nuovo indicatore di sviluppo umano (ISU o HDI nell’acronimo inglese).
Bisogna riconoscere che corrispondere in maniera conoscitiva alle problematiche poste va incontro ad alcune difficoltà. Nei riguardi della prima, circa l’esistenza di una specifica ermeneutica teleologica di progresso, va osservato che molte delle visioni filosofico-politiche sul tema affondano le loro radici proprio nel pensiero classista borghese e in alcuni casi ne rappresentano sviluppi, ma anche derive e radicalizzazioni.
Sarebbe difficile scrivere una storia dell’egemonia economica e culturale della borghesia, fino all’assetto globale della contemporaneità, eterodiretto dall’Occidente, senza chiamare in causa categorie originariamente elaborate dal processo rivoluzionario che ha fatto i conti con l’ancien régime (ricordiamo che con il colpo di Stato del 9 termidoro, il 27 Luglio del 1794, le vicende volgono verso altre mete determinando l’ascesa di Napoleone); se non lo si fa è perché queste vengono di solito implicitamente assunte, non più tematizzate verificandone l’applicazione storica, o in alcuni casi perfino espropriate dei loro originari significati.
In merito alla seconda domanda, quella inerente le eventuali luci che i principi di uguaglianza, libertà e fratellanza, precocemente abbandonati, avrebbero gettato sul rapporto fra progresso economico-sociale, scientifico, tecnico e progresso umano, la difficoltà nasce da alcune visioni oggi non più compresse e non più comprimibili nell’ideologia della classe dominante, come ad esempio quella di una supposta dialettica armonia fra ragione capitalistica e democrazia, fra materialità dell’esistenza e sistema giuridico-valoriale, fra scienza e umanesimo, fra poteri e popoli, che finisce col condizionare anche la comprensione del rapporto fra ciò che è umanamente rivendicabile e ciò che è ritenuto oggetto di immodificabile, totalitaria organizzazione (secondo il criterio di naturalizzazione dei fatti storici) dei rapporti di produzione e di riproduzione della vita sociale. Desiderando sintetizzare, si può dire che la tela può più volte essere dipinta, ma sempre all’interno d’una stessa cornice, mentre è il perimetro del quadro oltre che l’effige a caratterizzarne la qualità; nel caso in questione, l’estensione del capitalismo e la tutela di società e natura (rif. a K. Polanyi).
Solo lasciando alla storia e non alla storiografia la libertà di impiegare le proprie potenzialità piuttosto che affidarsi alla retorica ed all’apparato teorico categoriale, sarà possibile superare alcuni schemi predeterminati e giungere perfino a suggerire, come si mostra in questo intervento, che progresso economico-sociale ed emancipazione umana sono, per la ricerca non prezzolata, intimamente legati. Un vero progresso non può che essere progresso sociale, ed una vera emancipazione umana non può che includere in sé, come sua dimensione costitutiva, un vero ed irreversibile avanzamento nelle forme storiche dei rapporti sociali.
Pertanto, vigente tutt’ora il sistema capitalistico-borghese [6] (i cui prodromi sono di epoca remota e affondano alcune delle proprie radici nell’Europa tardo-medioevale, in particolare in quel protocapitalismo finanziario e commerciale incarnato dalla figura dei mercanti imprenditori e dalla fenomenologia dell’accumulazione originaria), nient’altro si può affermare che la sussistenza strutturale d’una compatibilità tra “conservazione” e regime politico planetario. Tale compatibilità non è mai stata scalfita in oltre quattro secoli, nonostante la legislazione sociale, il Welfare State universalistico, la fuoriuscita nominale dallo schiavismo che autorizza alcuni a ritenere avvenuto un miglioramento delle condizioni di vita senza precedenti nella storia dell’umanità mettendo sotto silenzio in quali circostanze e come avesse avuto origine e come continua tutt’ora l’accumulazione di ingenti somme di danaro che sole hanno potuto avviare e consolidare la grande produzione capitalistica e la “società di massa”.
Per valutare quale contributo la borghesia abbia recato all’idea di progresso non è la concezione imprenditoriale della tecnica o del lavoro umano che va messa a tema, perché un rapporto fra capitalismo e progresso coinvolge comunque in primis la concezione della storia e della libertà, e solo secondariamente l’emancipazione umana dallo sfruttamento e la riconciliazione tra lavoro manuale ed intellettuale nella generalità delle persone. Questo perché la “rivoluzione borghese”, nell’ambito dell’affermazione definitiva del modello capitalistico, ha sostituito funzioni ed inventato “figure” sociali, ma non ha alterato la gerarchia del comando politico a difesa dei propri interessi economici sussumendo, nella logica del profitto, le classi subalterne.
Forgiata soprattutto nella “modernità”, l’idea di “progresso” contrapposta a quella di “conservazione”, viene ampiamente perfezionata nel Seicento da Francesco Bacone e da Cartesio, allo stesso modo nel Settecento con la fondamentale stagione illuministica che si immette nell’indirizzo di pensiero positivista di Comte e trova, successivamente, un importante crocevia rappresentato dall’Idealismo hegeliano il cui portato filosofico darà più tardi origine a commistioni con le utopie veicolate nell’Ottocento dal socialismo non scientifico. Nel crocevia idealistico-hegeliano avviene la contaminazione di tutti i discorsi filosofico-politici provenienti da altri “luoghi” teorici e delle diverse opzioni culturali al punto tale da agevolmente incorporare nei pur disparati impianti teorici lo sviluppo dello Spirito come concettualità aprioristica assumendone, ciascun impianto, conseguentemente, i caratteri del determinismo, dell’autorealizzazione e della totalità.
Il punto in questione è che tutte queste visioni, da Bacone fino alla “rottura epistemologica” (rif. a Gaston Bachelard e, in particolare, a Louis Althusser) di Marx, nascono e prendono forma grazie a concezioni e categorie introdotte dal superamento dell’oscurantismo medievale, o che hanno comunque in esso le loro radici oppositive [7]. Inoltre, non poche delle risorgenti utopie politiche o sociali dell’epoca moderna con propaggini nella contemporaneità, anch’esse fondate sull’idea di progresso, si basano su idee e concezioni proprie di un idealismo borghese alle quali però, come da tempo è stato osservato (rif. a Romano Guardini ne La fine dell’epoca moderna, 1950), è rimasto solo il guscio esteriore e sono pertanto condannate a esaurirsi o ad impazzire, venendo a mancare, a motivo del materialismo e della secolarizzazione, la linfa spirituale che le sosteneva e che generava con il misticismo logico l’equazione tristemente nota tra “ragione “ e “realtà”.
Guardare l’andamento storico obiettivo delle vicende umane significa fare esperienza del movimentato assetto della “conservazione”, della conoscenza scientifica mediante la diuturna osservazione dell’attitudine alla riconferma del potere classista statuito, del recepire lo storytelling del comando sociale come “conoscenza” delle contraddizioni e non come “l’adattivo ed omologante racconto di un’esperienza”, efficace per manipolare le menti ottenendone la subalternità e passività. La conoscenza operativa genera una possibilità: avanzare alla volta di un effettivo oltre, dirigendosi collettivamente verso un obiettivo di irreversibile liberazione.
Giovanni Dursi
Note
[1] Ci si riferisce all’elemento soggettivo, leggendo lo stesso sviluppo capitalistico, la tecnologia, l’organizzazione del lavoro posto come esito perennemente in divenire dei rapporti di forza tra le classi; pertanto, l’accumulazione non è governata esclusivamente da leggi oggettive, ma riflette il continuo gioco tra iniziativa del capitale e comportamenti dei proletari. Come è stato osservato (intervento di Salvatore Cominu all’incontro sulla “composizione di classe” nel ciclo COMMONWARE di autoformazione di Piacenza, 3 Marzo 2014 ), Sergio Bologna, all’epoca giovane militante e in seguito promotore di una delle principali esperienze intellettuali del marxismo degli anni Settanta, la rivista Primo Maggio, al precedente ciclo di incontri COMMONWARE, ha fornito della composizione di classe la seguente definizione“capire”: «la classe per come si dà “nel processo produttivo e in rapporto con l’organizzazione tecnica, ma anche per cosa pensa, come vive, di quali valori, desideri, aspettative è portatrice”. E certamente l’idea che l’operaio taylor-fordista fosse diverso, per valori, atteggiamento verso il lavoro, l’azienda, la professionalità, dalla vecchia generazione in possesso di un “mestiere”, ha rappresentato la principale intuizione politica dei Quaderni Rossi». Fonte: COMMONWARE – GENERAL INTELLECT IN FORMAZIONE (web site).
[2] Si ritiene adeguata la seguente definizione: “Il sistema delle disuguaglianze strutturali di una società, nei suoi due principali aspetti: quello distributivo, riguardante l’ammontare delle ricompense materiali e simboliche ottenute dagli individui e dai gruppi di una società e quello relazionale, che invece ha a che fare con i rapporti di potere esistenti tra essi” (rif. A. Bagnasco, 1997).
[3] Rif. a “Capitalismo e globalizzazione”, di Nerio Nesi e Ivan Cicconi, Prefazione di Luciano Canfora, biblio-sitografia e contestualizzazione a cura di Giovanni Dursi, Koinè Nuove Edizioni, 2002
[4] In questa sede ci si riferisce alla potenzialità del classico tradeunionìsmo di mobilitazione e di unificazione di diverse soggettività sociali, all’interno della complessa organizzazione della vita pubblica, la cui azione rivendicativa non intacca il carattere di merce dei beni prodotti dal lavoro e delle relazioni di mercato che vengono estesi anche a moneta, terra, ambiente, non più fuori dalla produzione, alle attività di cura e sociali.
[5] Per approfondimenti, si propone la lettura di Mutamenti della struttura di classe in Italia di Alberto Baldissera, il cui testo integrale è in https://journals.openedition.org/qds/1470.
[6] Per capitalismo (termine entrato in vigore solo nei primi decenni del XIX secolo) si intende un insieme di condizioni e relazioni socioeconomiche quali: la proprietà privata dei mezzi di produzione; la libertà di perseguire il profitto, in conseguenza dell’investimento del proprio capitale nel giro degli affari, con criteri di razionalità e quindi di efficienza; l’esistenza di una manodopera che vende al capitalista la propria forza lavoro in cambio di un salario; il comando, da parte del detentore del capitale, sulle modalità del processo produttivo e di accesso dei prodotti stessi al mercato; la propensione all’investimento di nuovi capitali per l’innovazione delle tecnologie; la logica dell’allargamento del mercato come conseguenza del progresso e come presupposto per l’accaparramento di materie prime; il proseguimento e l’allargamento dell’impresa in un contesto globale segnato dalla concorrenza tra imprese. Non vi è dubbio che il capitalismo in quanto sistema assunse una sua fisionomia compiuta tra XVIII e XIX secolo, durante la rivoluzione industriale, trovando la sua più tipica espressione nella fabbrica come luogo di concentrazione delle macchine, del ciclo di lavorazione e degli operai salariati inquadrati in una definita organizzazione del lavoro. Di qui il concetto e la realtà del capitalismo industriale.
[7] Sarebbe sufficiente una lettura dei capitoli centrali delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel (postume, 1837) per rendersene conto: qui la fenomenologia dello Spirito che si realizza nella storia, giungendo alla sua autocoscienza come Assoluto, è spiegata in costante dialogo, quasi in parallelo, con il fine soprannaturale della religione cristiana, tanto il processo di perfezionamento ascetico del singolo, come quello di universale glorificazione di Dio.
FONTE
https://www.mentinfuga.com/

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