Il recente volume “Pensare altrimenti” di Diego Fusaro va letto,
discusso collettivamente, soprattutto con i giovani, interpretato e
commentato. Perché, in questo contesto storico e sociale turbolento e
gravido di serie minacce che possono ulteriormente far regredire verso
forme tecnocratiche neo-autoritarie l’ordine capitalistico mondiale,
esprimere questa necessità? Prioritariamente, perché è un libro chiaro
nell’esposizione; è un testo didascalico. Non è da
trascurare lo stile con il quale l’autore argomenta «l’annullamento del
dissenso, con annessa uniformazione integrale del sentire e del pensare»
(op. cit. pag. 29), mentre «sotto il cielo domina graniticamente il
pensiero unico del consenso di massa [ … ]» il quale «predica in maniera
compulsiva l’intrasformabilità del mondo [ … ]» (op. cit. pag. 46); la
foggia della scrittura è tale da rendere comprensibile a tutti il ragionamento,
anche a chi è in fase evolutiva e necessita d’apprendere (in questo
caso, il target ideale della comunicazione culturale veicolata da “Pensare altrimenti”
è costituito dagli studenti delle scuole secondarie di secondo grado ed
universitari – guidati filologicamente nella lettura – che necessitano
di imparare a guardare in modo critico e fondato alla condizione umana
ed al mondo attuale) ed incrementare l’abilità che consente d’analizzare
in modo oggettivo le informazioni disponibili, valutare e interpretare
dati e esperienze al fine di giungere a conclusioni chiare e solide.
Il forte incentivo al discernimento, all’analisi razionale puntuale ed alla valutazione di quanto pensato e scritto, è senza dubbio l’evidente valore aggiunto educativo del volume.
Pertanto, nelle scuole, nelle Università, nei centri d’aggregazione
sociale e di promozione culturale è bene che se ne parli per permettere
alle giovani generazioni di fuoriuscire dal monologo di massa, di dissentire e ridare vita alla possibilità di pensare ed essere altrimenti, trasparenti obiettivi culturali di Fusaro ed editoriali dell’Einaudi.
Tuttavia, pur auspicando un’energica ripresa del pubblico contraddittorio sulle questioni del dissenso
che «sorge sempre dal sentire altrimenti della coscienza individuale» e
«può, poi, organizzarsi in forme corali, che spaziano dalla protesta
alla rivoluzione» (ibidem, pagg. 20-21), pur rapportandosi con le leggi e
gli ordinamenti, assumendo, tra l’altro, forme diverse quali l’exit
(disaffezione che non produce un rovesciamento della situazione) e voice
(protesta a cui si conferisce voce per incidere sul funzionamento
dell’organizzazione o del sistema), è doveroso confrontarsi con la
“lettura” che Fusaro fa del percorso teorico, storico e sociale del dissenso come sentire contro. L’ermeneutica autoriale, a nostro giudizio, sottrae la ricostruzione speculativa al naturale approdo d’una possibile rifondazione epistemologica [1] rifluendo in un discorso di filosofia politica.
Da qui, la trasformazione della qualità didascalica dell’opera in un
impaccio, per quei lettori che filtrano le nozioni grazie ad una più
ampia consapevolezza rispetto alla tradizione del pensiero politico
moderno, da Hobbes a Hegel, transitando per Locke, Rousseau, Kant, Marx e
del Novecento e che, in definitiva, possono giudicare secondo il parametro dell’offerta di nuovi strumenti concettuali che, lo sforzo elaborativo di Fusaro, pare non donare.
Volendo usare il lessico kantiano, le pagine del libro non favoriscono l’estensione della conoscenza, bensì si sviluppano nell’ambito d’una concezione razionalistica, pur comprensibile nell’intenzione euristica e di diniego dell’individualismo autistico; per questo motivo, esse stesse rivendicano ulteriore approfondimento ed apertura di prospettiva per una fertile congiunzione degli auspici teorici con il movimento reale e trasformativo delle materia sociale. C’è un altro modo di porsi del pensiero critico, oppositivo, antagonista, anche come intelligencija
(ricordiamo che è Hegel, come Fusaro sa, ad introdurre una distinzione
importante tra le nozioni di «società civile» e «Stato» e che
quest’ultimo viene concepito da Marx come «sovrastruttura» rispetto alla
società civile in modo da portare luce sull’antitesi non risolta tra contenuto e forma, tra individuo concreto e cittadino astratto), un “modo” che diventa “mondo”. La modalità dialettica di relazione del pensiero con la storia
nega l’analogia strutturale tra accumulazione di ricchezza
nell’organizzazione capitalistica della produzione, da parte dei centri
di potere globale, e l’indefinito deposito di conoscenza in poche menti
le quali, non socializzando il sapere altro,
se non al di dentro delle forme d’espressione consentite (appunto) e
rituali nello stabilizzare la gerarchia sociale e le funzioni in essa
normate [2], non mutandolo in strumenti d’azione trasformativa,
concorrono a conservare la «contraddizione nella quale si trova il bourgeois con il citoyen, nella quale si trova il membro della società civile con il suo travestimento politico» [3]. È ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (i GRÜNDRISSE del 1857-58) [4], al Frammento sulle macchine, in particolare (un concentrato teoretico di quattordici pagine, contenuto nel secondo volume dell’opera) che – come pista di ricerca sulle disobbedienze che possono assurgere ad un ampio programma di riconfigurazione dell’assetto sociale – è necessario andare per cogliere le possibilità del requisito più evidente della socialità dell’individuo odierno – il general intellect -, per determinare, nell’epoca cosiddetta dell’avanzato post-fordismo, il ruolo dell’intellettualità in quanto tale, essa stessa messa al lavoro,
cioè del linguaggio, della conoscenza, delle categorie interpretative,
della socialità, delle relazioni affettive e dei rapporti
interpersonali, presi per se stessi quali luoghi dell’esistenza alienata e potenzialmente luoghi d’orientamento e d’innesco dell’insubordinazione sociale [5].
Non si può concordare, quindi, con l’idea di Fusaro secondo la quale – parafrasando quanto sostiene Bernardino Telesio nel De rerum natura iuxta propria principia
(1586), impegnato in una pratica di ricerca della conoscenza fondata
sulla sensibilità [6] – il «dissenso» allude all’«ambito delle passioni»
e non sia correlabile alla condizione materiale dell’esistenza umana,
unico fattore di metodo e di invenzione rivoluzionari, con le conseguenze biopolitiche ed ecosistemiche che ne scaturiscono.
Leggendo
e decifrando attentamente il filo logico- argomentativo che intesse la
suggestiva trama del saggio, con specifica attenzione ai Capitoli 3 Gradi e forme del sentire non omologato e 4 Democrazia e dissenso (op. cit. pagg. 18-32), – innervata dalla robusta radice della Scuola di Francoforte
alla quale Fusaro attinge riecheggiando l’horkheimeriana «nostalgia del
totalmente altro» (o, blochianamente, del non-ancora) -, si coglie la
pretesa dell’autore di aver individuato la determinazione ontologica,
espressa impressionisticamente da variegate forme di soggettività (la
ribellione di Prometeo come prototipo di ogni, successivo temporalmente,
assalto al cielo, che troverebbe in Occupy Wall Street
e nel caleidoscopico irrompere nella contemporaneità di ulteriori
pronunciamenti organizzati di resilienza, resistenza ed opposizione
sociale), che sancisce non esserci soluzione strutturale al determinarsi storico della sussunzione reale della società nel capitale.
Infatti, Fusaro, cogliendo la necessità di ripensare le possibilità dell’individuale
incastonandole, dunque, in un essenziale impulso etico, scrive in un
passaggio evocativo, ad un tempo, di Eschilo, Fedro, Omero, Platone,
Kant, Gramsci, Adorno e Fromm ed altri ancora:
«È
solo dissentendo, e organizzando in forme strutturate il proprio
sentire altrimenti, che l’individuo può maturare come soggetto, ossia
come portatore di un sua visione critica e personale, scelta liberamente
e non accettata passivamente perché imposta dall’ordine simbolico
dominante [ … ] Il dissenso come rifiuto dell’autorità e del potere –
politico o ecclesiastico, reale o simbolico – costituisce il gesto
originario della civiltà occidentale [ … ] pone in essere una tensione
tra la coscienza dell’individuo che sente altrimenti, e che può
organizzare socialmente il proprio sentire, contro i cristalli del
potere e dell’ordine politico, ossia contro quelle realtà che, almeno
nelle tradizione occidentale, da sempre si connotano come volontà di
ordine e di stabilità, di consenso e di creazione di quella docilità
irriflessa che viene detta obbedienza» (op. cit. pagg. 14-15); più
avanti, riguardo al presente, sollecita l’eresia rispetto «al monoteismo
idolatrico del mercato, al fanatismo economico-finanziario» in grado di rinsaldare diuturnamente «un consenso universale e una sincronizzazione di massa delle coscienze» (ibidem, pag. 17).
Del tutto evidente che secondo Fusaro le incarnazioni dell’ordine costituito e i loro doppi ribelli, il gioco affascinante tra l’essere e il poter essere sono irrisolvibili; il filosofo torinese, pur mantenendo una tensione tra effettività e alterità, non sembra riuscire a costruire uno sguardo, in qualche modo necessario, che scruti anche oltre la tradizione della teoria critica, evitando d’avvitarsi in un auspicio di cambiamento senza prassi rivoluzionaria, e che si congedi dalla mera teoresi superando lo stesso impianto speculativo. Le insuperabili aporie del pensiero critico-negativo francofortese si ripresentano non modificate nel pensiero di Fusaro che aggiorna le idee di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno contenute in Dialettica dell’Illuminismo
(1947), messe fruttuosamente all’opera nei cantieri politico e sociale,
nei tre decenni successivi alla pubblicazione, dai movimenti di massa
femminili, studenteschi e proletari per ribellarsi al processo di
riduzione della cultura a merce, per contrastare la legge dello scambio
estesa ai prodotti dell’ingegno umano che l’industria culturale
valuta secondo logiche di profitto e che, oggi, assumono la fisionomia
di inevitabile critica all’I. C. T. ed alla digitalizzazione della
produzione e della riproduzione sociale .
Certo Fusaro s’avvede che la la democrazia reale
«resta un orientamento teleologico, una meta a cui tendere, non certo
una forma politica già realizzata nelle strutture dell’esistente» (ibidem, pag. 25). Dalla constatazione ne trae, però, conferma il suo pathos inesauribile, eclettico, talvolta polemico mass-mediaticamente,
ma soprattutto esortativo ed etico (non paia bizzarro, ma ciò ha un
afflato psicologico e morale simile al racconto biografico di Ignazio
Silone Uscita di sicurezza, Vallecchi, 1965). Affermare quanto segue
«le
dicotomie oggi imposte dal politicamente corretto, come quella tra
destra e sinistra, tra atei e credenti, tra islamici e cristiani, tra
fascisti e antifascisti, tra stranieri e autoctoni, rendono invisibile
la contraddizione – il nesso di forza capitalistico – e assumono lo
statuto di risorsa ideologica e simbolica per l’assoggettamento
dell’opinione pubblica al profilo culturale di quella teologia delle
diseguaglianze che è l’odierna economia di mercato» (ibidem, pag. 67),
non crea scandalo perché è un sapere di classe già sedimentato e, a ben osservare rebus sic stantibus
non lo crea almeno dalla fine degli anni ’60 del Novecento né le
“primavere araba, europea e statunitense” l’hanno smentito. Ne consegue
la disarmonia del lògos con le attuali urgenze sociali quando si scopre intento a promuovere un dislocamento dell’analisi, un suo salto in avanti, che non sia legato ad una forza, ad un soggetto che questo salto opera (attitudine diffusa, come già A. Negri, cit. in Nota 3, ha evidenziato in altra circostanza).
È
gradevole e corretto il sofisma che recita: «Mutuando liberamente la
sintassi di Heidegger, potremmo sostenere che, nella società del
consenso universale e del conformismo di massa, il dissenso è esso
stesso in preda al Si anonimo ed impersonale: ciascuno dissente come si
dissente. E questo non solo perché il dissenso si capovolge puntualmente
in anticonformismo e, quindi, in un nuovo conformismo, che
semplicemente rovescia il paradigma dominante già assumendolo come
proprio riferimento» (ibidem, pag. 63); l’ingegnosa coerenza formale, inoltre, non nasconde la verità di un potere
che gestisce il consenso e, sempre più spesso, anche il dissenso,
creando il consenso, pilotando, dirigendo ed incanalando il dissenso, di
modo che che il primo sia garantito (e non messo a repentaglio), per
via negativa, dal secondo; tutto ciò spiega che, apparentemente
orizzontali i rapporti sociali, sono resi impossibili dall’ordine
globale, il quale si regge strutturalmente e non per accidens, sul
classismo e sulle disuguaglianze (ibidem, pag. 65);
nondimeno, lo sviluppo reale della scienza sociale è guidato, più o meno
coscientemente, dall’ideale d’una scientificità progressiva, cioè d’una
capacità autonoma d’attribuire rilevanza differente
alle azioni sociali, le quali saranno fondate sulla conoscenza quanto
più possibile rigorosa delle leggi oggettive del movimento della materia
sociale, quindi non abbandonate al predominio dell’opzione teorica
filosofica glamour o all’intuizione degli operatori ideologici; di
conseguenza, il compito urgente ed anche più impegnativo che spetta ai ricercatori sociali di verità è quello di evitare meri affreschi sul presente e di porre in questione lo stesso punto di vista dal quale si prendono le mosse,
analizzandone il significato storico ed attuale, mettendone in rilievo i
limiti e le condizioni di immanenza, indicandone eventuali linee di
riorientamento ed i pericoli inerenti. Fusaro ne è consapevole quando
afferma convinto che «il primo gesto di un dissenso autentico, non
manipolato dall’ordine simbolico dominante, consisterebbe nel congedo da
queste false dicotomie [nesso di forma capitalistico] e nella presa di
posizione rispetto alla contraddizione reale» (ibidem, pagg. 67-68 e cfr. Capitolo 12. La neolingua e il nuovo ordine simbolico, pagg. 96-109) e prospetta il commiato dalle grandi narrazioni,
senza però accorgersi che non si esce dal resoconto storico-teorico, a
lato di espedienti critici e demistificanti che pur si producono nel
dibattito pubblico, se non indicando l’immediata agibilità di un’azione contro lo stato presente di cose, partendo proprio dalla condizione sociale data.
In questo quadro il primo problema che pone, in verità, l’argomentazione di Fusaro è quello relativo all’incidenza dell’opposizione
nel processo di formazione e promozione dell’indirizzo
politico-sociale, nonché nel processo di controllo della sua attuazione;
il fallimento dei sistemi costituzionali e parlamentari è sotto
l’osservazione di tutti e, perciò, anche di Fusaro che non può fare
altro che ritenere le opposizioni perversamente complementari all’assunzione di responsabilità di governo, entro un gioco delle parti che – essendo il “sistema”
d’organizzazione economico-sociale secolarmente acclarato – può anche
veder rovesciato il ruolo degli attori senza, peraltro, sovvertire la governance;
in altri termini, il ruolo giocato dagli antagonismi sociali che
esprimono dissenso si incarna in un’attitudine partecipativa che genera
per sua natura meccanismi procedurali di manipolazione identitaria e di subordinazione delle soggettività antagonistiche.
Recensione in mentinfuga |
La mediazione oppositiva è annichilimento dell’autonomia del pensare altrimenti ed agire contro (cfr. ibidem Capitolo 18. Dissento, dunque siamo, pagg. 144-156).
Pertanto, quando la critica dell’esistente non si pone nell’ottica d’una funzione oppositiva non integrabile (antisistema), quando non è in grado d’emanciparsi dalle mere dimensioni contestative sussumendo l’alternativa sistemica globale
[8] – porre il problema del “potere politico” è l’orizzonte che va
aperto -, rinuncia palesemente al progetto di liberazione umana che
prevede il consenso dell’uomo ad un’inevitabile alternativa collettiva “totale” ed una coscienza traducibile in un’antropologia, in un’utopia – coincidente con quanto non è stato ancora realizzato, il non-ancora-attuale, la possibilità, l’immanente alternativa – originariamente e socialmente fruibile.
Al Pensare altrimenti di Fusaro manca un bilancio utopistico e rimane impigliato nell’angosciante assenza di un progetto storicamente determinato contro l’«integralismo economico globale» (resta irretito dalla stessa invenzione retorica dell’«ideologia del medesimo», rif. ibidem pagg. 77-86) intenzionalmente capace di scardinare davvero le strutture sociali conosciute. Tale sorta d’anomia intellettuale si limita a riconoscere, in ogni antinomia sociale,
momenti “simbolici” del suo superamento, affermando l’idea di questo
bisogno, ma rinculando nell’irrazionale della buona volontà filosofica:
«il grande dissenso verso l’integralismo economico globale è chiamato a
organizzarsi». Questo è certamente vero, ma non è sufficiente per
rinnovare la storia umana, non per discendere dal cielo sulla terra, bensì per salire dalla terra al cielo.
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