“Stupido
è chi lo stupido fa!” questa è la frase che Tom Hanks nei
panni di Forrest Gump usava per difendersi (intelligentemente) dagli
attacchi di chi lo etichettava come stupido nell’omonimo film di
Robert Zemeckis (1994).
Forrest
aveva ragione perché il concetto di stupidità umana (argomento
purtroppo vastissimo e ancora inesplorato adeguatamente dal punto di
vista bio-psichico) è relativo e spesso utilizzato a sproposito:
quasi sempre sono gli atti, le decisioni, le prese di posizione ed i
dogmatismi a essere stupidi, in pratica i comportamenti,
a configurare l'essere stupido. Si può essere stupidi
di natura, ma spesso lo si è per
propria volontà.
Lo si è sopratutto quando si tradisce la fiducia degli altri ed
intenzionalmente si adottano specifici atteggiamenti negativi
denunciando uno stato alterato di
coscienza.
Il
termine deriva dal latino stupĭdus,
derivato di stupēre
«stupire»; in letteratura trasla nel significato di “preso da
stupore, attonito, sbalordito”; ”che è in una condizione
d’incapacità o insensibilità indotta da meraviglia, sorpresa, o
da altre cause fisiche o morali”; Dante scrive “Non
altrimenti stupido si turba Lo montanaro,
e rimirando ammuta,
Quando rozzo e salvatico s’inurba“;
Manzoni: “sopportiamo non
rassegnati ma stupidi il colmo di ciò che da principio avevamo
chiamato insopportabile”. Nel
significato di torpido, ottuso, o
che induce uno stato di torpore, di ottundimento dei sensi o
dell’intelletto, l'usa il Parini: “Non
più serti di rose ... Ma stupido papavero,
grondante Di crassa onda letea;
come il vate: “succedeva al sopore
stupido la quiete naturale del sonno”
(D’Annunzio). Nell’uso comune: che ha, o denota, scarsissima
intelligenza, lentezza e fatica nell’apprendere, ottusità di
mente.
Quando
s'affermò la teoria delle intelligenze
multiple che sostiene la contestuale
esistenza di altre diverse forme di intelligenza oltre a quelle
logico-matematica e linguistica (Howard
Gardner, Formae mentis. Saggio
sulla pluralità dell'intelligenza,
1987, 2002), sfidando il tradizionale punto di vista
sull’intelligenza considerata come una capacità unitaria che può
essere misurata attraverso i tests
(tanto
cari agli obnubilati INVALSI …),
non si era ancora pronti a degustare l'idea secondo la quale,
nell'intrico delle connessioni neurologiche ove risiedono le
localizzazioni neurofisiologiche delle competenze intellettuali
autonome, c'è possibilità di altrettante plurime
espressioni di ignoranza, ottusità, confusione, offuscamento,
deficienza con
il corollario di aberranti cedimenti psico-sociali (stereotipi e
pregiudizi) e morali (disonestà intellettuale).
Spesso
non ci si rende conto, ma la stupidità la si incontra, la si
sopporta, la si combatte. Quando affiora il malessere relazionale, la
concausa più pervasiva risiede nel comportamento dell'interlocutore
portatore di stupidità. Per quanto riguarda i luoghi di produzione
culturale – come la scuola, l'Università, l'intelligencija
"diffusa" – le condotte evidenziate sono poste al centro
di una dissennatezza generalizzata; tale irragionevolezza è data per
lo più dalla compresenza d'una lacerazione di una memoria comune
(rif. a paraocchi equini) e dallo smarrimento di ogni tensione morale
(mors
tua vita mea). Spesso la
condizione di insania (contraddizioni tra pensiero, eloquio ed
azioni) genera edulcorate narrazioni delle situazioni e le
voci narranti producono menzogne.
Si, è constatabile la contestuale
presenza di “formazione culturale” e “stupidità”.
Ciascun contributo di balordaggine, qualsiasi reperto d'una
quotidianità pregna di oltraggio all'intelligenza, mira a mostrare
come alcuni esiti tragici dello scivolamento
dal “sapere” all'“essere come se non si sapesse”
siano il precipitato di percorsi ritenuti normali, nonostante siano
manifestamente la costituzione in
medias res di rapporti miopi
e poco avveduti. Percorsi sociali e professionali in cui gradualmente
i saperi agiti – forse unico caso di autentica
inter-transdisciplinarietà ! – nell’apparente e rassicurante
oggettività ed equidistanza dalle loro formulazioni, hanno scavato
il terreno su cui sono radicate le più rigorose e violente forme di
stupidità sociale, perchè in rari
casi si vive come il proprio sapere
(consentirebbe). Anzi, quante più nozioni si posseggono, tanto più
convenzionale ed incolta è la mentalità. Paradossale ?
Il
dipanarsi della vicenda della mediazione tra l’essere ed il
dover essere, nel percorso di consolidamento delle identità
individuali e delle relazioni attori-mondo, lacera il “velo di
Maya” che non è più sufficiente a coprire l'immonda ambiguità
borghese. Identità, negazione ed alterità soffocata dalla stupidità
diffusa, dislocate sul terreno bifronte della contrapposizione e
della interiorizzazione reciproca, divengono coefficienti di una
percezione di sé e dell’altro che deroga dal processo
controverso dell’organizzazione dell’umano. Come si fa –
testardamente – a non capire che il diaframma delle identità è
via via aperto, seppure indefinitivamente, attraverso l’apporto
della dialettica, sino a rivolgere la consapevolezza
filosofica dell’essere, di là dai confini dell’autosufficienza,
alla sua natura intimamente relazionale. É la stupidità, bellezza !
Stupidità ignara del fatto che il rispecchiamento di Sé nell’altro
da Sé diviene, a diversa ragione, catalizzatore del superamento
dell’autarchia del soggetto ed elemento qualificante il ruolo delle
dinamiche di riconoscimento/misconoscimento nell’ambito della
riflessione per migliorarsi. Da questa prospettiva, certo, ben
si comprende come un’identità morbosamente bloccata, deprivata del
rapporto con la propria base emozionale, “possa volgere tale
struttura interiore di terrore e dominio in un terrorismo esterno,
avendo proiettato e collocato nell’altro il fondo negativo della
propria identità”.
Si tratta
di prendere atto, nelle more dell’incipiente giuridicizzazione
(la gabbia della formalità costituita) della società occidentale,
il senso e la misura di un percorso mai domo di implementazione
culturale, di incubazione progressiva e discontinua di stupidità
che si mette in gioco e ragione. L’ignoranza
dell'altro, innervata a ridosso dell’anticollettivismo premoderno,
raccogliendo la vernacolare eredità medievale, precipita negli
interstizi della contesa, giuridica ma non soltanto giuridica, tra
civiltà e ignoranza. Per ora, nel contesto dato, si mostra solo
una perniciosa penetrazione del pregiudizio nei luoghi della
ragione.
Sono
eliminabili la stupidità e le stereotipie ? È questo
l’interrogativo che va acclarato, indagando tra i refusi della
dia-logicità di matrice discriminatoria, tutt'altro, quindi,
che inclusiva. Emergono intendimenti neotribali ed una diversificata
nefasta progettualità che tende al “potere”, quand’anche
intrise della medesima cifra di intolleranza e disprezzo
dell’alterità. La maniera “civile” borghese
è la foglia di fico d'una prassi dell'introversione che
connota l’approdo di alcuni "operatori della cultura",
unitamente ad altri profili professionali, nel porto sicuro del
conservatorismo e della negazione della collaboratività, nel
gruppale appello mistico e disperato alla resurrezione dell'innocuità
del fare fine a se stesso, nell'ebbra coalizione contro presenze
scomode non essendo più in grado di convivere neanche con la
rituale tolleranza.
Contro
quanto descritto, se il celebre dipinto “L'urlo” (1893) del
pittore norvegese Edvard Munch stenta a conservare la sua alta
dignità storico-artistica, il semplice urlo dolente ed
antagonista formato black bloc fa la sua figura.
Purtroppo, non ancora del tutto agli occhi degli stupidi.
La
ragione ci comanda più imperiosamente assai d’un padrone;
perché
disobbedendo al padrone, sarai disgraziato;
ma
disobbedendo alla ragione, sarai uno sciocco - Blaise Pascal