Con quasi dieci anni di ritardo è stato tradotto in italiano, con titolo La fine del desiderio (Oscar Mondadori),
il libro in cui Michela Marzano affronta il discorso pornografico,
mostrando quale visione dell’essere umano sottenda e che rapporto abbia
con il desiderio, la sessualità umana, il corpo e la contraddizione che
questo esibisce (“io sono in questa mano e non ci sono”, come è la
stessa Marzano a ricordare ne La filosofia del corpo citando
Paul Valery, e dunque il nostro non essere riducibili al corpo e insieme
l’impossibilità di liquidare il nostro rapporto con la corporeità nei
termini di un mero “avere un corpo”).
Se c’è una cosa che non manca ai testi della filosofa è la chiarezza e
insieme la volontà di affrontare in concreto i problemi su cui si
interroga, radicando nel vissuto e nel tessuto sociale le proprie
riflessioni e attraversando la tradizione filosofica con uno sguardo
capace di restituirle attualità. I suoi testi ci riguardano e offrono
alcune chiavi di lettura, e strumenti, per orientare i nostri imbarazzi e
le nostre contraddizioni; l’analisi comparata di film e romanzi aiuta
infatti a dare corpo a delle categorie sfuggenti, in un campo dove le
definizioni non sono nette né facili, come mette in evidenza
l’asserzione provocatoria di Alain Robbe-Grillet: “La pornografia è
l’erotismo degli altri”.
Altro merito del libro è quello di non fare mistero di una certa fatica
nell’affrontare un discorso, quello relativo a pornografia ed erotismo,
così ricco di implicazioni storico, sociali, etiche e politiche, e
insieme così prossimo alla nostra intimità, così inscindibile da
quell’io che siamo al di là e prima di ogni razionale valutazione degli
elementi in campo.
Punto di partenza delle riflessioni è una domanda: è ancora possibile
distinguere pornografia ed erotismo? Lo sguardo critico nei confronti
delle rappresentazioni pornografiche non è volto a occultare la
sessualità, ma a riflettere sulla possibilità di parlarne altrimenti:
per Michela Marzano il punto non è censurare la rappresentazione del
corpo, ma restituirle un potere che le immagini pornografiche le
sottraggono. Le immagini pornografiche infatti, mettendo in campo non un
incontro di soggetti ma corpi giustapposti, negano la sessualità,
poiché non consentono quell’uscita dalla padronanza di sé, quella
desoggettivizzazione, che Bataille indica come condizione del passaggio
dallo stato normale a quello del denudamento erotico (“uscita dalla
condizione dei corpi, corrispondente al possesso in sé, alla padronanza
del proprio io, inteso come individualità durevole e affermata”).
La pussylight è luce che illumina il sesso femminile: la
voragine, il buco, il sacro. La pornografia contemporanea apre il corpo e
pretende di occultare il mistero della carne. Vedere tutto, toccare
tutto senza che nulla lasci intendere un di più che chiami in causa
l’immaginario dello spettatore, “l’immondizia che ognuno si porta
dentro”. Baudrillard in Della Seduzione parla di “abbondanza di
realtà”: “lo si vede troppo da vicino, ci si scorge quello che non si
era mai visto […] tutto è troppo vero”. Esposizione, disponibilità
totale: non vi è scarto tra ciò che è e ciò che è offerto, e questo
elimina la possibilità stessa dell’erotismo che si fonda sulla tensione
tra divieto, limite, e trasgressione. Tutto è gridato, ci viene
consegnato un immaginario già fabbricato a cui dobbiamo sottoporci,
prova del perfetto funzionamento, foucaultianamente, del dispositivo di
sessualità che, costruendo il sesso come desiderabile, ci ha
imprigionato nei suoi meccanismi di controllo e potere.
“L’immaginazione è ‘forclusa’”, continua Michela Marzano, non solo
nella pornografia contemporanea, attraverso la sovraesposizione
dell’atto sessuale, ma anche in quella classica, basata su un’estetica
iperrealista che, ripetitiva, monotona, codificata, esibisce la propria
inautenticità poiché mira a ridurre lo spettatore alla propria
eccitazione, imprigionando la fisicità del corpo e delle pulsioni: la
pornografia fissa un corpo smembrato; il volto, dunque l’altro, manca,
ridotto a bocca orifizio, e assenti sono le storie.
La visibilità assoluta e l’esposizione senza filtro: la filosofa parla
di una vera e propria ideologia della trasparenza, un desiderio di
eliminare l’opacità del reale. Tuttavia la cancellazione della barriera
tra dentro e fuori “non consente una visione panottica dell’oggetto, ma
lo nega in quanto tale, eludendo la sua carne”. La trasparenza della
pornografia elimina il mistero della nudità: quel che rende pornografico
il racconto della propria vita sessuale di Catherine Millet (La vie sexuelle de Catherine M.), uno degli esempi analizzati ne La fine del desiderio,
non è l’offerta della propria sessualità in modo brutale e nitido, ma
la pretesa di eludere la questione del senso, esaurendo sulla carta
tutta la storia, non mantenendo alcun nucleo inaccessibile, non
risparmiando lo spazio della propria intimità.
A questo proposito si può ricordare quel che dice Monique Selz in Il pudore:
svelare quel che è nascosto significa scalzare le fondamenta stesse
dell’esistenza; il compito del pudore sarebbe allora quello di
consentirci di preservare uno spazio di non detto e non mostrato
essenziale per l’istituirsi dell’identità di ciascuno. Certamente i
limiti dell’involucro costituiti dal pudore sono fluttuanti e, come
scrive la psicoanalista, “lo spazio disegnato è a geografia variabile”,
ma riconoscere l’esistenza e la necessità del mantenimento di un mistero
è il cuore di un discorso critico che cerca di sopravvivere alla fin
troppo scontata accusa di conservatorismo e moralismo.
Come per Monique Selz così per Michela Marzano i parametri che guidano
l’analisi non sono etici, il giudizio non è mosso da indignazione,
disgusto o scandalo, ma dalla volontà di non tradire né sottovalutare il
rapporto dell’io con il proprio desiderio e le implicazioni non solo
sociali ma ontologiche: quello che è in gioco è la definizione stessa di
soggetto e la filosofa, citando Étienne de La Boétie, sottolinea che se
è certo vero che l’autonomia dell’individuo significa possibilità di
disporre del proprio corpo, è altresì vero che esistono limiti
invalicabili oltrepassati i quali l’uomo non sarebbe più né autonomo né
degno (è il delicato problema della servitù volontaria, altro tema
affrontato nel libro).
L’intimità, il segreto che ci riguarda, è ciò che ci consente di accedere allo status di
soggetto, e rende possibile l’incontro in gioco nella sessualità, luogo
paradossale ove ci si dà all’altro donando l’inalienabile, il proprio
corpo, e si prende in carico la propria mancanza, il difetto che
persiste. Nell’incontro l’altro si coglie e insieme sfugge sempre, il
piacere erotico è sconfitta: l’altro rimane altro ma dà senso al
desiderio consentendo al soggetto di tracciare i propri confini e dunque
la propria identità. Ecco perché Michela Marzano può dire che il
discorso pornografico abbatte l’argine della compassione, insieme a
quello del disgusto (corpi spalancati e mescolanza di fluidi): se viene
meno la distanza che consente di cogliere l’altro come soggetto, questi
diviene corpo organico, animale, cancellate le tracce della sua umanità.
Quel che rende oscena la pornografia non è l’oggetto rappresentato ma le modalità della sua rappresentazione: L’amante di Lady Chatterley di Lawrence o L’impero dei sensi
di Oshima sono nella seconda parte del libro presi come esempio di
testi non pornografici, nonostante i dettagli non vengano risparmiati.
Il mistero del desiderio che si fa trasgressione e si consuma nella
morte è lasciato fuori dalla rappresentazione, nonostante lo spettatore
penetri nella camera da letto degli amanti. In Histoire d’O
invece la trasgressione è eliminata, il divieto soppresso, e non vi è
possibilità di incontro. Oscena è la rappresentazione che tradisce una
verità, quella cui rimanda il gesto pudico del coprirsi il sesso. Il
nudo artistico, al contrario, svela senza infrangere l’intimità dei
corpi, interpella lo sguardo dello spettatore mantenendo uno spazio
interstiziale: disponibile e sempre sottratto risveglia il desiderio che
è promessa senza garanzia di soddisfacimento (“la parte più erotica del
corpo non è forse dove l’abito si dischiude?”, Roland Barthes).
Il tema del desiderio è punto cardine della riflessione sulla pornografia poiché dimensione essenziale dell’uomo: nella sua realtà contraddittoria e paradossale, spinozianamente conatus, ponendosi come spinta verso qualcosa che mai coincide veramente con l’oggetto che crediamo di desiderare, è segno della nostra mancanza ontologica, del nostro difetto strutturale. In Ritratti di desiderio Massimo Recalcati, per ricordare come etimologicamente la parola porti con sé la dimensione della veglia e dell’attesa, richiama una bella immagine del De Bello Gallico di Giulio Cesare: i desiderantes erano i soldati che aspettavano i compagni non ancora tornati dal campo di battaglia, li aspettavano senza certezza alcuna del loro ritorno. Vi è una condizione di vuoto, di perdita, di vertigine. La pornografia, immediata, totale, ripetitiva, automatica, spreca il desiderio.
Il tema del desiderio è punto cardine della riflessione sulla pornografia poiché dimensione essenziale dell’uomo: nella sua realtà contraddittoria e paradossale, spinozianamente conatus, ponendosi come spinta verso qualcosa che mai coincide veramente con l’oggetto che crediamo di desiderare, è segno della nostra mancanza ontologica, del nostro difetto strutturale. In Ritratti di desiderio Massimo Recalcati, per ricordare come etimologicamente la parola porti con sé la dimensione della veglia e dell’attesa, richiama una bella immagine del De Bello Gallico di Giulio Cesare: i desiderantes erano i soldati che aspettavano i compagni non ancora tornati dal campo di battaglia, li aspettavano senza certezza alcuna del loro ritorno. Vi è una condizione di vuoto, di perdita, di vertigine. La pornografia, immediata, totale, ripetitiva, automatica, spreca il desiderio.
Desiderio centrale anche nel suo rapporto con il divieto e la
trasgressione: affrontando il tema della censura e del rapporto tra
pornografia e adolescenza Michela Marzano sottolinea come il punto non
sia tanto parlare di impudicizia o di vergogna, condannare, o peggio
censurare, le opere pornografiche in nome dello scandalo, poiché questo
non aggiunge nulla alla comprensione del fenomeno. Come la filosofa
spiega con chiarezza nel testo, se non si può certo sostenere che le
immagini facciano “fare” oltre che “vedere”, è altresì vero che immagini
che trasformino lo spettatore in oggetto passivo, in mero ricettore di
stimoli, invitandolo non già a simbolizzare ma piuttosto a eccitarsi,
non aiutano lo svilupparsi di una dimensione critica, negano la
dimensione interiore del soggetto che guarda e impongono una visione del
corpo e dell’atto sessuale priva della componente del senso e del
desiderio.
Distinguendo proibizioni e divieti, Michela Marzano sostiene la
necessità di tracciare dighe etiche che impediscano condotte che
comportino la perdita di autonomia dell’essere umano: il divieto non è
istituito dalle proibizioni ma è un processo strutturante che consente
di costituire il corpo nella sua unità e l’altro nella sua irriducibile
alterità, ed è proprio il divieto a tracciare una barriera capace di
preservare l’altro come distinto. Del resto è su questa distanza e
separatezza che si fonda il desiderio, la volontà di trasgressione come
spinta al superamento dei limiti. Il desiderio mette alla prova quelle
barriere che, invalicabili, impediscono la distruzione e l’annullamento.
Il saggio intende mostrare, e ci riesce senza né semplificare né cedere
a facili moralismi, le logiche sottese e gli impliciti presenti nel
discorso pornografico che lungi dal liberare la nostra presunta
sessualità inibita, non fanno altro che promuovere una realtà, per lo
più modellata sul piacere maschile, per lo meno per quel che riguarda la
pornografia mainstream, fatta di stereotipi, e che ci violenta
e offende non già perché scandalosa e immorale ma perché ci pretende
passivi e mina quel che fa di noi dei soggetti.
Mi sembra di poter suggerire allora, convinta anche che questa sia una
delle ragioni per cui i confini delle categorie siano così labili e
sfuggenti, che forse potremmo parlare di pornografia – se vogliamo dare a
questo termine una valenza negativa distinguendolo dall’erotico – non
tanto guardando al grado di indecenza che possiamo riconoscere in una
rappresentazione, ma al grado di violenza che contiene in virtù della
sua stereotipizzazione e della sua chiusura, del suo reiterare le
logiche dominanti del potere e del controllo.
Il rischio altrimenti, archiviando come maschilista il panorama
dominante, è di contrapporre per il femminile una visione che non prenda
in carico la complessità del discorso sessuale. Non è un caso forse se
si è accusato spesso il movimento femminista, in ogni campo, non solo
quello sessuale, di assumere delle forme maschili, o se negli ultimi
anni è emerso un discorso critico sul porno che nelle sue componenti
estreme rivendica un’autarchia rispetto alla produzione e al consumo di
materiale pornografico: riecheggiano gli accenti saffici, autonomisti,
di una cinquantina d’anni fa, nel momento caldo del femminismo
militante. Anche la politica si ammanta di pornoautonomia: basti il nome
delle Pussyriot, di recente successo mediatico, cui si aggiunge la
metafora del volto coperto dal passamontagna definito, guarda caso,
preservativo.
Allora è quasi un presagio quando Recalcati rispondendo in occasione
del Festival di Mantova a un intervento del pubblico, ha spiazzato
l’auditorio pronunciando con un sorriso sornione una frase molto
semplice ma che mi pare fondamentale all’interno di questo ambito di
discorso: “E lei cosa ne sa che io sia un uomo”.
Con questa frase provocatoria quello che lo psicoanalista lacaniano ha
inteso suggerire è che l’identità sessuale di un individuo è certo
condizionata dall’anatomia e dal discorso sociale, ma non è da essi
determinata in maniera inequivocabile, e dunque l’identità sessuale e i
suoi bisogni sfuggono a qualsiasi stereotipia di cui la pornografia mainstream si fa portatrice.
Il problema allora non è tanto provare che il discorso pornografico non
sia reificante per la donna mostrando che le donne sono consumatrici di
porno, né sottolineare che una donna che ama la pornografia sia
necessariamente vittima di un desiderio di rispondere alle aspettative
di un discorso che non le appartiene, ma distinguere i modi del
desiderio e del godimento sessuale e farsi carico di tale complessità.
I porno prodotti dalle attiviste del pornoterrorismo e i loro
laboratori, per quanto possano piacere o meno, eccitare o meno, si possa
condividerli o ritenerli poco efficaci, sono strumenti che intendono
aiutare la donna, ma non solo, ad acquisire maggiore coscienza di sé e
della propria sessualità, e sono sicuramente meno reificanti e offensivi
di quanto possa esserlo un best-seller quale Cinquanta sfumature di grigio,
che non offende per delle scene di sesso (per altro, ma è giudizio del
tutto personale, non così efficaci), né per la natura sadomaso della
relazione descritta, ma per la sua cornice da romanzo rosa, con tanto di
speranza e desiderio di redenzione: come se il sogno delle donne
potesse essere quello di salvare un miliardario bello e perfetto da un
male che lo tormenta e lo rende sessualmente depravato, vedendo fino a
che punto è possibile accettarne la violenza.
Questo, a differenza tanto de L’impero dei sensi quanto del
saggio di Michela Marzano, ottunde la capacità critica delle donne (e
degli uomini), ne offende l’intelligenza e l’immaginario. E annoia.
Fonte:
Fonte:
http://www.doppiozero.com/ |
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