Dopo Teramo, Roma e Bolzano è esposta a Chieti la mostra “I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista” realizzata dalla Fondazione Università degli Studi di Teramo e curata dalla ricercatrice dell’Ateneo di Teramo Annacarla Valeriano e dallo storico Costantino Di Sante.
La
mostra, promossa dall’associazione Chieti Nuova 3, si terrà nella
sede del Liceo Classico “G.B. Vico” e sarà aperta al pubblico
dal 2 al 19 febbraio dal martedì a domenica dalle 10.30 alle 12.30 e
da martedì a venerdì anche dalle 17 alle 19.
La
mostra foto-documentaria sarà inaugurata alla presenza dei curatori
il 2 febbraio alle ore 17.30. Interverranno il preside del Liceo
Classico “G.B. Vico” Paola Di Renzo, il direttore dell’Archivio
di stato di Chieti Antonello De Berardinis e gli studenti del Liceo
Classico.
L’idea
di realizzare una mostra sulle donne ricoverate in manicomio durante
il periodo fascista è nata dalla volontà di restituire voce e
umanità alle tante recluse che furono estromesse e marginalizzate
dalla società dell’epoca.
“Ci
è sembrato importante”, spiegano i curatori della mostra,
“raccontare le storie di queste donne a partire dai loro volti,
dalle loro espressioni, dai loro sguardi in cui sembrano quasi
annullarsi le smemoratezze e le rimozioni che le hanno relegate in
una dimensione di silenzio e oblio. Alle immagini sono state
affiancate le parole: quelle dei medici, che ne rappresentarono
anomalie ed esuberanze, ma anche le parole lasciate dalle stesse
protagoniste dell’esperienza di internamento nelle lettere che
scrissero a casa e che, censurate, sono rimaste nelle cartelle
cliniche”.
È
possibile prenotare visite guidate per studenti ai numeri 347 4521937
e 338 1734161.
I
volti e le espressioni di donne internate in manicomio durante il
regime, restituiti allo sguardo del visitatore da efficaci
fotografie, condividono la sorte della condanna morale con il titolo
dell’omonima opera di Baudelaire.
All’ingresso
della sala ci accoglie “La geografia dei manicomi”, una
cartina dell’Italia che traccia la presenza di tutte le strutture,
sessantacinque manicomi distribuiti in diciassette regioni. La
mostra è divulgativa e chiara, le testimonianze immediate. Occupa il
primo piano, con una zona più ampia destinata alle foto e ai
documenti cartacei originali, e una più piccola, delimitata da un
cartongesso divisorio, che accoglie pannelli e locandine. Lo spazio è
raccolto, l’esposizione è armonica nei colori. Nonostante i
medico-tecnicismi dell’epoca, restituisce il senso, risignifica,
costruisce una narrazione con l’osservatore. Il taglio è
differente rispetto agli spazi che solitamente sono dedicati alle
vite che hanno popolato le istituzioni totali. Più che le
pratiche di internamento, è il clima di repressione che conduce
all’internamento a essere co-protagonista dei volti. Sulla
stessa tela confluiscono il volto dell’alienata e la sua
cartella medica, uno stralcio di suo scritto al quale è accompagnata
una traduzione in digitale per favorirne la comprensione, la diagnosi
del medico, le informazioni cliniche, lettere di familiari o amati.
Un amaro sorriso compare sulla bocca quando sui diari clinici si
leggono i sintomi concausa delle diagnosi: loquace, incoerente,
erotica, capricciosa, eccitata, indocile, impulsiva, petulante,
piacente, rossa in viso, dedita all’ozio.
Dalla
parte opposta della sala si ritrovano i manifesti della donna “pro
familia” e degli almanacchi della massaia fascista, così da
non destare dubbio che quelli elencati potessero essere sintomi
sufficienti. Ci sono testi che danno modo di orientarsi nel contesto
storico, nel quadro normativo in materia di leggi razziali e di
condotte morali. Le vicende delle internate si svolgono tutte in
Abruzzo, nell’Ospedale psichiatrico di Teramo che nacque nel 1323 e
inaugurò la sezione psichiatrica nel 1881. Ha chiuso il 31 marzo del
1998 per effetto della legge Basaglia. Si stima che in questo
periodo siano passati per questo manicomio circa ventiduemila
“folli”, con un picco durante il ventennio fascista, periodo
in cui, tra i direttori, ritroviamo anche Marco Levi Bianchini,
fondatore della Società Italiana di Psicoanalisi.
Questa
è la storia di donne che non sono riuscite ad adattare il loro animo
alla remissività e alla pubblica esaltazione della funzione
riproduttiva, come volevano gli slogan fascisti. Donne
che uscivano la sera, destando pubblico scandalo, ritenute
anaffettive con i figli e disinteressate alla famiglia.
Donne che, dopo i conflitti bellici, hanno vissuto una repulsione per
ogni attività che aveva caratterizzato in modo perpetuo la loro
esistenza. In
gran parte massaie, casalinghe, nate e cresciute in piccoli paesi e
comuni, alcune con volti di bambine, un’età compresa tra i dodici
e sessanta anni, anche
se non sono mancati casi di bambine con soli due anni di vita.
C’è Paolina, venti anni, povera, rinchiusa per “immoralità
costituzionale”; Crocifissa G., trent’anni, casalinga, rinchiusa
nel 1905; Adelaide D., che raggiunge la sorella in manicomio per il
morso di un gatto nero; Chiara D., zingara e anche strega. Molte di
queste donne hanno scritto lettere, grida mai giunte a destinazione,
che ritroviamo allegate alle cartelle cliniche, sequestrate dalla
direzione medica a scopo diagnostico (lettere e cartelle cliniche si
possono ritrovare sul sito della Fondazione
della Università di Teramo).
Come
ha scritto una di queste donne, Haidè B., quarantacinque anni,
casalinga e una diagnosi di “psicosi isterica”, «come
naufrago che in una tempesta si appiglia alla prima tavola che gli
capita davanti, così io immersa nelle barbarie inaudite, sono
costretta a chiedere aiuto».Voci che rimarranno inascoltate fino
a quando la riforma Basaglia non porrà fine alla barbarie inaudita
dei manicomi civili. Si esce alla luce del giorno e ripercorrendo le
scale che portano al lungo fiume si ha la sensazione di un conflitto
continuo che sottende gli “eserciti della morale”, che non ha
conosciuto armistizi di pace, neanche a guerra finita.
Approfondimenti
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