Patrimonio immateriale
Dalla
seconda guerra mondiale in poi, l’Unesco ha sostenuto una serie di
iniziative sul tema del patrimonio universale, partendo sul versante
del patrimonio materiale (tangibile), sia mobile che immobile ed
includendo il patrimonio naturale e, più recentemente, il patrimonio
immaterialeii.
Sebbene vi siano tra distinte liste di beni patrimonializzati, si è
fatta strada una crescente consapevolezza dell’arbitrarietà delle
categorie e delle loro interrelazioni. Il patrimonio materiale è
stato definito come “un monumento, un insieme,e di edifici o un
sito di valore storico, estetico, archeologico, scientifico
etnologico ed antropologico”, e comprende luoghi come Angkor Wat,
un esteso complesso di templi nei pressi del villaggio cambogiano di
Siem Reap; Robin Island, il carcere di Città del Capo dove Nelson
Mandela fu tenuto rinchiuso per la gran parte dei suoi 26 anni di
prigionia; Teotihuacan, la antica città di piramidi situata a poca
distanza da Città del Messico, e la miniera di sale di Wieliscska,
non lontana da Cracovia, che è stata oggetto di sfruttamento
minerario fin dal 13° secolo.
Il
patrimonio naturale, invece, è definito come l’insieme di “tratti
geologici, biologici, fisici, di eccezionale livello, habitats
botanici minacciati o specie animali ed area di valore dal punto di
vista scientifico o estetico o in prospettiva di tutela e di
conservazione. Il patrimonio naturale include quindi luoghi come il
Mar Rosso, il Mount kenia National Parck, il Grand Canyon e, più
recentemente, l’area della grande Amazzonia nel Brasile centraleiii.
In un primo tempo per ambienti naturali si intendevano luoghi che di
particolare bellezza o per altre qualità, fossero rimasti intatti e
non contaminati dalla presenza umana, e quindi pertinenti la natura
selvaggia, ma perlopiù i luoghi che sono stati poi inclusi nelle
liste – come del resto anche accade in tutto il mondo- risultano
essere stati plasmati o condizionati in qualche modo dall’uomo,
comprendere e accettare questo dato ha di fatto cambiato il modo in
cui l’UNESCO concepisce il patrimonio ambientale e naturale.
Allo
stesso tempo, il patrimonio naturale, concepito nei termini
dell’ecologia, dell’ambiente, di un approccio sistemico ad una
entità vivente, ha fornito un modello per pensare al patrimonio
immateriale come ad una totalità, invece che come ad un inventario,
e per calcolare il valore immateriale di un sistema vivente, fosse
esso naturale o culturale.
Per
diversi decenni si è cercato di definire il patrimonio immateriale,
prima e talvolta definito folklore, e un cambiamento significativo si
è avuto quando il concetto di patrimonio immateriale si è allargato
fino a includere, in aggiunta ai “masterpieces” i capolavori”
anche i “masters”, i loro produttori. Il modello del folklore
aveva sostenuto gli studiosi e le istituzioni nello sforzo di
documentare e preservare le testimonianze di una tradizione in via di
scomparsa.
Il
modello successivo cerca, invece, di sostenere una tradizione
vivente, se a rischio, determinando le condizioni per la sua
riproduzione culturale. Ciò implica che si riconosca il dovuto
valore ai portatori della tradizione ed ai suoi depositari così come
ai loro habitus ed ai loro habitat. Di modo ché, al pari del
patrimonio materiale, quello immateriale è cultura, e al pari di
quello naturale, è un insieme vivente. Il compito che ne risulta,
perciò, è quello di sostenere un intero sistema in quanto entità
vivente, e non si limita al collezionamento di “artefatti di natura
immateriale”.
Lo
sforzo dell’Unesco di dotarsi di uno strumento per proteggere ciò
che oggi si chiama patrimonio immateriale risale al 1952. Una prima
politica di salvaguardia del folklore, centrata su strumenti e
concetti legali, quali proprietà intellettuale, copyright, marchio e
certificazione, non ebbe successo. Il folklore per definizione non è
un creazione individuale: esso consiste di versioni e varianti, e non
contiene una forma unica, originale e legittima; il folklore si
produce generalmente nel corso di performances ed è oggetto di
trasmissione orale, attraverso le pratiche, per esempio, più che
tramite forme oggettivate e tangibili (penso alle scritture, alle
annotazioni, ai disegni, alle fotografie, alle registrazioni)iv.
Per tutti gli anni ’80 le misure legali furono distinte da quelle
miranti alla conservazione, e nel 1989 la conferenza generale
dell’Unesco, adottò la “Recommendation” per la Salvaguardia
della cultura tradizionale e del folklorev.
E’ datato al 16 maggio 2001, il rapporto sullo “Studio
preliminare sull’opportunità di regolamentare sul piano
internazionale, tramite strumenti aggiornati a nuovi standard, la
protezione della cultura tradizionale e del folklore”, e questo
rapporto spostava i termini fissati dal documento del 1989. In primo
luogo al posto dell’enfasi sul ruolo dei folkloristi professionali
e delle istituzioni nel documentare e tutelare i documenti delle
tradizioni in via di scomparsa, il documento pone la priorità del
sostegno alle tradizioni in sé, tramite quello dato ai loro
praticanti. Ciò comporta un passaggio dagli artefatti (racconti,
canzoni, usanze) alle persone (narratori ed interpreti, artigiani,
curatori), le loro conoscenze e le loro abilità. Sotto la spinta
dell’approccio al patrimonio naturale come insieme di sistemi
viventi, e del concetto di Tesori nazionali viventi, che in Giappone,
fin dal 1950, ottenne un vero e proprio status legale, il documento
del 2001 riconosceva l’importanza di ampliare l’obiettivo della
politica di creazione del patrimonio immateriale e delle misure volte
ala sua tutela. La continuità del patrimonio immateriale avrebbe
quindi richiesto attenzione, più che ai prodotti, alle persone, così
come ai loro habitus ed ai loro habitat, da individuare nei loro modi
di vita e nei loro mondi sociali.
Secondo
la definizione dell’Unesco, il patrimonio immateriale è costituito
da” tutte le forme della cultura tradizionale popolare e
folklorica, ovvero: attività collettive che si producono entro una
comunità data e fondate sulla tradizione. Queste creazioni sono
tramandate oralmente o attraverso l’esempio gestuale, e si
modificano, nel corso del tempo, per via di un processo di
rigenerazione collettiva. Vi si includono le tradizioni orali, le
usanze, il linguaggio, la musica, la danza, i rituali, e feste, le
tradizioni mediche e farmacologiche, le arti gastronomiche ed ogni
genere di abilità specifiche connesse all’aspetto materiale della
cultura, quali ad esempio le strumentazioni tecniche e gli habitatvi.
La
definizione fu poi ulteriormente precisata, poi, con l’incontro di
Torino, nel marzo del 2001: i processi di conoscenza delle persone
insieme alle conoscenze, abilità e alla creatività che li informano
e che da essi vengono sviluppate, i prodotti che vengono creati e le
risorse, gli spazi, e gli altri aspetti del contesto sociale e
naturale necessari alla loro sostenibilità; questi processi offrono
alle comunità viventi un senso di continuità con le generazioni
precedenti e sono fondamentali per la identità culturale tanto
quanto per la salvaguardia della diversità culturale e della
creatività umanavii.
Questo
approccio olistico alla definizione del patrimonio immateriale è
accompagnato da una definizione che assume la forma di un inventario,
eredità degli sforzi fatti in precedenza di definire la tradizione
orale ed il foklore: La totalità delle creazioni su base
tradizionale di una comunità culturale, espressa da un gruppo di
persone e riconosciuto come specchio delle aspettative di una
comunità in quanto esse ne rispecchiano l’identità culturale e
sociale; i suoi standards e valori sono trasmessi oralmente, per
imitazione o per altri mezzi. Le sue forme sono, tra le altre,
lingua, letteratura, musica, danza, gioco, mitologia, rituali,
usanze, artefatto, architettura ed altre artiviii
Altrove,
nella Implementation Guide annessa, termini quali ‘tradizionale’,
‘popolare’ e folk’ collocano il patrimonio orale e immateriale
all’interno di una implicita gerarchia culturale, che si estrinseca
nella spiegazione di due domane: ‘perché e per chi?’: ‘Per
molte popolazioni (in particolare minoranze gruppi indigeni) il
patrimonio immateriale è una fonte vitale di identità che è
radicata profondamente nella propria storiaix
.
Neologismi
quali “First Peoples” (invece di Terzo mondo) e Les Arts Premiers
(invece di Arte primitiva) cooperano a preservare la nozione di una
gerarchia culturale, proprio grazie al rimaneggiamento terminologico
dell’ordine dato, come si può chiaramente vedere nella
riorganizzazione dei musei parigini, a partire dalla dissoluzione del
Musée des Arts Africains et Océaniens e del Musée de Arts et
Traditions Populaires, fino alla redistribuzione delle collezioni del
Musée de l’Homme ed alla creazione di due nuovi musei, il Museo
del Quai Branly, dedicato alle “arti e alle civiltà di Africa,
Asia, Oceania e America”, a Parigi, e il Museo delle Civiltà
dell’Europa e del Mediterraneo, a Marsigliax
Dall’aprile 2000, una selezione delle collezioni
africano-oceaniano-americane, che finiranno poi nel Musée du Quai
Branly, sono ospitate, per la prima volta, in una sala del Louvre,
che è così diventata la sala delle prime artixi.
La presenza di questi lavori al Louvre è da interpretare come la
risposta, a lungo attesa,alla domanda che si pose nel 1920 il critico
d’arte Felix Fénéon, “Andranno mai al Louvre?”xii.
Gli
sviluppi a livello nazionale sono coerenti con gli sforzi compiuti
dall’Unesco per mobilitare gli attori responsabili entro i singoli
stati, “a prendere le misure necessarie per a salvaguardia del
patrimonio culturale immateriale presente nei rispettivi territori”xiii.
Queste misure rivelano la divaricazione tra la tutela
professionalizzata del patrimonio e il patrimonio che deve essere
tutelato. Per quanto molte di queste misure siano rivolte a
salvaguardare qualcosa che esiste già, il loro impatto più evidente
sta nel costruire la capacità di dare vita a qualcosa di nuovo,
includendo in ciò un concetto di patrimonio che ha ottenuto un
consenso internazionale, inventari di beni culturali, politiche
culturali, proliferazione di archivi e di documentazione, istituti di
ricerca, eccetera. In sintesi, la pratica della tutela richiede delle
abilità altamente specializzate che si situano ad un ordine del
tutto differente da quello delle competenze, ad analogo livello di
specialismo, richieste per le effettive esecuzioni del Kutiyattam o
del Bunraku o dei canti polifonici georgiani. Il ruolo dell’Unesco,
quindi, è quello di fornire delle leadership e delle linee di
condotta, di dare vita ad accordi internazionali e a iniziative di
cooperazione, mobilitando esperti e rappresentanti nazionali, e di
estendere la propria autorità morale a tutela del consenso che
queste figure raccolgono attorno all’impresa della tutela, durante
lunghi procedimenti di delibere, compromessi e rapporti conclusivi.
Questo procedimento dà vita, quindi, ad accordi, raccomandazioni,
risoluzioni e provvedimenti.
I
convenuti, le convenzioni ed i proclami, invocano diritti e obblighi,
sfornano protocolli, propongono normative e strumenti multilaterali,
e chiedono l’istituzione di comitati. I comitati debbono a loro
volta guidare, produrre raccomandazioni, chiedere maggiori
investimenti, esaminare richieste per l’inscrizione in apposite
liste o per l’inclusione in proposte progettuale, nel quadro della
cooperazione internazionale. Le raccomandazioni debbono essere
implementate sia a livello nazionale che internazionale. Agli stati
incombe il compito di definire ed identificare il quadro culturale
nel territorio di competenza, tramite l’elaborazione di inventari;
debbono dare vita a mirate politiche culturali ed anche ad organismi
amministrativi che diano loro effettivo seguito. Debbono istituire
istituzioni che supportino le attività di documentazione dei
patrimoni culturali, che cerchino di individuare le migliori modalità
della loro salvaguardia e, allo stesso tempo, che formino
professionisti del management del patrimonio culturale. Ad esse
spetta,infine, il compito di promuovere la consapevolezza, il dialogo
ed il rispetto tramite specifici strumenti di valorizzazione
culturale, quale, appunto, la lista.
La
lista
Nel
maggio 2001, dopo un decennale dibattito circa la terminologia, gli
obiettivi e le misure con cui intraprendere la salvaguardia di ciò
che era stato identificato come “cultura tradizionale e folklore”
e prima che il Report
on the Preliminary Study on the Advisability of Regulating
Intemationally, through a New Standard-setting Instrument, the
Protection of Traditional Culture and Folhlore fosse
presentato al consiglio esecutivo – l’Unesco dava l’annuncio
definitivo del programma che avrebbe identificato i primi diciannove
“Capolavori del patrimonio orale ed immateriale dell’umanità”xiv.
Che tipo di lista ne deriva, e soprattutto perché dopo tutto ciò
che era stato detto e fatto, dovesse essere proprio una lista il
maggior risultato di decenni di conferenze, incontri, formulazioni,
rapporti e raccomandazioni? Alcuni tra i protagonisti di questo lungo
processo di sviluppo dell’iniziativa a tutela del patrimonio
immateriale avevano sperato in un esito culturale e non
meta-culturale: avrebbero preferito definire delle azioni di sostegno
alle condizioni di riproduzione culturale dei patrimoni individuati,
più che ridurre tutto alla creazione di un artefatto meta-culturale
quale la lista.
James
Early, il direttore del Cultural
Heritage Policy istituito in seno allo Smithsonian's Center for
Folklife and CulturaI Heritage, e Peter Seitel, co-cordinatore al
progetto di una conferenza mondiale UNESCO/Smithsonian, documentarono
il loro disappunto riguardo all’adozione del programma di tutela
dei Capolavori dell’Umanità, come unica finalità istituzionale
dell’Unesco, in una convention sul ICH (patrimonio culturale
immateriale), che avrebbe dovuto offrirsi come uno strumento offerto
ai ‘governi nazionali per proclamare la ricchezza dei rispettivi
patrimoni culturali’ più che concentrarsi sugli effettivi
portatori e depositari di tale culturaxv
Il
bando
per i progetti di intervento (Call for action)
che emerse dalla conferenza tra lo Smithsonian e l’Unesco, nel
1999, sulla tutela delle culture tradizionali, specificava un ampio e
dettagliato ventaglio di azioni che potevano essere intraprese con e
per conto degli effettivi portatori delle tradizioni culturalixvi.
Sebbene vi si riconoscesse l’importanza di sviluppare i sistemi
culturali, il bando non si limitava a ciò, né raccomandava
esplicitamente la creazione di una lista di capolavori del patrimonio
orale e immateriale dell’umanità.
Ciascuna
parola di questa formula è particolarmente marcata, ma anche la
frase in sé suggerisce l’idea che il patrimonio esista, in quanto
tale, e sia un presupposto- piuttosto che un effetto- per le
definizioni da parte dell’Unesco, per la redazione delle liste e le
conseguenti misure di tutela. Ho avuto modo di suggerire, altrove,
che il patrimonio sia considerato come una modalità della produzione
culturale che riconosce a forme culturali a rischio di scomparsa o
passate di moda, una seconda possibilità di esistenza, in quanto
esibizioni di se stessexvii.
E in effetti uno dei criteri per la designazione di un capolavoro da
tutelare tramite l’iscrizione della lista Unesco è proprio la sua
vitalità: se è in ottima salute, non ha bisogno di tutela; se è
quasi dileguato, la tutela non sarebbe più sufficiente.
Coerentemente
con i criteri dichiarati, la lista dei primi diciannove capolavori
del patrimonio orale e immateriale dell’umanità’ finirà per
includere quindi comunità e manifestazioni culturali non presenti
nell’altra lista, quella del patrimonio materiale, e comprenderà
tradizioni orali, performances, linguaggio e modi di vita di gruppi
indigeni e minoranzexviii.
Le
risposte che ottenne la prima proclamazione di Capolavori del
Patrimonio orale e immateriale dell’Umanità furono molto
diversificata. In un articolo intitolato “La civiltà immateriale”,
apparso su The Atlantic Monthly, Colleen Murphy, segnalando la
campagna avviata da Alfonso Pecoraro Scanio per far riconoscere la
pizza napoletana come capolavoro dell’umanità, dichiarò di
trovare oppressiva la lista dell’Unesco: “è indiscutibilmente
uno sforzo meritorio. Ma l’impressione complessiva è quella del
sommario di un programma televisivo per la fascia delle 3 di notte’.
Muprh avanzava, così, di sua iniziativa altre candidature per la
lista del 2003, quali la bugia innocente (white lie), il fine
settimana, la passive voice e via dicendoxix.
Tali ironiche affermazioni puntavano a sottolineare il processo con
cui la vita diviene patrimonio e ciò che è contemporaneous (ovvero
ciò che nel presente viene valutato per il proprio contenuto di
passato) diviene contemporary (ciò che, nel presente, si relaziona
al proprio passato come ad un patrimonio)xx.
Mentre
la bugia innocente, il fine settimana e la voce passiva non
passeranno mai i test che selezionano i capolavori a rischio di
scomparsa, questi commenti ci ricordano che si potrebbe dare il caso
(non è ancora successo) per il patrimonio immateriale di ogni
comunità, dal momento che non si dà comunità che non trasmetta la
propria conoscenza incorporata attraverso la tradizione orale, la
gestualità o l’esemplificazione. Dando vita ad uno speciale
programma che recuperasse ciò che era sfuggito ai due precedenti
programmi di patrimonio universale, l’Unesco ha creato un programma
a sua volta selettivo (e non del tutto coerentemente con gli
obiettivi dichiarati). Così il balletto del Bolscioi ed il
Metropolitan Opera non fanno parte della lista, mentre vi è presente
il Nogaku, che pure non è una forma culturale appartenente ad una
minoranza o a un gruppo indigeno. Tutti e tre presentano un percorso
di formazione, utilizzano testi scritti, sono il prodotto avanzato di
culture allitterate e trasmettono un tipo di conoscenza incorporata
da un esecutore all’altro. Per di più, il Giappone, già ben
rappresentato anche nelle altre due liste di patrimonio universale,
sta proteggendo il proprio teatro in qualità di patrimonio
immateriale nazionale, sin dal 1957.
Ammettendo
queste forme culturali associati alle tradizioni di corte, a santuari
della cultura ampiamente nazionalizzati, ma in virtù della loro non
appartenenza alla storia ed alla cultura europea, la lista preserva
la distinzione tra Occidente e resto del mondo, e produce così un
fantasmatico inventario del patrimonio immateriale, ovvero un elenco
di ciò che non è indigeno, non riguarda le minoranze, non è
non-occidentale, sebbene non sia per questo meno immaterialexxi.
La
lista del patrimonio universale prende corpo da operazioni che
trasformano alcuni selezionati aspetti di un patrimonio ereditato
(descent) e localizzato, in un patrimonio trans-locale negoziato
(consent), ovvero il patrimonio dell’umanità interaxxii.
Mentre i singoli istituti culturali candidati a questo riconoscimento
sono definiti in primo luogo delle tradizioni, ovvero definiti dalle
modalità della loro trasmissione (orale, gestuale o per
esemplificazione) – il patrimonio universale non lo è. In quanto
totalità è sottoposto ad interventi del tutto estraneo a ciò che
definisce i capolavori che vi confluiscono, in primo luogo. Il
patrimonio universale è soprattutto e in definitiva una lista. Tutto
ciò che è sulla lista, quale che sia il suo precedente contesto, è
adesso ricollocato in una relazione con altri capolavori: la lista è
il contesto principale di tutto ciò che vi finiscexxiii.
La
lista è anche il mezzo più economica, più convenzionale e più
efficace nel dare visibilità al fatto che “si fa qualcosa” –
qualcosa di simbolico- in favore di comunità o di tradizioni
neglette e marginali. Gesti simbolici, quali la redazione della lista
conferiscono valore a ciò che vi viene incluso secondo il principio
che non si può proteggere ciò cui non si attribuisce valore alcuno.
L’Unesco ripone una grande fiducia –troppa, secondo alcuni tra
coloro che hanno fatto l’esperienza dell’intero processo- sul
fatto che la valorizzazione dia come esito la rivitalizzazionexxiv
Oltre
alla conservazione della lista l’Unesco seleziona e adotta anche
vari altri progetti e programmi di intervento, ‘tenendo in
particolare considerazione le esigenze dei paesi in via di
sviluppo’xxv.
Tali progetti comprendono la produzione di documentazione, tanto come
tutela di archivi già esistenti quanto campagne di registrazione di
tradizioni orali; la creazione di istituti di ricerca e
l’organizzazione di campagne scientifiche, l’organizzazione di
conferenze, l’edizione di libri e altri prodotti audiovisivi, la
creazione di programmi educativi, lo stimolo al turismo culturale,
che include lo sviluppo di musei e di mostre, il restauro di siti, il
disegno di mappe e strade tematizzate, e poi attività artistiche
varie, quali festival e rassegne.
Il
festival è senza dubbio la vetrina migliore per la presentazione al
pubblico del patrimonio immateriale, ed il Festival dello Smithsonian
Institute del 2002, dedicato alla Via della seta, è stato un primo
esempio di attuazione pratica di questa politica.xxvi.
Il festival del 2002 fu un vero e proprio atto di forza per la
maniera in cui ruppe i modelli delle rappresentazioni nazionali,
mettendo n scena delle espressioni culturali sub-nazionali, entro la
cornice trans-nazionale dell’area di grande circolazione delimitata
dalla rotta commerciale, malgrado questo i singoli gruppi di
performer o di artigiani, continuarono a pensarsi come rappresentarsi
delle rispettive nazioni di provenienza. L festival confuse, inoltre,
le sommarie distinzioni tra contemporaneo e tradizionale, alto e
basso, includendo il Tokyo Recycle Project, istituto che produce moda
contemporanea riciclando abiti smessi forniti dai suoi stessi
clienti, ed il Yo Yo Ma’s unique Silk Road Esemble, che sforna
nuovi lavori su commissione.
Il
successo del festival organizzato dallo Smithsonian Institute - e le
conseguenti riflessioni critiche che il centro per la “Folklife and
Cutural Heritage ha apportato al festival ed alle iniziative di
contorno- hanno predisposto il Centro ad assumersi un ruolo dirigente
nel dare forma all’iniziativa dell’Unesco circa il patrimonio
immaterialexxvii.
Il centro ha così cercato di smuovere l’istituzione dalla
prospettiva del capolavoro, e di spingerla verso il sostegno delle
comunità locali in maniera che queste ultime possano tutelare e
rafforzare le pratiche di cui sono portatrici. Il centro, diretto da
Richard Kurin dal 1987, ha aggiunto un significativo spessore teorico
all’iniziativa. Il festival dello Stmithsonian è stato considerato
esemplare e si è costituito come lo standard per le iniziative di
presentazione del patrimonio, materiale ed immateriale, per restare
entro il linguaggio dell’Unesco, entro i limiti propri di un
festival in quanto forma meta-culturale.
Il
patrimonio è metaculturale
Mentre
la lista dei Capolavori del patrimonio orale e immateriale
dell’umanità è letteralmente un testo, il festival dello
Smithsonian ha avuto il merito di portare di fronte ad un pubblico
reale degli artisti e degli esecutori in vivo, e così facendo ha
messo in primissimo piano il fatto che è la capacità di azione
(agency) di coloro che perpetuano le tradizioni a dover essere
salvaguardata e tutelata. Al contrari di altre entità viventi, siano
essi animali o piante, gli uomini e le donne non sono solamente
oggetto di tutela culturale, ma sono anche soggetti. Non sono mai
solamente portatori e trasmettitori di cultura (termini altrettanto
poco felici quanto lo è quello di capolavori), sono invece agenti
nella stessa iniziativa di patrimonializzazione. Questo dato relativo
alla consapevolezza ed alla riflessività del soggetto, invece sembra
mancare nel protocollo della patrimonializzazione Unesco . Vi si
parla di creazione collettiva. Gli esecutori sono vettori, portatori
e trasmettitori di tradizione, termini questi che connotano gli
individui come mezzi di natura passiva, condotte o veicoli, senza
riconoscere la volizione, l’intenzionalità, la soggettività.
“Archivio
vivente” e “biblioteca2 sono due metafore molto diffuse.
In
tali termini non si asseriscono i diritti di alcuni individui a fare
ciò che fanno, ma piuttosto il loro individuale apporto alla
trasmissione ed alla crescita culturale (a favore degli altri).
Secondo tale modelli, a gente va e viene, ma la cultura resta,
essendo trasmessa da una generazione all’altra. Ma ogni intervento
di patrimonializzazione – così come le pressioni globalizzanti che
si cerca di contrastare- cambiano le relazioni che le persone
intrattengono con ciò che fanno. Esse modificano il modo in cui le
persone comprendono e si spiegano la loro propria cultura e se
stessi. Cambiano le condizioni fondamentali per la produzione e la
riproduzione culturale.
E’
superfluo ricordare quanto il cambiamento sia intrinseco alla
cultura, e che le misure che intendono preservarla, salvaguardarla e
sostenere determinate pratiche culturali siano costrette a congelare
le pratiche ed a indirizzarsi alla natura intrinsecamente processuale
della cultura.
Un
ruolo centrale nel determinare la natura metaculturale del patrimonio
è svolto dal tempo. La mancanza di sincronia tra il patrimonio
storico e l’orologio degli habitus, le differenti temporalità
degli individui, delle cose, degli eventi, produce una tensione tra
ciò che è oggi e di oggi, contemporaneo, e ciò che è oggi, ma di
ieri, ovvero contemporary, come abbiamo già visto in precedenza; su
questa base l’evanescenza si fondono con la sparizione, ed il
paradosso – ma implicito a dire il vero nel fatto che il possesso
di patrimonio sia il marchio della modernità- che sta alla base
della possibilità stesse dell’impresa del patrimonio universale.
Gli
interventi di patrimonializzazione tentano di rallentare il tasso di
mutamento. Un giornale satirico statunitense, The
Onion, a
diffusione nazionale, ha recentemente pubblicato un articolo satirico
intitolato”il Ministero per il Retro avverte: Potremmo esaurire il
nostro passato”xxviii.
L’articolo citava il ministro per il Retro, Anson Williams che
dichiarava: “Se i livelli del consumo di passato negli Stati Uniti
saranno libero di salire senza controllo, potremmo esaurire il nostro
passato già nel 2005” e “Noi stiamo parlando di una situazione
critica potenzialmente devastante, in cui la nostra società finirà
per esprimere nostalgia verso eventi che dovranno ancora accadere”.
A sostegno di queste predizioni l’articolo spiega che l’Ora del
passato Nazionale al momento è fissata al 1990, un allarmante 74%
più vicino al presente di dieci anni fa, quando la stessa Ora era
ferma al 1969”. Man mano che l’Ora del passato aumenta la propria
velocità, la vita diviene patrimonio quasi prima di dare la
possibilità di esser vissuta, e il patrimonio riempie lo spazio
della vita stessa.
Mentre
le categorie del materiale e dell’immateriale, distinguono tra cose
ed eventi (e così da conoscenza, abilità, valori, ecc...) persino
le cose possono essere eventi.
Intanto,
come è stato notato dal filosofo esistenzialista Stanley Eveling,
“una cosa è un evento molto lento”. Questo è un dato di natura
percettiva. La percezione del cambiamento è la funzione della
relazione tra il tasso concreto di cambiamento e “le finestre”
della consapevolezza che ne abbiamoxxix.
Le cose sono eventi, non sostanza inerte o deperibile, anche in un
altro senso. Una cosa può essere una “presenza affettiva”, nelle
parole di Robert Plant Armstrongxxx.
In
secondo luogo, più molte cose sono rinnovabili o rimpiazzabili a
determinate e specifiche condizioni. Ogni venti anni il santuario
ligneo di Ise Iingu, un tempio sacro in Giappone, viene ricostruito.
Il processo si sviluppa per otto anni, ed il tempio è stato
rinnovato per sessanta e una volta, da quando il tempio fu fondato,
nel 690. Noto come "shikinen sengu," questa tradizione non
coinvolge solamente la costruzione,, ma anche cerimonie e
trasmissioni di conoscenza specializzata. “L’arte della
falegnameria è sviluppata da circa cento uomini, la maggior parte
dei quali sono falegnami del luogo che tralasciando le loro normali
attività per un periodo che di solito oscilla dai due ai quattro
anni. Non ci sono chiodi nell’intera struttura. Sebbene ci siano
progetti, come per ogni struttura, i maestri carpentieri debbono
apprendere e trasmettere a loro volta agli apprendisti la loro
complessa esperienza su come far combaciare il sistema di giunti e
giunture, usando attrezzi sia familiari che arcaicixxxi.
Questo tempio rappresenta duemila anni di storia, ma non è mai più
vecchio di venti anni”. Ise Jingu è un buon esempio di evento
lento.
Anche
i siti già patrimonializzati sono impegnati in un continuo e
regolare processo di ricostruzione. Alla Plimoth Plantation, nei
pressi di Boston, gli edifici vengono abbattuti e ricostruiti per far
sì che l’orologio rimanga fermo alla data del 1627, quando quegli
edifici avrebbero dovuto avere non più di sette anni. Dal momento
che il sito è più vecchio dell’insediamento che deve
rappresentare – la Plimoth Plantation ha circa trent’anni- la
ri-costruzione è un modo per sincronizzare l’orologio del
patrimonio con quello della storiaxxxii.
In
terzo luogo, l’intangibilità e l’evanescenza –la condizione di
ogni esperienza umana- non dovrebbero essere confuse con la
sparizione. E’ questo un caso di malriposta fede nella concretezza,
presa alla lettera. Le conversazioni sono intangibili ed evanescenti,
ma ciò non le espone al fenomeno della scomparsa. Peggy Phelan,
autrice del saggio, ormai un classico, sulla ontologia della
performance, ha forgiato l’idea che “l’entità performance
diviene tale grazie alla scomparsa”xxxiii.
Su questo tema c’è ormai una considerevole letteratura, e molti
dibattiti si sono prodotti sulla ontologia dell’arte ed, in
particolare, della performance. Il filosofo Nelson Goodman distingue
tra pittura e scultura, che sono autografiche (nel senso che
coincidono il lavoro dell’artista e la sostanziazione
materiale) e le performances (musicali, coreutiche, teatrali) che
sono allografiche (il lavoro e la sua sostanziazione nella
performance non sono univoci né simultanei). Potremmo dire con ciò
che la lista del patrimonio materiale è rivolta a ciò che è
autografico, e quella del patrimonio immateriale, a ciò che è
allograficoxxxiv.
In
quarto luogo, come ormai anche coloro che hanno dato vita alla
politica di creazione del patrimonio universale hanno realizzato, la
divisione tra patrimonio naturale, materiale e immateriale, e la
creazione di liste separate per ciascun ambito, è arbitraria,
sebbene non priva di una sua storia e di una sua logica.
Sempre
di più coloro che lavorano alla salvaguardia del patrimonio naturale
sempre più sostengono che la maggior parte dei siti elencati come
patrimonio universale naturale sono ciò che sono oggi grazie alla
interazione tra uomo e ambiente.
Analogamente,
il patrimonio materiale, senza quello immateriale, è una buccia, o è
materia inerte, sono oggetti ma non cose. Come accade per il
patrimonio immateriale, anche quello materiale non è solamente
incorporato, ma è altrettanto inseparabile dalle persone e dai loro
mondi sociali e materiali. “L’Africa perde una biblioteca ogni
qualvolta muore un anziano”, la citazione da Hampate Bà appare
sulla pagina di apertura del sito web del programma Unesco di
salvaguardia del patrimonio immaterialexxxv.
Mentre valorizza la persona, la metafora della biblioteca confonde
archivio e repertorio, azzerando una distinzione che è invece di
particolare importanza per comprendere il patrimonio immateriale come
conoscenza incorporata e come pratica.
Secondo
Diana Taylor, il repertorio è sempre incorporato e si manifesta
nella performance, nell’azione, nell’ambito del farexxxvi.
Il repertorio si trasmette tramite la performance. Ciò è
radicalmente diverso da quanto si compie registrando e preservando la
documentazione nell’archivio. Il repertorio è relativo alla
conoscenza incorporata ed alle relazioni sociali che presiedono alla
sua creazione, alla sua realizzazione, alla sua trasmissione ed alla
sua riproduzione. Ne consegue, secondo l’UNESCO, che il patrimonio
immateriale è particolarmente vulnerabile proprio perché non ha
dalla sua la materialità, sebbene la documentazione storica non
necessariamente ne dà conferma. Eppure la situazione oggi è di
diverso ordine. Gli aborigeni australiani hanno conservato il loro
patrimonio immateriale per oltre 3000 anni senza l’aiuto di
politiche culturali. Contrariamente al patrimonio materiale, protetto
entro il museo, il patrimonio immateriale consiste di manifestazioni
culturali (conoscenza, abilità, performance) che sono
inestricabilmente legate alle persone. Non possibile- o almeno non è
facile- trattare tali manifestazioni come surrogati o rappresentanze
degli individui, nemmeno ricorrendo alle tecnologie di registrazione
che possono separare la performance dai suoi effettivi realizzatori,
e consegnare il conseguente repertorio agli archivi.
Mentre
c’è ormai una estesa letteratura sull’industria del patrimonio,
in buona parte attenta alle politiche della sua produzionexxxvii,
minore attenzione è stata data all’intera impresa come un fenomeno
meta-culturale in sé e per sé. L grande pressione a codificare le
operazioni metaculturali, a dare vita a degli standards universali,
mette in ombra lo specifico carattere da punto di vista sia storico
che culturale, della politica e della pratica della
parimonializzazione. Nel caso del patrimonio materiale, l’obiettivo
è quello di restaurare un oggetto fino al recupero della sua
condizione originaria, in maniera da onorare l’intenzione del suo
artefice o dell’artista; presentare un oggetto nella sua perfezione
pristina, riscattato dal tempo; trattare l’oggetto o il sito
archeologico come un palinsesto, conservandone per quanto possibile
le evidenze del processo storico, come accade nelle Hyde Park
Barracks a Sydney, e nell’archeologia processuale; distinguere
visivamente tra il materiale originale e quanto è stato fatto o
aggiunto per conservare e restaurare l’oggetto e rendere visibile
il restauro stesso, o infine rendere l’oggetto stesso sacrificabile
e sostituibilexxxviii.
Finché ci sono persone che sanno come ricostruire un tempio, non è
necessario conservarne una singola dimostrazione, ma è invece
importante che si tuteli la continuità della conoscenza e delle
tecniche, oltre alle condizioni per la creazione di tali oggetti,
così come accade nel caso del tempio giapponese di Ise Jingu,
discusso sopra. La forma in tal caso persiste, mentre i materiali
vengono integralmente sostituiti.
La
politica di patrimonializzazione internazionale quale quella
sviluppata dall’Unesco modella le politiche nazionali, come si può
vedere nei recenti sforzi compiuti da Vietnam e dalla Repubblica
Sudafricana, tra gli altri, di dare vita ad una strumentazione legale
per la protezione dei rispettivi patrimoni culturali. C’è anche un
movimento però nella opposta direzione. Il concetto di tesori
nazionali viventi, che informa il programma di tutela del patrimonio
immateriale dell’Unesco, fu sviluppato decenni prima in Giappone ed
in Corea. Infine il possesso di un patrimonio – in opposizione al
modo di vita che è salvaguardato del patrimonio- è uno strumento di
modernizzazione e marchio della modernità, in particolare nella
forma del museo: “Non avere neppure un museo nelle circostanze
attuale è come ammettere di essere al di sotto del livello di
civiltà che è richiesto ad ogni entità statuale.xxxix.
Mentre
la persistenza nei modi di vita tradizionali poteva non essere
economicamente dipendente, fino al punto di essere anche
economicamente controproducente su questo piano con le logiche di
sviluppo e con le ideologie nazionali, la valorizzazione di quei modi
di vita in quanto patrimonio (l’integrazione del patrimonio nelle
economie di turismo culturale) è economicamente non solo
praticabile, ma anche coerente con le teorie dello sviluppo
economico, e viene ad integrarsi nel paradigma delle ideologie
nazionali della unicità culturale e della modernità. Fondamentale
per questo processo è l’economia fondata sul patrimonio come
economia moderna. Per questa, tra le altre ragioni, il
patrimonio può ben essere preferito alla cultura
pre-patrimonializzazione che esso stesso intende salvaguardare.
E’ questo il caso del Centro di Cultura Polinesiana nelle Hawai'i,
una iniziativa religiosa di mormoni, dove, dal 1963, gli studenti
della Brigham Young University-Hawaii "tengono in vita e
condividono il patrimonio della loro isola con i visitatori, mentre
frequentano la loro università”.
Questi
esempi riportano la nostra attenzione sulla complicata storia del
patrimonio e dei musei come agenti di integrazione della
deculturazione, in quanto sacrario finale delle evidenze del successo
di un processo storico finalizzato al cambiamento, con particolare
rilievo agli sforzi di tipo missionario e coloniale: si tutela
(dentro il museo) ciò che è stato spazzato via (nel mondo sociale,
nella comunità). La pratica museale, oggi, e gli interventi
nell’ambito della tutela del patrimonio possono tentare di
invertire questa tendenza storica, ben sapendo tuttavia che non c’è
possibilità di ritorno indietro, ma solamente una via d’uscita di
tipo metaculturale.
Note
i
Questo testo è un estratto dal saggio World
Heritage and Cultural Economics,
nel volume Museum
Frictions: Public Cultures/Global Transformations,
curato
da Ivan Karp and Corinne Kratz, insieme a contributi di Guslavo
Buntinx. Barbara
Kirshenblatt-Gimblett. Ciraj Rassool. Lynn Szwaja. and Tomàs
Ybarra-Frausto. Duke University Press, 2006. Il testo è
riprodotto con l’autorizzazione dei curatori. Il progetto è stato
sostemuto dalla Rockefeller Foundation.
ii
Tante storie sono state scritte a proposito delle iniziative
dell’Unesco. Per un resoconto particolarmente fruttuoso, si veda
Jan Tartinen, Globalising Heritage: on UNESCO. SCORE
Rapportserie 12, 2000.
iii
'Delining our Heritage: http://www.uneseo.org/whclintro-en.hlm.
Dale, 15/01/2003.
iv
WIPO (The World Intellectual Property Organization) sta facendo
molti sforzi per affrontare questi temi, così come alcune
organizzazioni del Secretariat of Pacific Communities, a Noumea,
Nuova Caledonia. Si veda il loro Regional
Framework for the Protedion of Traditional Knowledge and Expressions
of Culture. 2002
.
v
5 UNESCO, Raccomandazione per la salvaguardia della Culura
tradizionale e del Folklore, adottata dalla Conferenza Generale
nella sua veitncinquesima sessione, Parigi, 15 novembre 1989. Cfr..
http://www.uneseo.org/eulturellaws/ paris/hlml_eng/pagel.shlmV.
6
UNESCO. Intangible
Heritage, ultimo aggiornamento consultato:24 marzo 2003;
http://www.unesco.org/culture/heritage/intangible/html_eng/index_en.shtml/.
Questa formulazione è vicina a quella presente nella
Raccomandazione del 1989, sulla Salvaguardia della Cultura
tradizionale e del Folklore.
vii
Citato in UNESCO. Report on the Preliminary Study on the
Advisability of Regulating Intemationally. through a New
Standard-setting Instrument. The Protection of Traditional Culture
and Folklore. UNESCO, Executive Board. 161st Session. 161 EX/15.
PARIS. 16
Maggio 2001. Punto 3.4.4 dell’ordine del giorno, paragrafo 26.
Cfr.
http:l/unesdoc.uneseo.org/ images/OOI2/001225/122585e.pdfl.
viii
UNESCO. Racomandazione per la Salvaguardia.. op. cit.
ix
Intangible Heritage, UNESCO. Cfr.
http:l/mirrorus.uneseo.org/culture/heritage/intangible/html_
eng/index_ en .shtml/.
IO Cfr.
Musée du Quai Branly, . http://www.quaibranly.frI?R=2
e, per il progetto del Musée des Civilisations de l’Europe et de
la Méditerranée, cfr.
http://www.musee-europemediterranee.org/projet.html/.
xi
Si veda il kit predisposto per l’occasione, destinato alla stampa,
“Inauguration du pavillon des Sessions. Palais du Louvre'. April
2000. Ministère de l'éducation Nationale. de la Recherche et de la
Technologie. http://www.quaibranly.fr/IMG/pdf/doe640.pdf/.
xii
Félix Fénéon et al, Iront-i/s
au Louvre?, Enquéte sur des arts lointains ,
1920, ristampato per le edizioni Toguna, Toulouse, 2000.
xiii
Questo resoconto è basato sulla ultima bozza disponibile, alla data
di questo mio scritto, della convenzione sul patrimonio immateriale,
cui si rinvia: cfr. Consolidated Preliminary Draft Convention for
the Safeguarding of Intangible Heritage, terza sessione del meeting
intergovernativo di esperti sulla Bozza preliminare della
Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio culturale
immateriale, Parigi, Sede generale UNESCO, 2-4 giugno 2003
xiv
Cfr. UNESCO (materiali per la stampa), Proclamation of Masterpieces
of the Oral and Intangible Heitage of Humanity; in
http://www.unesco.org/bpi/ intangible_heritage, e UNESCO,
Proclamalion of Masterpieces of the Oral and Intangible Heritage of
Humanity, 18 maggio 2001, in http://www.
unesco.org/culture/heritage/intangi ble/masterp/html_eng/declar.
Shtml/.
xv
James Early e Peter Seitel, “UNESCO Meeting in Rio: Steps toward a
Convention”, in Smithsonian
Talk Story. n.
21, 2002, p.13.
xvi
Peter Seitel, (a cura di) Safeguarding
Traditional Cultures, A Global Assessment of the 1989 UNESCO
Recommendation on the Safeguarding of Traditional Culture and
Folklore,
Washington. D.C., Center for Folklife and Cultural Heritage,
Smithsonian Institution. 2001.
xvii
Cfr. Barbara Kirshenblatt-Gimblett, Destination
Museum'
in Destination
Culture, Tourism. Museums. and Heritage, pp.131-76,
Berkeley, University of California Press, 1998.
xviii
Cfr. Peter J. M. Nas. “Masterpieces of Oral and Intangible
Culture, Reflections on the UNESCO World Heritage List”, Current
Anthropology,vol.
43, n. 1, 2002, pp.139-48.
xix
Cullen Murphy. “Immaterial Civilization”, The
Atlantic Monthly vol.
288, n. 2, 2001, pp.20-22. This
gesto ricorda l’ormai classico saggio di Horace Miner sui Riti del
corpo presso la “popolazione” dei Nacirema (ovvero gli
americani, come appare leggendone il nome al contrario), American
Anthropologist. vol.
58, n. 3, 1956, pp. 503-7.
xx
Sto adattando la distinzione proposta da Johannes Fabian in Time
and the Other How Anthropology Makes its Object, New
York, Columbia University Press, 1983, ed. italiana @@@@
xxi
Buone intenzioni che danno vita a non volute distorsioni sono
ricorrenti anche nelle pratiche di distribuzione di fondi per le
attività artistiche negli Stati Uniti, dove una divisione tra i
vari campi culturali fa sì che l’arte classica e contemporanea
occidentale sia finanziata attraverso le divisioni che si occupano
di Danza, Musica, Teatro, Opera, Musical, Letteratura e Design e
Arte Visiva. Il National Endowment for the Arts convoglia tutto ciò
che rimane nelle Arti Folkloriche o tradizionali o nelle Arti
Multidisciplinari, che comprendono “attività interdisciplinari
profondamente radicate nella tradizione o nelle forme del folklore
che incorporano estetiche, temi o interpretazioni contemporanee”,
(cfr. http://www.nea.gov/artforms/Multi/Multi2.html).
Presso il New York State Council for the Arts
(http://www.nysca.org),
le distinzioni corrispondenti corrono tra le Folk Arts (“patrimonio
culturale vivente delle arti folkloriche”)e i Servizi per le Arti
Speciali che sostengono “attività artistiche professionistiche”
di matrice e destinazione Afro-caraibica, Latino-ispanica, Asiatica
e Pacifica.
xxii
Sulla distinzione tra “descent” e “consent” si veda Werner
Sollors, Beyond
Ethnicity Consent and Descent in American Culture, New
York, Oxford University Press, 1988.
xxiii
Sulla lista come strumento di tutela e conservazione storica si veda
Mark J. Schuster, Making
a List and Checking It Twice, The List as a Tool of Historic
Preservation, CPC
[Cultural Policy Centre della University of Chicago] Working Paper,
14. 2002.
xxiv
Questo è il linguaggio con cui si esprime la Bozza di convenzione,
Consolidated
Preliminary Draft Convention for the Safeguarding of Intangible
Heritage,
terza sessione della conferenza intergovernativa di esperti sulla
Preliminary Draft Convention for the Safeguarding of Intangible
Cultural Heritage, tenutasi a Parigi, Sede generale dell’UNESCO,
2-14 giugno 2003.
xxv
Articolo 18. 1 della Consolidated
Preliminary Draft Convention for the Safeguarding of Intangible
Heritage.
xxvi
Sul festival come museo di peformance dal vivo, si rinvia a
KirshenblattGimblett, op. cit., pp.17-78.
xxvii
Cfr. Richard Kurin, Reflections
of a Culture Broker. A View from the Smithsonian, Washington
D.C., Smithsonian Institution Press, 1997.
xxviii
“U.S. Dept. of Retro Warns: 'We May Be Running out of Past”, The
Onion, vol.
32, n. 14, 2000; http://www.theonion.com/onion3214/ usretro.html/.
xxix
Doron Swade, “Virtual Objects: Threat or Salvation? Museums of
Modern Science”. in Svante Lindqvist, Arika Hedin, and Ulf Larsson
(curatori) Nobel
Symposium, 112,
pp.139-47, Canton. MA. Science History Publications/USA, 2000.
xxx
Robert Plant Armstrong, The
Powers of Presence, Consciousness. Myth. and Affecting Presence,
Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1981, e The
Affecting Presence, an Essay in Humanistic Anthropology,
Urbana, University of Illinois Press, 1971. Si vedano inoltre
Alfred Gell, Art
and Agency an Anthropological Theory,
Oxford- New York, Oxford University Press, 1998; Robert Farris
Thompson. African
Art in Motion, Icon and Act in the Collection of Katherine Coryton
White,
Los Angeles, University of California Press, 1974 e David Freedberg,
The
Power of Images Studies in the History and Theory f{ Response,
Chicago, University of Chicago Press, 1989.
xxxi
Japan Atlas. Architecture,
Jingu Shrine in Ise;
cfr. http://www.jinjapan.org/ atlas/architecture/arcI4.html/.
xxxii
Cfr. Barbara Kirshenblatt-Gimblett, 'Plimoth Plantation'. in
Destination
Culture, Tourism,op.cit.
xxxiii
Peggy Phelan. “The Ontology of Performance: Representation without
Reproduction”. in Unmarked,
The Politics of Performance, pp.I46-66,
New York, Routledge, 1993 ed anche e reazioni alle sue posizioni da
parte di Philip Auslander, Liveness:
Performance in a Mediatized Culture, London/New
York, Routledge, 1999. Sulla convergenza tra 'art performance' e
'performance art’ si veda Noel Carroll, “Performance”,
Formations,
3,
1, 1986, pp.63~1 ed anche Paul Schimmel e Kristine Stiles, Out
of Action. Between Performance and the Object. 19491979,
Los Angeles-New York, The Museum of Contemporary Art Thames/Hudson,
1998.
Per
la documentazione come pratica artistica si veda Henry M Sayre, The
Object of Performance. the American Avant-Garde Since 1970, Chicago,
University of Chicago Press, 1989. Anche
altri hanno indgato sulla relazione tra performance (e patrimonio
immateriale) ed i media che ne consentono la registrazione, non
solamente in quanto strumenti di documentazione, ma anche come
pratica di natura artistica, elemento di catalisi della produzione
culturale e base per la teorizzazione dell’oralità. Si
veda Barbara Kirshenblatt-Gimblett, “Folklore's Crisis”, Joumal
of American Folklore, vol.
111, n. 441, 1998, pp.281-327.
xxxiv
Nelson Goodman, Languages
of Art. An Approach to a Theory of Symbols, Indianapolis,
Bobbs-Merrill, 1968. La
posizione di Goodman è stata criticata e aggiornata in maniera da
poterla applicare a fenomeni che egli non prese in considerazione,
tra i quali le performances che non fanno uso di copioni o di testi
scritti, e i media digitali che possono oltiplicare all’infinito
gli originali. Si
veda in proposito Joseph Margolis, “The Autographic Nature of the
Dance”, Journal
of Aesthetics and Art Criticism vol.
39, n. 4, 1981, pp.419-27; Mary Sirridge and Adina Arrnelagos, “The
Role of ‘Natural Expressiveness’ in Explaining Dance”. Journal
of Aesthetics and Art Criticism vol.
41, n. 3, pp.301-7; Adina Arrnelagos and Mary Sirridge, “The
Identity Crisis in Dance” in Journal
of Aesthetics and Art Criticism, vol.
37, n.2, 1978, pp.129-39; Rosalind E. Krauss, The
Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths,
Cambridge,
Mass., MIT Press, 1985.
xxxv
Intangible Heritage. UNESCO, ; htlpd Imirror-us,unesco.orglculturel
heritage/intangible/html_eng/index_ en .shtm V
.
xxxvi
Cfr. Diana Taylor, Acts
of Transfer,
nel suo volume The
Archive and the Repertoire: Performing Cultural Memory in the
Americas, Durham,
Duke University Press, 2003.
xxxvii
Cfr. per esempio David Lowenthal, The
Heritage Crusade and the Spoils of History, London/New
York, Penguin Books, Viking, 1997 e Pierre Nora and Lawrence D.
Kritzman (curatori), Realms
of Memory: Rethinking the French Past, New
York, Columbia University Press, 1996-1998.
xxxviii
Si veda Mike Pearson. and Michael Shanks, Theatre/Archaeology
Disciplinary Dialogues, London,
Routledge, 2001.
xxxix
Si veda Kenneth Hudson e Ann Nicholls, The
Dictionary of Museums and Living Displays, New
York, NY, Stockton Press, 1985.
Barbara Kirshenblatt Gimblett, una antropologa di fama mondiale, è professore presso il Dipartimento di Performance Studies alla Tisch School of Arts di New York, dove insegna storia e teoria dei musei, esposizioni universali e turismo in collegamento con il programma di Museum Studies della Tisch School. Il suo lavoro, Destinazione cultura: turismo, musei e patrimonio (1998), esplora il museo come una formazione storica e come medium che emerge in relazione al mutamento del proprio ruolo entro la società. Barbara Kirshenblatt Gimblett è inoltre consulente presso molti musei, tra i più recenti dei quali si contano il United States Holocaust Memorial Museum ed il Museo della storia degli ebrei polacchi, di Varsavia.