1. Sulla peculiarità
della definizione ontologica della persona umana
Il dato di partenza della problematicità, enigmaticità
o «ambiguità» dell'esperienza umana nel mondo rischia di collocare
ogni definizione (meglio dire, intenzionalità chiarificatrice) nel
contesto di una “metafisica influente” che ha dominato in modo
contraddittorio e drammatico le vicende socio-culturali del ‘900,
secolo nel quale le generazioni adulte dell’attuale contemporaneità
sono cresciute e si sono formate culturalmente. Tuttavia, nel
confronto e nell’onesta aspirazione all’accertamento delle verità
sulla condizione umana, l'uomo viene collocato di necessità
all'interno di un rapporto originario con l' “essere” e, solo
all'interno di questo rapporto, può essere compreso e la sua
esperienza acquista un senso.
La specifica collocazione umana nel mondo, la sua
«situazione», è una via d'accesso che consente di indagare
l'essere e se stesso
nell’individualità
e soggettività date,
vale a dire in quella configurazione esistenziale tipicamente umana,
artificiale ed extragenetica, definibile “cultura”. Altri
tentativi – sempre possibili – aprono acriticamente all’influenza
inestricabile d’una metafisica deteriore (teleologicamente
dogmatica) secondo la quale l'uomo è in rapporto con l'essere,
ma con un “essere” che resta alfine inoggettivabile, non
circoscrivibile nella sua totalità, «altro» e, per certi versi
necessariamente, trascendente. Questa inoggettivabilità dell'essere
umano sta alla base di un’esauribilità
di prospettive che da essa scaturiscono, tanto inopportune quanto
inefficaci laddove lo scenario è la relazione d’aiuto, il sostegno
e vicinanza alle giovani generazioni, la cura e la tutela
dell’adolescenza, la rigenerazione dell’umano condividere, in una
parola il “mutamento” d’emancipazione dalla tragedia
novecentesca.
In secondo luogo, anche sostenendo che l'essere
in cui l'uomo è collocato abbia i caratteri di un'ulteriorità
irriducibile alla coscienza umana, sia dunque qualcosa di «altro»,
di «trascendente» rispetto all'uomo stesso poiché l'uomo non
esaurisce mai la totalità dell'essere,
ebbene l'essere è in
questo senso presente nel rapporto, certo non nello stesso modo in
cui è presente l'uomo. Uomo ed essere
non sono due termini equivalenti, possono trovarsi antinomicamente
uno di fronte all'altro, in una relazione di equipotenza o in una
relazione estrinseca; in ogni caso, questa antinomia costitutiva di
ogni osservabilità, di ogni atto conoscitivo, non può darsi una
sussunzione dell’uomo all’essere.
2. Interpretazione ontologica sulle caratteristiche costitutive della persona
La questione di una ontologia della relazione è stata
sollevata da Etienne Balibar in un testo del 1993 su Marx e più
precisamente nel commento della VI tesi su Feuerbach che, come è
noto, recita: «Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza
umana. Ma l’essenza
umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo
singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti
sociali»[Marx über Feuerbach], in Marx /
Engels Gesamtausgabe, erste Abteilung, Band 5, hrsg. von V.
Adoratskij, Glashütten im Taunus, Verlag Detlev Auvermann, 1970, p.
534; tr. it. di M. Rossi, in F. Engels, Ludwig Feuerbach, Roma,
Editori Riuniti, 1985 (I ed. 1950), p. 84].
L’essenza umana è das ensemble der
gesellschaftlicher Verhältnisse. Marx
rifiuta, secondo Balibar, tanto la posizione nominalista che la
posizione realista: «quella che vuole che il genere, o l’essenza,
preceda l’esistenza degli individui, e quella che vuole che gli
individui siano la realtà primaria, a partire dalla quale si
astraggono gli universali»; in Marx sarebbe dunque presente in
abbozzo una ontologia della relazione: la società sarebbe
costituita/attraversata da una molteplicità di relazioni, cioè di
«transizioni, trasferimenti, passaggi nei quali si fa e si disfa il
legame degli individui con la comunità, che a sua volta costituisce
essi stessi». Il solo contenuto effettivo dell’essenza umana
starebbe nelle molteplici relazioni che gli individui intrattengono
tra di loro. Balibar ritiene che così Marx prenda le distanze tanto
dal punto di vista individualistico che da quello organicistico
(olistico). Questa la ragione per cui Marx usa il termine francese
«ensemble» e non quello tedesco «das Ganze». Allo scopo di
rendere ancora più chiara la questione, Balibar propone di
utilizzare una parola di Simondon per pensare il concetto di umanità
nei termini marxiani: «il transindividuale». L’umanità sarebbe
ciò che esiste tra gli
individui. Balibar conclude: «le relazioni di cui parliamo non sono
nient’altro che pratiche differenziate, delle azioni singole degli
individui gli uni sugli altri». La più adeguata caratterizzazione
costitutiva della “persona umana” scaturisce, pertanto, da
un'affermazione difficilmente revocabile in dubbio che è
rintracciabile nella
Prefazione a "Per
la critica dell'economia politica"
(Gennaio 1859 -
Opere complete, Vol. XXX, pagg. 298-299); Karl
Marx, sostiene
che «nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini
entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro
volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un
determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.
L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura
economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva
una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione
della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale,
politico e spirituale della vita. Non è la coscienza che determina
il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che
determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le
forze produttive materiali della società entrano in contraddizione
con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di
proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i
quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da
forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro
catene.
E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il
cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente
tutta la gigantesca soprastruttura. Quando si studiano simili
sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo
sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della
produzione, che può essere costatato con la precisione delle scienze
naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o
filosofiche, in una parola le forme ideologiche che permettono agli
uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo». C’è una
saldatura in
itinere tra
ontologia ed epistemologia che forgia la valenza problematica e le
stesse categorie, entrambe connesse ai fondamenti, alle condizioni di
validità, ai principi guida della conoscenza intorno all’uomo, ma
soprattutto dalla conoscenza scientifica che distingue
l’apprezzamento antropologico da una pur legittima Weltanschauung.
3. Sul fondamento
e caratteristiche della dignità della persona
Già in Hegel il problema dell'estraneazione – quello
che in ultima istanza pare configurarsi come insieme d'ambiti
individuativi d'indagine delle caratteristiche della dignità della
persona umana - appare per la prima volta come problema della
posizione dell'uomo nel mondo rispetto al mondo. Essa è tuttavia in
lui, con il termine di alienazione (Entiiusserung),
al tempo stesso la posizione di qualsiasi
oggettività. L'estraneazione si identifica perciò, se viene
coerentemente concepita, con il porre l'oggettività. Il
soggetto-oggetto identico deve quindi, nella misura in cui supera
l'estraneazione, superare al tempo stesso l'oggettività. Poiché
tuttavia l'oggetto, la cosa, in Hegel, esiste soltanto come
alienazione dell'autocoscienza, la sua riassunzione nel soggetto
rappresenterebbe la fine della realtà oggettiva, quindi della realtà
in generale. Anche in Storia e coscienza di
classe Lukàcs sembra seguire Hegel nella
misura in cui anche in questo libro l'estraneazione viene posta sullo
stesso piano dell'oggettivazione (per far uso della terminologia dei
Manoscritti economico-filosofici di
Marx). Lo smascheramento nel pensiero dell'estraneazione era già
allora nell'aria; ben presto esso divenne una questione centrale
della critica della cultura che indagava la condizione dell'uomo nel
capitalismo del presente. Per la critica filosofico-borghese della
cultura, basti pensare a Heidegger, era del tutto ovvio sublimare la
critica sociale in una critica puramente filosofica, fare
dell'estraneazione per sua essenza sociale un'eterna "condition
humaine", usando un termine invalso solo più tardi. È chiaro
che questo modo di presentare le cose, benché
avesse di mira tutt'altro, anzi l'opposto, favorì atteggiamenti di
questo genere. L'estraneazione identificata con l'oggettivazione era
bensì intesa come una categoria sociale - il socialismo avrebbe
dovuto appunto superarla - e tuttavia l'insuperabilità della sua
esistenza nelle società classiste e anzitutto la sua fondazione
filosofica la rendevano vicina alla "condition humaine".
Questa è appunto la conseguenza di questa falsa
identificazione, su cui occorre ancora insistere, tra concetti
fondamentali opposti. Infatti, l'oggettivazione è effettivamente un
modo insuperabile di estrinsecazione nella vita sociale degli uomini.
Se si considera che ogni obiettivazione nella praxis,
e quindi anzitutto il lavoro stesso, è un'oggettivazione, che ogni
modo di espressione umana, e quindi anche la lingua, i pensieri e i
sentimenti umani, sono oggettivati, ecc., è allora evidente che qui
abbiamo a che fare con una forma universalmente umana dei rapporti
degli uomini tra loro.
Come tale l'oggettivazione è naturalmente priva di un
indice di valore; il vero è un'oggettivazione allo stesso titolo del
falso, la liberazione non meno dell'asservimento. Solo se le forme
oggettivate nella società ricevono funzioni tali da mettere in
contrasto l'essenza dell'uomo con il suo essere, soggiogando,
deformando e lacerando l'essenza umana attraverso l'essere sociale,
sorge il rapporto oggettivamente sociale di estraneazione e, come sua
conseguenza necessaria, l'estraneazione interna in tutti i suoi
caratteri soggettivi. Si comprendono bene, da quest'ottica, le
affermazioni marxiane secondo le quali “tutta la via sociale è
essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria
verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi
umana e nella comprensione di questa prassi.” (Tesi VIII - Tesi su
Feuerbach nel 1843 ); “i filosofi hanno soltanto diversamente
interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo” (Tesi XI -
Tesi su Feuerbach nel 1843 ).
Conseguentemente, non sembrano più necessari approcci
volti a fondare il comportamento etico o su un potere trascendente
(divino) o su una componente soggettivo-intuitiva o
emotivo-sentimentale. A simili approcci è possibile contrapporre la
concezione, secondo cui l’etica è da un punto di vista storico
evoluzionistico un prodotto di auto-creazione umana; è la stessa
etica materialistica ad esigere un fondamento ontologico.
Anche se
può considerarsi paradossale, la questione della dignità della
“persona umana” va ancorata ad una tradizione culturale che lega
l'etica a grandi opere come la Fisica
di Aristotele (piuttosto che la Metafisica)
o i Principia di
Newton; esse hanno rappresentato per lunghi periodi il fondamento
delle ricerche condotte, definendo problemi e metodi da considerarsi
legittimi in un determinato campo e sono stati dei modelli che hanno
dato origine a particolari tradizioni di ricerca scientifica.
Riferendosi a queste tradizioni, Kuhn impiega il termine di
“paradigma”; la scienza si sviluppa all’interno di un
paradigma, mentre la
rivoluzione scientifica è il passaggio da un paradigma
all’altro. Kuhn impiega la definizione di “paradigma metafisico”
per indicare ciò che nell’epistemologia contemporanea è chiamata
“metafisica influente”.
Un progresso dove l’incremento conoscitivo è guidato
da un unico paradigma non fornisce garanzia di “una comprensione
sempre più raffinata della natura” se non affermando di voler
partire da piuttosto
che andare verso.
Questo atteggiamento è valido anche in campo etico.
4. L'importanza di una chiara visione personalista
dell’uomo
L'adolescenza essendo considerata da un lato l'ultima
fase dello sviluppo infantile, dall'altro come fase d'inserimento nel
mondo adulto, comunemente va individuata in un arco di alcuni anni
che stanno intorno alla maturazione sessuale, ma a cui corrispondono
anche mutamenti d'atteggiamenti, di capacità, di partecipazione
sociale e, pertanto, necessita d'una visione d'insieme. Il porre
l'accento più sull'uno o sull'altro di questi mutamenti ha portato
ad indicare come più ampio o più ristretto il periodo
adolescenziale (per alcuni esso va dai 10 ai 16 anni circa, cioè
corrisponde alla pubertà, per altri dai 13 ai 20 anni, cioè in
accordo con la definizione ormai obsoleta anch'essa di “teen-ager”,
per altri ancora è un periodo che si estende anche ulteriormente
fino alle opportunità di lavoro, con il portato dell'autonomia e
delle responsabilità piene sul piano sociale, ed alla vita
coniugale, con il portato eventuale della maternità e paternità;
ovviamente, negli ultimi decenni a cavallo del XX e XXI secolo in
particolare, l'elaborazione identitaria si è, per così dire,
deregolamentata, venendo meno le componenti esperienziali proprie
della maturità equilibrata delle persone ed i ritmi peculiari di
sviluppo sono fuori dagli schemi teorici; talvolta, proprio il
terreno della life long learning
restituisce – con il portato problematico della neotenia -, con
risvolti drammatici, l'aspetto dei cambiamenti in atto circa il mondo
giovanile).
Certo l'adolescenza non è contraddistinta dalla sola
maturazione puberale, fatto biologico rilevante; tuttavia, essa ha
una connotazione tipicamente umana, cioè extragenetica,
“artificiale”, culturale (i primi studi sistematici, come quelli
di Satnley Hall, vedevano un parallelismo assoluto fra i due livelli
della vita, o meglio, la riduzione del secondo al primo:
l'adolescenza come una “nuova nascita” della coscienza, provocata
dallo sviluppo puberale; tale sviluppo si iscriveva nella prospettiva
di Darwin, secondo cui l'ontogenesi ricapitola la filogenesi:
l'adolescenza, per l'individuo, come uomo totale, cosciente e
responsabile di sé). La concezione che accentua l'aspetto biologico,
infatti, è stata messa in crisi dallo studio delle differenze
individuali e culturali, in particolare dagli studi antropologici
come quelli della Mead, a dimostrazione di un reale relativismo nella
fenomenologia adolescenziale (culture primitive, cultura
“occidentale” …). Ciò ha indotto la ricerca a studiare non più
l'adolescenza, ma diverse adolescenze mettendo in discussione
l'universalità del fenomeno. Del resto, certa Psicologia (Wallon) o
indirizzo psicoanalitico si sono opposti a questo apprezzamento
dell'adolescenza considerando come certi aspetti biologici e
psicologici siano connaturati con lo “sviluppo” della persona.
La problematicità dell'adeguata visione
dell'adolescente deriva proprio dal fatto che si esaltano, in certi
campi d'indagine, gli aspetti maturativi, biologico-fisici,
intellettivi o istintuali, più universali o supposti tali; altri
orientamenti, viceversa, enfatizzano la socializzazione e
l'acquisizione dei ruoli, relativamente ai diversi contesti sociali
di appartenenza e formazione. Il tentativo più riuscito di tenere
insieme gli “sguardi” sulla gioventù e sul divenire complesso
delle persone è quello di Erikson che salda le fasi psicosessuali
con quelle della socializzazione; costituisce un modello orientato
all'integrazione dei “saperi” specifici che può sempre più
avvalersi dell'empiria in stretta connessione con l'ampliarsi di un
quadro concettuale teorico per certi versi indeterminato (non può
oggi che essere così), nei confini della comprensione, altrimenti si
rischia di perdere l'oggetto stesso.
Pertanto, altra acquisizione, nel merito dell'obiettiva
considerazione degli adolescenti come persone, è l'evitare di
perseverare in punti di vista “specialistici”; ad esempio,
insistere nell'importanza rivestita dalla relazione con la figura
materna nel condizionare il successivo sviluppo creativo del bambino
(Klein, Winnicott; quest'ultimo sottolinea come ineludibile sia la
funzione di rispecchiamento svolta dalla madre, nella restituzione di
affetti e vissuti che il bambino da solo non è in grado di
rielaborare ed integrare all'interno del sé), in un contesto sociale
di vita d'accentuato decentramento di figure di riferimento. Di
fatto, la strutturazione della personalità spontanea e creativa è
garantita dall'ambiente di sostegno rappresentato da una pluralità
di soggetti interagenti, nell'ottica in cui non può esistere alcuna
identità armoniosamente formata a prescindere da relazioni plurali.
Il ruolo delle interazioni sociali nello sviluppo degli
adolescenti può essere compreso solo se si coordinano i concetti e i
dati derivanti dall'analisi di tipo sociologico con quelli relativi
alle interazioni sociali concrete tra individui e alle
caratteristiche funzionali di questi ultimi, a livello psicologico.
Da un lato, infatti, le situazioni sociali specifiche che gli
individui si trovano di fronte nella vita di ogni giorno sono
determinate da un tessuto sociale e da un ambiente fisico assai ampi,
dotati di significati e valori culturali loro propri maturatisi
storicamente. Esse non possono essere ridotte ad un flusso della
coscienza individuale o a conflitti psichici, ma richiedono uno
studio in quanto strutture sociologiche, culturali e fisiche. Se in
queste situazioni le interazioni sociali tra individui hanno una
struttura, le forme e i contenuti che sono loro propri non sono
riducibili a stimoli discreti che colpiscono la persona di momento in
momento. Dall'altro lato, un individuo, nel corso del periodo
adolescenziale, si trova ad aver vissuto almeno da una decina di
anni, ed ha esperienza di interazioni sociali. A parte i casi di
traumi precoci gravi, il bambino, in quanto maschio o femmina, ha
stabilito delle relazioni all'interno di un milieu
specifico, relazioni con il proprio corpo e con le proprie capacità,
con oggetti e con valori sociali. Alcuni di questi legami antecedenti
devono modificarsi durante l'adolescenza, lasciando alle spalle la
dipendenza della prima infanzia per avviarsi a responsabilità,
attività e modi di condotta tipici nella società di uomini e donne
adulti. Contemporaneamente il corpo, ormai familiare, cresce ad un
ritmo più rapido, e ciò si accompagna a modificazioni fisiologiche
e strutturali che portano al corpo adulto di un uomo o di una donna.
Il condensare questi due universali evolutivi in «incidenti»
dell'analisi sociologica significa trascurare i contributi
individuali alle interazioni sociali e il loro ruolo nello sviluppo.
Il coordinare il sociologico e lo psicologico implica una
sequenzialità di studio ben definita. La sequenza inizia con lo
studio dello sviluppo delle interazioni sociali, una valutazione
delle situazioni sociali reali che gli adolescenti si trovano di
fronte, inclusa la situazione ambientale più ampia di cui fanno
parte; infine considera il funzionamento individuale in rapporto a
tali situazioni sociali e ai processi d'interazione. Il gruppo
procura uno status simbolico autonomo.
In secondo luogo, gli adolescenti trovano nel gruppo uno
status autonomo, fondato sulle proprie realizzazioni, che è loro
negato nella società. Molti adolescenti vivono quanto possono in
gruppo perché vi sono considerati persone autonome e non, come nei
luoghi gestiti dagli adulti, bambini che devono esser guidati e
controllati. L'esigenza di parità e di partecipazione, che
caratterizza molti adolescenti nella nostra società, viene di
continuo frustrata. In reazione, gli adolescenti si creano una
società diversa - il gruppo - in cui possono sentirsi alla pari con
gli altri. In altre parole, il gruppo è la fonte primaria di status
autonomo durante l'adolescenza - uno status provvisorio, transitorio,
marginale, in qualche modo solo simbolico poiché non garantisce
diritti e prerogative reali al di fuori di esso. Esiste quindi un
legame tra la marginalità sociale dei giovani e i loro gruppi che
nascono appunto come tentativo di rimediare a questa creando spazi di
partecipazione. Altre funzioni. Oltre a questa funzione essenziale,
il gruppo può assolverne altre, di cui verranno indicate le
principali seguendo la falsa riga di Ausubel (1977). Prima di tutto
esso può procurare un'identità. Il problema dell’identità non è,
come si legge spesso, il problema principale dell'adolescenza, è un
problema che deriva dalla mancanza di status autonomo. Il gruppo può
rimediare anche a questo problema appunto nella misura in cui
fornisce uno status. Far parte dell'«Autonomia operaia», dei punk,
dei paninari, permette di definirsi e di sapere con più sicurezza
come orientarsi nella vita, quali valori perseguire, come comportarsi
e porsi di fronte agli altri. Durante l'adolescenza, il gruppo di
coetanei è spesso la fonte maggiore di status derivato ed è in
grado di fornire al giovane una stima di sé e una sicurezza per il
semplice fatto di essere accettato nel gruppo. Esso procura anche un
forte appoggio nel processo di emancipazione dai genitori e dagli
adulti e un quadro di riferimento e un sistema di valori quando
quelli dell'infanzia devono esser abbandonati; assicura così un
sollievo nei confronti dell'incertezza, dell'indecisione,
dell'ansietà e della colpevolezza che spesso accompagnano la
ristrutturazione della personalità su una base di autonomia.
Conferendo al gruppo il diritto di proporre nuove regole di condotta,
l'adolescente afferma il diritto all'autodeterminazione perché non è
diverso dai suoi coetanei. Il gruppo è anche un mezzo per difendersi
dall'autorità e dalle interferenze degli adulti. Come strumento di
pressione (“tutti lo fanno”) fa guadagnare privilegi ai suoi
membri. Aiuta anche l'adolescente ad affrontare con minore ansietà i
cambiamenti che avvengono nella sua vita e nella sua persona, come
quelli fisiologici. Riduce la massa delle frustrazioni, non solo
quelle specifiche dell'età, ma anche quelle che toccano solo i
singoli adolescenti. Il gruppo è anche luogo di apprendi mento dei
modi di rapportarsi agli altri fuori della famiglia. Permette di
assimilare maggiormente i ruoli socio-sessuali, la competizione, la
cooperazione, i valori, le credenze, gli atteggiamenti dominanti del
suo gruppo sociale. «Il gruppo di coetanei è la maggior istituzione
formativa per gli adolescenti nella nostra cultura» (Ausubel,1977).
Questo addestramento avviene in modo informale, spesso
inconsapevolmente, nella vita quotidiana del gruppo, nel gioco delle
interrelazioni complesse tra i suoi membri, nell'incoraggiamento di
certi modi di comportarsi e lo scoraggiamento di altri. Il gruppo è
quindi una preparazione alla vita adulta reale. Il gruppo rinforza le
discriminazioni tra le classi sociali. Il gruppo prepara alla vita
adulta reale anche perché rinforza le discriminazioni tra le classi
sociali. Da Hollingshead (1949) in poi, molte ricerche hanno messo in
rilievo il fatto che, abitualmente, vige nei gruppi di adolescenti
una rigida separazione tra le classi sociali. Talvolta questa
separazione si può già osservare nella diversità dei luoghi di
aggregazione. Vri confronti per la diversità di classe. (Lutte et
al., 1984). La cultura dei diversi gruppi, i lo ro valori, i loro
argomenti di discussione, le loro attività sono differenti e
rafforzano quindi la diversità derivante dagli ambienti familiari,
sociali, scolastici e lavorativi differenziati. Negli Stati Uniti, la
“razza” è un altro fattore di discriminazione tra i gruppi.
Questa incomunicabilità tra classi ed etnie sembra più pronunciata
nei gruppi di ragazze che sono più ristretti, chiusi e durevoli
(Claes, 1983). Il gruppo rinforza le differenze sociali tra i sessi.
I gruppi misti di adolescenti permettono ai ragazzi e alle ragazze di
interagire tra di loro. Sono il luogo in cui nascono spesso
innamoramenti e si formano le coppie. Le ragazze, abitualmente,
entrano più precocemente in gruppi misti con ragazzi più grandi;
fatto che crea problemi seri ai loro coetanei maschi che si sentono
esclusi. Dumphy (1963; cit. da Claes 1983) pensa che la funzione del
gruppo più largo sia di facilitare la transizione
all'eterosessualità. Sulla base di ricerche effettuate in una città
australiana, egli individua cinque stadi evolutivi. Nel primo,
corrispondente alla preadolescenza, i piccoli gruppi sono formati di
soli ragazzi o di sole ragazze e non si incontrano; l'interesse per
l'altro sesso si manifesta solo in interazioni superficiali, spesso
antagoniste. Nello stadio seguente, verso i 14 anni, ci sono i primi
scambi tra ragazzi e ragazze che hanno uno status superiore nei loro
gruppi, si formano i primi sottogruppi misti ma permangono le
precedenti aggregazioni monosessuali. Nello stadio seguente si
formano solo gruppi eterosessuali. In seguito, il gruppo più largo
sparisce per lasciare il posto a gruppi piccoli formati da coppie
stabili. Come tutti gli schemi evolutivi, quello di Dumphy indica una
tra tante altre traiettorie evolutive. In questi rapporti tra maschi
e femmine all'interno del gruppo si possono rafforzare le differenze
sociali tra i sessi. Certo, ci sono gruppi giovanili in cui si tenta
di eliminare ogni tipo di sessismo. Ma alcuni meccanismi di
differenziazione rimangono inconsci. Si pensi, ad esempio, ai criteri
diversi di valutazione a seconda dei sessi, al fatto solo che la
ragazza è più apprezzata in funzione della sua bellezza. Ci sono
anche gruppi, soprattutto negli ambienti popolari, in cui le
differenze tradizionali tra i sessi vengono intenzionalmente
riprodotte, in cui i maschi mantengono in uno status subordinato le
femmine. I gruppi di adolescenti non sono necessariamente
progressisti. Possono in alcuni casi riprodurre i valori più
tradizionali del loro gruppo sociale.
In definitiva, la società degli adulti è “parte”,
ma non il “tutto” del processo di formazione identitaria delle
nuove generazioni. L'atteggiamento degli adulti verso i giovani
comprende sentimenti di protezione, per cui i figli e gli “immaturi”
affidati sono sentiti come prova della propria potenza generativa e
costruttiva, un prolungamento di sé; comprende anche sentimenti di
timore e d'invidia, poiché essi sono avvertiti come minacciosi del
proprio “potere”. Spesso gli adulti esprimono aggressività verso
gli adolescenti; nello stesso tempo, gli adulti proiettano sui
giovani i loro desideri irrealizzati, attribuendo così loro il
bisogno di libertà, d'autorealizzazione e di soddisfazione sessuale.
Si produce una profonda ambivalenza a detrimento della percezione e
concorso nella costruzione delle “persone” che i giovani
diventeranno, ambivalenza accentuata nella “cultura occidentale”
dal fatto che essa non trova più quadri stabili in cui iscriversi,
come avveniva negli antichi riti di iniziazione, o nella più recente
stabilità di ruoli che definivano il posto di ciascuno. La società
acquisitiva, basata sulla produzione e sul consumo individuali, ha
distrutto le basi degli arcaici modelli familiari, e la conseguente
stabilità delle prescrizioni di ruolo tra le fasce generazionali.
L'ambivalenza degli adulti si esprime così in oscillazioni tra
l'idealizzazione dei giovani (come se la vita fosse rintracciabile in
una trama d'una fiction
“ottimista” o in una certo messaggio pubblicitario o di
“costume”) e desideri di rivalsa autoritaria (quando i giovani,
ribellandosi, “tradiscono” la fiducia e l'idealizzazione riposta
in essi), fra desideri di protezione – ormai, inadeguati o
semplicemente superflui – e proiezioni di colpevolezza (insistenza
sul sesso e sulle “droghe”), fra presunzioni di “innocenza” e
accuse di animo corrotto (questa ambivalenza è tipica, in certe
famiglie, dei rapporti dei genitori verso figlie e figli), che
esprimono ancora il riflesso dei propri desideri ed insieme il timore
e la censura di quest'ultimi.
Così si arriva – ancora – a sostenete che i giovani
“vanno tenuti a freno”, educati, oppure che deve essere data loro
ogni possibilità di godere la vita “finché son giovani”, ed
ogni permissività, senza d'altronde riuscire a mantenere a fondo e
con coerenza ciascuna di queste posizioni; si tratta, evidentemente,
di oscillazioni che eludono il problema di fondo, che è
l'estraneazione degli adulti per primi dal controllo e
dall'accettazione dei propri modelli di comportamento, delle proprie
soddisfazioni istintuali, dei propri sentimenti di colpa. In questo
senso, da tempo la Mead, dopo aver osservato come da una società in
cui i modelli erano fissi e tramandati dai “vecchi”, si sia
passati ad una in cui i modelli devono essere “reimparati” e sono
comunicati dai pari – così come avviene quando si cambia paese in
un'emigrazione nel “mondo globalizzato” -, afferma che oggi anche
questa fase si dimostra superata, e i modelli di comportamento devono
essere “inventati”, attraverso un reale potere di partecipazione
dei giovani che prefigurano bisogni e possibilità non più solo del
prossimo futuro, ma del presente stesso. A questo fine, è necessaria
anche una certa dose di conflitto, ed è necessario non negare la sua
realtà attraverso quella “violenza che si maschera d'amore”, che
instaura un falso rapporto ed una falsa comunicazione: come ricorda,
nel linguaggio paradossale, una massima di Laing: Quando
le famiglie non vivono più armonia, si hanno figli devoti e buoni
genitori; o, più semplicemente, instaurare
decisamente il dialogo; nell'epoca attuale il “dialogo” è emerso
come concetto importante e addirittura centrale sia nella filosofia
che nella politica. Si parla di “dialogo tra civiltà” in
opposizione a uno “scontro di civiltà”, e di “dialogo tra
religioni” come antidoto allo “scontro dei fondamentalismi”.
Perché il dialogo emerge oggi in termini così cruciali ? Perché
esso denota l’opposto dell’unilateralismo e del monologo. Quindi,
tornare alle scaturigini, all'etimologia di “dia” e “logos”,
della relazione sociale fondamentale. “Logos” significa ragione,
significato, e anche (semplicemente) parola. “Dia” significa “in
mezzo a” o “a mezzo a mezzo”. Quindi dia-logos
vuol dire che ragione o significato non sono il monopolio di una
parte, ma affiorano nel rapporto o nella comunicazione tra parti o
agenti. Il logos qui è
un logos condiviso e
dipende in maniera cruciale dalla partecipazione di “diverse” o
“molte” persone.
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