Belligeranza
senza ideali
Pensieri sul “riconoscimento sociale” della
lotta di classe e sulla tossicità del pensée unique
capitalista
La
tragica ed aspra spirale del conflitto
bellico paneuroasiatico – che, ad oggi, vede nel
territorio ucraino il più recente avamposto - è “coinvolgente”.
Interroga tutti gli “uomini di buona volontà”. Terminato il
secondo ventennio del XXI secolo, ci sono le condizioni psicologiche,
per le giovani generazioni – sia d'ispirazione nerd che
“Stúrm und Dráng” - e per le donne e gli uomini nati tra il
1945 ed il 1965 (dai 77 ai 57 anni oggi), per decidere come
riorientare anche le proprie esistenze. È giunto il
momento di fare i conti con la coscienza e scegliere.
Alle stessa
stregua di come agirono i partigiani che, per un impulso
prepolitico, morale, compirono una scelta di campo e decisero di
impegnarsi, mettendo a repentaglio la vita, e combattere con le armi
per liberare il mondo dal nazifascismo. Analogamente, è possibile,
con consapevole rammemorazione, rievocare il dilemma di Ἀντιγόνη,
protagonista della tragedia di Sofocle, rappresentata per la prima
volta ad Atene alle Grandi Dionisie del 442 a.C., come utile
sollecitazione alla riflessione che si propone ed all'auspicabile
agire collettivo.
Si,
è indifferibilmente etico intervenire. È una chance
che
i contemporanei hanno, ob
torto collo. Con
le armi della “critica”, politicamente e culturalmente.
Innanzitutto, dimostrando di comprendere la genesi e l'attuale
scenario degli scontri militari in corso. In secondo luogo, perché
quando la situazione è atroce, ciò che non si è ancora realizzato,
può esserlo. In termini diversi: va esperito il tentativo di
affrontare la situazione con un'adeguata disamina ed altrettanto
inerente valutazione circa il “da farsi”. Infine, l'auspicata
doverosa partecipazione è necessaria anche per contrastare le
unilaterali “narrazioni sulla guerra”, le interpretazioni e
manipolazioni informative erogate con altrettanta “potenza di
fuoco” dal mainstream
media
subalterno e dagli “utili idioti”, insigni protagonisti del
perturbante scenario transdemocratico
e al servizio di dissimulate, emergenti cheirocrazie
o oclocrazie.
(rif. a “L’utile idiota. La
cultura nel tempo dell’oclocrazia”, Antimo Cesaro, MIMESIS
EDIZIONI, 2020).
Le
diverse iniziative socio-culturali correlate al conflitto bellico
sono conseguenti alla consapevolezza generale che si dovrebbe
possedere avendo memoria del passato, anche recente. In modo
esemplare, come è documentato e descritto dal libro di Antonio
Gibelli, “L'officina della guerra. La Grande guerra e le
trasformazioni del mondo mentale” (Bollati Boringhieri, 2007),
laddove viene detto, tra l'altro, che nel corso della
Grande Guerra il flusso della vita e della storia si interruppe
almeno per un momento e lì, in quell’arresto del battito cardiaco
della storia europea, si poterono cogliere simultaneamente l’agonia
del vecchio mondo e l’irrompere del nuovo: l’una non ancora
compiuta, l’altro non ancora pienamente dispiegato ma già
chiaramente visibile tra i lampi e gli scoppi, tra le montagne di
cadaveri, i laboratori fotografici e gli studi psichiatrici.Fu allora
che lo specchio della civiltà occidentale andò in frantumi. Fu
allora che un «colpo di tuono» squarciò il velo del progresso e
aprì le porte alla modernità, disvelandone la micidiale
ambivalenza.
Da
una parte la Grande guerra utilizzò e potenziò le nuove tecnologie
industriali; dall’altra grammofoni, razzi, riflettori, fotografia,
cinematografo moltiplicarono l’esperienza della guerra. La
modernità entrò, quindi, con un grande impatto nella Prima guerra
mondiale e la tecnologia divenne un enorme moltiplicatore dei suoi
meccanismi di sviluppo.
“Ciò
di cui milioni di uomini fecero simultaneamente esperienza tra il
1914 e il 1918 non era solo la guerra, ma il mondo moderno. [...] Ma
quali sono i connotati di questa modernità, che la guerra rivela e
accelera a un tempo? Sinteticamente essi sembrano ruotare intorno al
binomio Stato-industria. La guerra esalta il ruolo dello Stato,
facendo di esso una presenza capillarmente insediata nella vita
privata e nell’interiorità di ciascuno, un agente di mobilitazione
massiccia di forze, sentimenti, immagini. Nello stesso tempo utilizza
e potenzia le nuove tecnologie industriali, estende la
sperimentazione di nuove forme di organizzazione del lavoro, di
mobilitazione intensiva e di movimentazione coatta di grandi masse
umane. Nella guerra si affermano infine una nuova radicale
espropriazione del tempo e della vita e un’inedita combinazione tra
principio di efficienza-razionalità e principio di
distruzione-annientamento. La nuova realtà investe in vario modo la
sfera percettiva, disegnando i contorni di un «nuovo paesaggio
mentale». Nell’esperienza della trincea e più in generale
nell’ambientazione della guerra si palesano il trionfo
dell’elemento artificiale su quello naturale (l’elettricità
trasforma le notti in giorni, la chimica degli esplosivi polverizza
le montagne modificando il paesaggio); la fungibilità di biologia e
tecnologia (le protesi sostituiscono gli arti distrutti); il senso
del tempo come discontinuità e il suo disancorarsi dalle matrici
biologiche, naturali o più semplicemente tradizionali; l’irrompere
della nuova morte di massa come prodotto di organizzazione
industriale su larga scala e come perdita di confine tra umano e
disumano, segno di un anonimato che connota l’esistenza nella
società. E ancora, l’esperienza della guerra insegna la
moltiplicazione e la frammentazione delle immagini visive e sonore
del mondo. Grammofoni, razzi, riflettori, ma anche manifesti murali,
fotografia, fotomontaggio, cinematografo, che nella guerra sono
variamente coinvolti, concorrono al definirsi di questa esperienza
mentre attingono da essa i propri linguaggi comunicativi.
La
Grande guerra è il primo evento moltiplicato a livello iconografico
dall’uso massiccio della fotografia. Non si tratta di una semplice
duplicazione, ma appunto di una moltiplicazione praticamente
illimitata: ciò è dovuto all’alto numero delle immagini scattate
(centinaia di migliaia) e alla loro riproposizione in contesti
diversi, alla loro straordinaria circolazione. Un solo esempio:
secondo le cifre ufficiali, nel corso del conflitto furono
organizzate esposizioni permanenti di fotografie di guerra in tutti i
comuni del Regno, mostrando al pubblico 3.000 fotografie in formato
piccolo e 25.000 in formato grande. Per la prima volta un evento si
presenta ai contemporanei e ai posteri in una rifrazione molteplice:
i suoi significati e le sue risonanze. Si propone non come un tutto
unico, ma come una serie infinita di immagini. La frantumazione
dell’oggetto si accompagna a quella del soggetto. La realtà si
incrocia con la sua rappresentazione. I piani si sovrappongono e si
intersecano. Non per nulla quella è potuta apparire come una «guerra
cubista»” (cit. “L’officina della guerra. La Grande guerra e
le trasformazioni del mondo mentale”, A. Gibelli, Bollati
Boringhieri, Torino 1991, pp.8-11).
La
guerra nel bacino del Donec, noto anche come Donbass, il bacino
dell'omonimo fiume della Russia e dell'Ucraina, il Donec, affluente
del Don, in quella regione storica, economica e culturale, parte del
cui territorio nel 2014 si è dichiarato unilateralmente indipendente
dall'Ucraina, “non si farà”. “Non si farà”, perché
terminando il secondo conflitto mondiale, non
si è mai smesso di guerreggiare.
In tutte le parti del mondo sono scoppiati conflitti bellici di
natura regionale e/o locale. In tutti i continenti, ad esclusione
dell’Oceania. “Non si farà” perché non è mai terminata,
perché «la guerra non è che la continuazione della politica con
altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma
un vero strumento della politica, un seguito del procedimento
politico, una sua continuazione con altri mezzi» (rif. “Della
Guerra”,
Carl von Clausewitz, 1832-1837, Mondadori, 1997).
Vecchie
e nuove guerre si sono intrecciate fino ai nostri giorni nei quali lo
spettro sembra essere più vicino e far più paura.
Per
quasi mezzo secolo, dopo il 1945, il mondo ha temuto che il sistema
politico internazionale configurato in modo bipolare – e puntellato
da armamenti atomici – avrebbe potuto essere messo in discussione
solo da una grande guerra generale nucleare: quella stessa guerra che
le due superpotenze, USA e URSS, segretamente e quotidianamente
preparavano. Né la decolonizzazione dei grandi imperi europei
d’Africa e d’Asia, né la conseguente apparizione di un movimento
di Stati non allineati modificarono molto i termini della questione.
Il sistema politico della “Guerra fredda” a livello militare si
fondava su due pilastri interconnessi: 1) prevedeva sul fronte
principale europeo-sovietico un contraddittorio sistema di minaccia e
contemporanea dissuasione del rischio bellico, sia pur in un
crescendo tecnologico e di distruttività, e 2) tollerava una serie
assai ampia di conflitti limitati alla sua periferia, nel Terzo
mondo. Lo spazio della guerra, in questo sistema politico segnato
dall’epocale novità della minaccia nucleare, sembrava dividersi
fra grande guerra generale atomica preparata e minacciata, e guerre
limitate – non di rado internazionalizzate, anche micidiali e
atroci ma contenute – nel Terzo mondo. Per quasi mezzo
secolo le regole e lo spazio della guerra, la sua grammatica, furono
queste.
Oggi
s’assiste all’inerzia delle precedenti fasi storiche, all’acuirsi
delle lotte per la supremazia economico-politica planetaria, connessa
a quella energetica, ed alla riproposizione di un’estremizzazione
della “balance of power” che può evolvere 1) verso reciproci
annientamenti, certo, ma può anche 2) disinnescare le tensioni
militari dando continuità a relazioni internazionali tra le potenze
- esattamente come hanno fatto le politiche estere dei diversi
contendenti, perseguite nella storia non solo europea, a trazione
statunitense - per impedire l'emergere definitivo di una potenza
egemone tale da sconvolgere la “pace capitalista” e l'equilibrio
globale commerciale per sua natura perennemente instabile,
incompiuto.
Il
multilateralismo, forse, non è all’ultimo step; può
rappresentare la vera e propria “de-escalation”, nel lugubre
senso fornito dalla paradossale dimensione
dell’impossibilità/possibilità di una Cina silente ed
equidistante oppure interventista. Questa situazione di perenne
conflittualità internazionale e di relativa incertezza nel
posizionamento cinese rappresenta la via di uscita dal cul-de-sac
ucraino (a questo proposito, si rinvia a “Capitalismo e
globalizzazione”, Nerio Nesi, Ivan Cicconi, Prefazione di Luciano
Canfora, Bibliografia a cura di Giovanni Dursi, Koinè Nuove
edizioni, 2002; “Per una forza
nuova”, Gianfranco La Grassa, Gianni Petrosillo, Presentazione di
Giovanni Dursi, Solfanelli Edizioni, 2021).
Quindi,
evitando il pacifismo di maniera e, al contempo, d’essere
fagogitati dal gendarme statunitense, come sempre, l’impresa è
trasformare le guerre imperialiste in un assalto al cielo, in una
guerra sociale rivoluzionaria.
La
parte “occidentale” del fronte di guerra
L’attuale
Governo italiano abroga l’art. 11 della Costituzione (“L'Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;
consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri
la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”) inviando
contingenti di migliaia di soldati, potenziando la propria presenza
militare in Romania e Lettiona, raddoppiando il numero dei mezzi
aerei già operanti, a supporto dei dispositivi NATO che presidiano
il conflitto armato Russia Ucraina; inoltre, il Governo italiano
contribuisce al clima di alta tensione con la cessione di mezzi ed
equipaggiamenti militari all’Ucraina; l’Unione europea decide di
finanziare e dotare di armamenti lo Stato ucraino con evidente
innesco di recrudescenze europeiste per la costituzione di un
esercito comune dell’Unione; la Germania provvede ad incrementare
le potenzialità belliche del suo esercito, per la prima volta dal
secondo dopoguerra; gli USA fomentano il passaggio da una sterile
attività diplomatica e sanzionatoria di stampo economico
all’evocazione della “terza guerra mondiale”. Questa, in
sintesi, l’architettura sicuritario-bellica che - con la
sovradeterminazione politica della NATO sulle “politiche estere”
dei singoli Stati (secondo il principio di continuità
politica-guerra) che ne fanno parte, incapaci d’abbracciare la
strategia del “non allineamento” - sta precipitando il mondo
verso l’irreparabile, non prevedendo più la contrapposizione (ma
anche meccanismi di regolazione) fra due superpotenze, in cui
l’Europa era spaccata in due secondo linee ideologiche e aveva
quindi un ridotto peso politico, in cui il resto del pianeta era
ancora afflitto dal colonialismo e in cui, in genere, l’eco
politica dei soggetti sub-statuali era ancora piuttosto limitata,
bensì una eterogenea e multilaterale belligeranza dovuta al pieno
dispiegamento dei processi di globalizzazione politica ed economica,
assieme al succedersi di ondate di involuzione autoritaria dei
singoli Stati sullo scenario europeo ed internazionale. Di fatto, il
post-bipolarismo non sembra escludere la minaccia di un
annichilimento generale atomico, fra tutti i protagonisti e
comprimari in lotta, che aveva caratterizzato lo scontro bipolare. Se
la situazione di due imperi supernazionali e tendenzialmente
universali, destinati a fronteggiarsi con armi di distruzione
convenzionale oltre che atomica, si è storicamente dissolta, la
crisi attuale dimostra che è esponenzialmente ampliata ed anche
degenerata la conflittualità armata multilaterale che spinge nella
direzione di non risparmiare più alle proprie società civili gli
orrori derivanti da un’esperienza diretta della guerra anche sui
suoli nazionali o confinanti.
Al
di là delle percezioni rimane una realtà che nel frattempo
risulta però sempre più semplice da definire come estrema,
autolesionista battaglia per acquisire un eventuale “dividendo
di guerra”; essendo inceppato il meccanismo mercantile di
“generazione del valore” si è in presenza del pericoloso
slittamento sistemico verso l’opzione belligeranza al oltranza,
variamente sollecitata dal capitalismo globale.
Nel
frattempo, le quotazioni in Borsa di Leonardo S.p.A., un'azienda
italiana attiva nei settori della difesa, dell'aerospazio e della
sicurezza il cui suo maggiore azionista è il Ministero dell'economia
e delle finanze, schizzano a +13,61%, spinte dall'annuncio dell'UE di
inviare armi e finanziarne l'acquisto in Ucraina. Lucrosi “dividendi
di guerra”.
Tuttavia,
vanno ricordate le notti dei bombardamenti NATO di Belgrado di 23
anni fa. Anche in quella dannata circostanza i complessi
militari-industriali occidentali e le istituzioni che presiedono ai
PIL nazionali e alle politiche di potenza hanno realizzato
distruzione e morte e tentato di riavviare, in queste guisa, il
“ciclo economico”, riorientando in forma profittevole il
fluttuante svolgimento dell'attività di produzione dei paesi
interventisti coinvolti nelle loro totalità strutturali, andamento
quale appare da indici quantitativi globali come quelli riguardanti
la produzione nazionale, l'occupazione totale, il livello generale
dei prezzi, i fatturati aziendali ed altro.
Il
punto d'osservazione che, però, fatica ad emergere è un
altro. Quando l'ingiustizia e lo sfruttamento si fondono con la
mancanza di risorse materiali e postmateriali socialmente condivise,
con la frammentazione sociale, con le malattie fisiche e mentali, con
la sofferenza strutturale indotta dalla lotta di classe permanente,
si instaura sempre verosimilmente una condizione di oppressione. In
definitiva, il benessere generale dipende dalla giustizia, così come
il benessere individuale, relazionale, organizzativo, di comunità ed
ambientale dipendono dalla giustizia sociale, una esperienza
storica su cui dovrà fondarsi ogni comunità effettivamente libera.
Il suo alto compito è considerare le tematiche quali il potere,
l'oppressione e la liberazione come processi in divenire che
vanno analizzati nelle diverse forme, strutture e sistemi a livello
di comunità, di nuove istituzioni popolari e di società
“allargata”.
Le
“condizioni” per una base negoziabile Russia Ucraina credibile e
le “anime belle”
“Abbiamo
trovato alcuni punti su cui è possibile trovare un terreno comune",
ha detto il negoziatore russo Vladimir Medinsky, citato da Interfax.
Vladimir Putin si è impegnato oggi a "sospendere tutti gli
attacchi contro i civili e le abitazioni". Un accordo Russia
Ucraina sarà possibile solo dopo la "smilitarizzazione e
de-nazificazione" di Kiev, "quando avrà assunto uno status
neutrale", e con il riconoscimento internazionale della Crimea
come territorio russo. Queste le “condizioni” per porre fine al
conflitto in Ucraina.
Le
anime belle, contestualmente, disquisiscono sulla guerra e sulla
pace. Addirittura, isolandosi nel proprio mondo interiore, pensano
all’immanenza della pace, ad un “qui e ora” della convivenza
civile che, di fatto, si trasforma in un’indecente evocazione
del trascendente, mentre, dopo aver proferito il sermone
quotidiano, mestamente tornano agli “affari” propri, al quieto
laissez faire, senza vincoli morali alle attività.
L’idea
di “anima bella”, è già presente in Plotino (con questa
espressione egli intende l’anima che ritorna in sé stessa), viene
ripresa dai mistici spagnoli del Cinquecento e da Rousseau nella
“Nuova Eloisa” (1761). Ma l’espressione acquista un significato
più preciso nel saggio di Friedrich Schiller “Grazia e dignità”
(1793). «Un’anima bella – dice il poeta – non ha altro merito
che quello di esistere. Con facilità, come se l’istinto agisse per
lei, esegue i doveri più penosi per l’umanità, e il sacrificio
più eroico, che essa strappa all’istinto naturale, appare come
libero effetto di quel medesimo istinto». Schiller descrive dunque,
con l’espressione, un’anima ispirata bensì dal dovere, ma nella
quale gli impulsi sensibili si accordano spontaneamente con la legge
morale. Goethe dedicò all’anima bella il sesto libro delle
“Esperienze di Wilhelm Meister” (1795-96), dove a proposito di
essa dice: «Io non mi ricordo di nessun comando, niente mi appare in
figura di legge; è un impulso che mi conduce e mi guida sempre
giusto; io seguo liberamente le mie disposizioni e so così poco di
limitazione come di pentimento». Ma l’idea di anima bella ha
acquistato rilievo soprattutto per la raffigurazione che Hegel ne ha
dato nella “Fenomenologia dello spirito” (1807). In quest’opera
si insiste sul carattere mistico e contemplativo dell’anima bella;
essa è la soggettività elevata all’universalità, incapace
tuttavia di uscire da sé stessa, e di trasformare, attraverso la
propria azione, il proprio pensiero in essere.
L’anima
bella è «questa fuga davanti al destino, questo rifiuto dell’azione
nel mondo, rifiuto che porta alla perdita di sé». L’anima bella
è, quindi, pura e incontaminata, ma completamente incapace di agire
nel mondo, e di influire sul suo corso con il proprio impegno e con
la propria operosità.
Le
anime belle sono indaffarate. Pontificano contro le autocrazie
guerrafondaie. Sognano d’essere in una democrazia, «il regime
dell'eguaglianza», nascondendosi dietro la foglia di fico di un
Parlamento che consente di discutere, sempre approvandole, le
indiscutibili decisioni di un Governo - presieduto da “alieni”
che hanno poteri assoluti - che violano la carta costituzionale e si
predispongono alla guerra, sospingendo i cittadini verso un’ennesima
emergenza, riorganizzando le attività economiche e sociali in modo
ottimale per aiutare lo sforzo bellico.
La
fase politico-militare, successiva al crollo del muro di Berlino,
avvenuto il 9 Novembre 1989, consegue in questi giorni un’ulteriore
messa in questione degli attuali assetti raggiunti, riparametrando le
“zone di influenza” e “neutralità”. Il diluvio anticomunista
del dopo ’89 e l’ipertrofia capitalistico-planetaria con
l’11 Settembre 2001 hanno tentato di unificare il mondo dentro
il modello unico di produzione e riproduzione della vita con
l’invenzione del “terrorismo”, frutto di un non ben
identificabile “integralismo ideologico”. Successivamente, la
crisi del ciclo economico capitalista del 2008 (innesco: crisi del
mercato immobiliare statunitense e la correlata bolla finanziaria), e
peculiarmente le ricorrenti recessioni che ha generato, con lunghi
periodi di contrazione economica significativa e duratura al punto da
causare un iniziale shock esogeno (tra cui si annovera anche
la sovrapproduzione), con effetti diretti sulla domanda aggregata,
ovvero sulla somma della domanda per beni e servizi prodotti
all’interno di un’economia che implode, effettuano una sorta
di “salto di specie”: i meccanismi di persuasione alla
conformità capitalistica planetaria cedono il posto alla repressione
delle “devianze” rappresentate dai residui della lotta di classe
novecentesca, tradizionale, che, inopinatamente, instaurano alcuni
legami, pericolosi per la ristrutturazione “globale” del mercato,
con emergenti neoprofili di sfruttati, per loro natura antagonisti.
Infatti, è subdolamente introdotta nella gestione biopolitica del
potere, da parte dello stato imperialista delle
multinazionali, l’arma - auspicata letale - del contagio
pandemico di massa su scala planetaria.
L’evidente
scacco circa l’intento di controllo sociale (rif. al
Capitolo VI inedito de “Das
Kapital. Kritik der politischen Ökonomie“ di Karl
Marx che introduce la categoria di sussunzione al capitale
sdoppiata in “sussunzione formale” e “sussunzione
reale”) mediante una drastica contrazione demografica mondiale,
induce, conseguentemente, a riutilizzare con maggior efficacia
l’opzione “guerra”, del resto mai accantonata dal 1945 e
mantenuta attiva anche nel territorio europeo 1) con la pulizia
etnica nei Balcani che venne attuata durante la guerra scoppiata tra
i Paesi che componevano la Jugoslavia federale (Serbia, Croazia,
Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia), ricca di
violenze e tensioni politico-istituzionali che insanguinarono l’area
tra il 1990 e il 1999 e 2) dalla metà del secondo decennio del XXI
secolo proprio con la guerra dell'Ucraina orientale o guerra del
Donbass, ufficialmente iniziata il 6 Aprile del 2014.
L’apocalisse
non è dunque oggi cominciata. E il diavolo non risiede al Kreml′.
Dobbiamo renderci conto che nella società civile contemporanea
l’uomo postmoderno ha sempre vissuto un tragico travaglio dal quale
- evitando la logica binaria tipica delle tifoserie da stadio - dovrà
intercettare domande costitutive dell’esistenza possibile, che,
senza velleità, si pongono preliminarmente in questi termini: come
fuoriuscire dall’ordine mortifero mondiale creato dal
capitalismo ?
I
negoziatori per la pace in terra ucraina, per interrompere la guerra
iniziata nel 2014, ciurlano nel manico. Vacillano, tentennano, si
dimenano, avanzando rivendicazioni sostanzialmente interlocutorie, se
non inutili, perpetuando l'orrore. Non c'è traccia alcuna della
soluzione che prevede la neutralità dell'Ucraina, stante la dinamica
geopolitica che si è generata dopo il 1989.
Non
c'è visione, non c'è consapevolezza pragmatica circa una oggettiva
de-escalation e ci si sottrae, con abili raggiranti
narrazioni, ad impegni che prefigurano essere fermi nelle proprie,
concordate convinzioni e condotte a garanzia della convivenza
civile. Sembrano (sembrano) esservi solo contrapposti propositi.
Ricordiamo che in Ucraina, il 17,3% della popolazione è etnicamente
russo e più del 40% degli ucraini usa il russo come lingua madre.
Nella regione del Donbass, quasi il 40% degli abitanti si dichiarano
russi.
L’Europa
ha avuto un periodo di “pace” durato 46 anni, fino alla guerra
dei Balcani, durata a sua volta 10 anni e che ha finito per
coinvolgere la NATO, che ha bombardato Belgrado per due mesi e mezzo
lasciando sul terreno tra 1.200 e 5.000 morti a seconda delle fonti.
Oggi,
mentre i produttori di armi pregustano l’aumento del loro giro
d’affari, la Russia sta esercitando la superiorità militare
convenzionale in Europa oltre che il ruolo di fornitore di energia a
tutta la parte occidentale del continente. Le Nazioni Unite e
l’Unione Europea sembrano invece essere attori di un insensato
riarmo e fronteggiamento in questa trama che sta portando all’esito
fatale dove, come sempre, i più colpiti sono i civili, prime
vittime di ogni guerra.
Potrà
sembrare riduttivo, ma balza agli occhi il fatto che ogni giorno
qualcuno cerca di vendere qualcosa. Ciò accade secolarmente, a
partire dal 16° secolo, non solo utilizzando mezzi tradizionali, la
vasta gamma di attività promozionali e di linguaggi pubblicitari
nel corso del tempo adottati. Oggi le modalità più diffuse di
sollecitazione sono le ossessive telefonate a tutte le ore
ricevibili, l’occupazione radio-televisiva e dei social network
da parte della cosiddetta informazione commerciale, gli ormai
desueti “consigli per gli acquisti” evoluti sottoforma di
suadenti influencer che si prendono la briga di pensare al
nostro posto, di diventare pseudo opinion leader.
Perché
? Perché tutto è fagocitato dal sistema di produzione di beni e
del loro consumo ricorrente, persistente. Pertanto, anche un evento
culturale, una mostra, un concerto, i libri sono considerati dei
prodotti. Prodotti che in questa guisa dismettono le loro
peculiarità e mutano in eventi di compra-vendita mainstream,
rivolti ai pubblici non di nicchia (e questo è un bene), ma
all’universo degli acquirenti, genericamente intesi. Accade quanto
il buon vecchio Herbert Marshall McLuhan ebbe a dire “the Medium
is the message”, regola aurea dell’Inbound Marketing, che vede
sempre più spesso protagonisti, accanto ai soliti imbonitori, abili
affabulatori nella commercializzazione dei materassi, -
indifferentemente - scrittori/scrittrici che con espressioni compite
e accettabili faccine simil sbarazzine sintetizzano, come fossero
superficiali “quarte di copertina”, i contenuti di volumi che
presentano sui cosiddetti “canali social”, dopo averli
“digeriti” (intendendo dire: letti; si auspica); esattamente
come accade ad altrettanto disinvolte signorine seminude che, con
brevi video postati, ad esempio su Instagram, stimolano l’acquisto
di “completini” presso il consueto sexy shop di
riferimento, anche grazie ad esplicite movenze di gambe, glutei,
seni e mimiche facciali. Del resto, anche “con il culo” si
saluta, come canta il gruppo musicale La Rappresentante di Lista,
“Ciao (ciao, ciao, ciao, ciao, ciao, ciao, ciao)”.
In
qualche modo, la specificità del prodotto viene smarrita, diviene
indifferente, prevalendo il “modo” e il “canale” e i
contenuti culturali vengono assimilati a merci, ad oggetti di
consumo, seguendo acriticamente le strategie di marketing
più attuali, preferite dal “mercato”, piuttosto che impostare
creativamente raffinate forme di informazione/comunicazione
culturale. Ad esempio, la coraggiosa, sperimentale modalità di
Cordelia
Stagno.
Considerata
la quotidiana immersione di tutti nel web, l’ecosistema
online offre un panorama desolantemente monotono d’attività
di persuasione al consumo da rendere ormai indistinguibile se si è
esposti alla profferta di culatello o dell’ultima replica teatrale
de “Il malato immaginario” di Molière, se si sta per comprare
capsule di picosolfato di sodio oppure l’ultimo volume della serie
“L’amica geniale” pubblicato dall’anonima scrittrice Elena
Ferrante.
Il
cuore di tutte le attività di digital advertising è la
vendita, qualsiasi sia il “bene” di cui si tratta.
Tuttavia,
continuo a chiedermi perché mai dovrei seguire uno spot per
recarmi in libreria ad acquistare un libro o vedere un trailer
di un film per poi recarmi al cinema . . . Preferisco conoscere,
preferisco scegliere, preferisco decidere, preferisco rischiare,
preferisco conversare.
Questo,
nondimeno, è il milieu socio-culturale entro il quale
si dispiega nell'immaginario di massa l'ennesimo conflitto bellico.
Quello
che si pretende dai media sono informazioni e intrattenimento.
Ma, non rimuoviamo, anche i media esigono qualcosa da noi. Che
si creda loro. Oggi, con il consistente e, per certi versi,
inarrestabile processo di disintermediazione nell’ambito
dell’informazione sociale, le “fonti” sono proliferate a
dismisura creando, consapevolmente o meno, l’overload
informativo e, spessissimo, la sovrapposizione tra fake news,
anche artatamente “confezionate”, e narrazioni corrispondenti al
“vero”. Siffatto milieu è
l'architrave del “pensiero unico”che opera influenzando tutti i
fattori che determinano i processi politici, sociali, artistici e
letterari, inaridendo la ricerca disinteressata di “verità” (al
plurale) e la facoltà conoscitivo-interpretativa dei “fatti”.
Morto,
o quasi, il giornalismo d’inchiesta (ci sono segnali confortanti
circa una nuova leva di professionisti, ad esempio Jacopo
Ottenga;
seguire il suo servizio, il podcast «La Congiura del silenzio»
dedicato ad Antonio Russo), venuto meno il metodico ricorso a
intermediari affidabili (come agenzie-stampa e media indipendenti)
nella fruizione di beni conoscitivi e di servizi giornalistici di
pregevole fattura, in seguito alla diffusione di InterNET, che
facilita l’amalgama tra “vero”, “verosimile” e “falso”,
il contatto diretto tra fruitori e produttori di “notizie”, si
precipita nel perverso gioco delle interpretazioni (a volte
“liberamente” uscite di senno) corrispondente all’evidente
strategia politica di controllo sociale che tende a lasciar
interdetti, confusi, disorientati gli interessati ai fatti del mondo
con lo scopo di preparare la loro psicologia a qualsiasi evenienza
politico-legislativa, politico-militare, antropologico-politica.
A
mio modesto parere, il padre-fotografo, Oleksii Kyrychenko,
costruiti o meno la location e il “messaggio”, avrebbe
fatto meglio a non esporre su Facebook sua figlia in armi,
pare sia una bimba ucraina di 9 anni, tantomeno armare sua figlia
minore. Ha senz’altro contribuito ad un’ulteriore
strumentalizzazione e abbrutimento dell’infanzia.
Sul
fronte del dolore e della tragedia, se l’esistenza è teatro del
transeunte e di oblio, e tutto ciò che più vi risplende, perfino
le forme stesse della bellezza nelle più alte espressioni, è posto
in scacco dalla disgregazione sociale e dalla dimenticanza –
ovvero, in un’unica parola, dalla «morte» –, solo la volontà
può agire da antidoto a questa dinamica e fare sì che ciò che è
stato vivo resti vivo ancora, conservando nitidi ricordi. Sul piano
della politica volta alla conservazione dello status quo, dunque
solo l’intenzionale ribellione può apportare cambiamenti e
recare nocumento alle rilevanti figure del potere e del vivere
quieto.
Avviamo,
pertanto, la discussione sul “comunismo possibile”. Un
background comune è costituito dai testi marxiani (in
particolare, le opere scritte tra il 1845 e il 1847 e la Prefazione
del 1859 a Per la critica dell'economia politica), leniniani e
marx-leninisti sulle tematiche di fondo: “base” (realtà
economico-sociale costituita dal sistema materiale di produzione e
consumo), sovrastrutture (sistema delle relazioni ulteriori che si
generano – bedingt - dalla fondamentale contraddizione
capitale-lavoro - ne sono causalmente determinate - a garanzia della
riproduzione della formazione economico-sociale dominante),
trasformazione collettiva (politica di classe ed organizzazione
rivoluzionaria) e fuoriuscita dal modo di produzione e consumo
capitalista ed estinzione dello Stato.
Questo patrimonio culturale
va messo in relazione con l'attuale situazione dell'antagonismo
sociale alla “crisi” ristrutturativo-globale bellica del
capitalismo delle multinazionali, poiché è sempre in
agguato la spinta ideologica degenerativa che vede nella
“teoria” un dogma (fantasmi retorici si aggirano tra le fila
degli anticapitalisti) e nelle “prassi” sociali della lotta tra
le classi una rappresentazione astorica (oscillante tra il poco
dignitoso tradeunionismo e velleitarismi insurrezionali).
Conseguentemente, potranno essere approfonditi gli aspetti storici
(bilancio del movimento comunista mondiale) e teorico-politici
legati alle fasi della transizione, alla “dittatura del
proletariato” e al “dominio politico di classe” per meglio
definire una strategia politico-organizzativa frutto della
convergenza tra conoscenza scientifica e comportamenti sociali
coscienti, veicoli realmente efficaci della trasformazione
collettiva.
Cóntro.
Essere cóntro
Già.
Milioni di persone dichiarano, esplicitamente o simbolicamente,
d’essere cóntro. La preposizione è utilizzata come prefisso in
molte parole composte nelle quali indica opposizione (contraereo,
controsenso), movimento o direzione (“ostinata”) contraria
(contropelo, controvento), reazione, replica, contrapposizione
(controffensiva, controquerela, contrordine), controllo, verifica
(controprova, contrappello), rinforzo, aggiunta (controcassa,
controfodera); con significato più particolare, affine a
quest’ultimo, nei termini di marina controvelaccio, controfiocco,
contrammiraglio. In questo frangente, il termine manifesta, nel
diffuso incalzare retorico di massa, una evidente, inevitabile
curvatura ideologìca. Ricordiamo che nel pensiero marxiano,
l’ideologìa sta ad indicare l’insieme delle credenze religiose,
filosofiche, politiche e morali che in ogni singola fase storica
sono proprie di una determinata classe sociale, informandone il
comportamento, e che dipendono dalla collocazione che questa ha nei
rapporti di produzione vigenti (ad esempio l’ideologìa borghese);
in quanto tale, l’ideologia, lungi dal costituire espressione del
pensiero scientifico, ha la funzione di esprimere e giustificare
interessi particolari, per lo più delle classi proprietarie ed
egemoni sotto l’apparenza di perseguire l’interesse generale o
di aderire a un preteso corso naturale degli eventi storici.
Ebbene,
chi è solo “cóntro”, dimostra de facto, un’incapacità,
una discrezionalità, una mancanza di volontà nel proporre;
dimostra una carenza nella critica dialettica dell’esistente, una
adialetticità che genera passività, uno ”stare alla finestra”
in attesa che si modifichi il “panorama”.
Che
si cominci ad essere propositivi, ad essere “a favore”, a
“fare”, perché è ideologico dire d’essere “cóntro” !!!
Il capitalismo ha continuato a prosperare non grazie alla sua
intrinseca energia, o per la forza della «società incivile» da
essa generata, ma soprattutto per il contrasto incerto e fiacco
messo in atto da chi dovrebbe combatterlo nell’ambito della lotta
di classe. La politica, i poteri espressi dalla dialettica
Stato/impresa, anche quelli più forti, non hanno mostrato
invincibilità; le forze antagoniste, semmai, sono implose, hanno
ceduto di fronte all’incalzare dell’ideologia “democraticista”
perdendo “coscienza”, energia e qualità politica e
determinazione organizzativa per combattere, oppure si sono alleate
con il capitalismo stesso facendo scempio delle conquiste storiche
del movimento operaio che appartengono a tutti: la sicurezza del
lavoro, l’ambiente, le libertà civili elementari, il diritto al
futuro delle giovani generazioni. Oggi le classi subalterne si
leccano le ferite inferte dai tradimenti subiti. La corruzione
partitica o sindacale è capillare, l’associazionismo civile è
precario, la partecipazione politica è scarsa, e le elezioni sono
fasulle perché i consensi non sono liberi e si “comprano”.
Oggi
abbiamo addirittura il “reclutamento” dei corpi e delle
coscienze individuali per la guerra …
La
routine economico-politica-bellica continua fino a notte
fonda, fino all’ecatombe. Pensare che sia tutta responsabilità di
un uomo “solo al comando” è fuorviante.
Anche
se siamo tutti esausti e preoccupati per le scontate ripercussioni
globali dell’indomani, comunque vada a finire, a nulla serve
stigmatizzare l’individuo come artefice di ogni nefandezza. Volenti
o nolenti siamo dentro una struttura relazionale, prigionieri o
carnefici. Non c’è duce senza agrari ed industriali a sostegno,
non c’è assistenzialismo fascista senza “fabbrica del consenso”.
Non
può realizzarsi il Terzo Reich, senza che i vari Hermann Göring si
siano assunti la responsabilità d’essere colpevoli per la maggior
parte dei crimini di cui sono stati accusati nel processo di
Norimberga, così come Otto Adolf Eichmann, nel processo del 1961, si
difese dichiarando a proposito dei Konzentrationslager: «Non lo
nego. Non l’ho mai negato. Ricevevo degli ordini e dovevo eseguirli
in virtù del mio giuramento. Non potevo sottrarmi e non ho mai
provato a farlo. Ma non ho mai agito secondo la mia volontà».
Non
è mai - il terrore -, da quello robespierriano (1793-1794) ai
nostri giorni, partorito dalla mente perversa o disturbata di un solo
individuo; le abiezioni sono compiute grazie alla complicità e
all’aberrante azione di gruppi sociali, ristrettì o meno, che
attorniano il leader, all’agire di una ampia fascia di
burocrati ligi al dovere, rispettosi delle leggi e delle regole,
cittadini esemplari (tale si è definito Eichmann), divenuti
strumenti del potere e trasformati in ingranaggi indispensabili della
macchina totalitaria e guerrafondaia.
Isolando
ed enfatizzando il valore dell’azione individuale, prerogativa che
caratterizza e rende non del tutto comprensibile gli accadimenti,
preclude all’analisi una strada non accidentata che rileva
l’oggettività del fenomeno dell’allineamento e
dell’omologazione, della compartecipazione, della correità. Il
mito psicologizzante della personalità è inutile a dare risposte
sensate alle tragedie e deresponsabilizza i più, siano essi parte
dell’intelligencija oppure espressione dell’ignoranza dei
popoli.
'I
fatti sono fatti e non spariranno per farti un piacere' (Jawaharlal
Nehru)
Da
oltre un mese, seguendo il flusso informativo quotidiano e il
pubblico dibattito sull’andamento del conflitto bellico in Ucraina,
è agevole notare che si stanno ingrossando le fila degli adepti del
persiano Mani (Sec. III) e dell’adesione acritica alla sua dottrina
basata sull'identificazione di due principi assoluti, il Bene e il
Male, in perpetuo e insanabile contrasto tra loro. La cattiva
coscienza e
la logica
“binaria” del mondo capitalistico-borghese euro-atlantico
producono insani incubi ed oscurano anche le “migliori
intelligenze” (il mio amico Eugenio
Agus,
ad esempio) che affastellano riflessioni antropocentriche grazie alle
quali partoriscono mostri retorici e geopolitici.
Oltre
ad un moto di ripulsa per questa semplificazione metafisica, penso
debba essere contrastata una deriva concettuale che nasconde
notevoli e diverse contraddizioni. La prima risiede nell’esplicitare
un manicheismo (nella fattispecie: Occidente vs “Grande
sacra Russia”) foriero di idee, analisi e atteggiamenti di rigida
e radicale contrapposizione sul piano delle ideologie o delle prassi
civili che storicamente non hanno fondamento.
In
realtà, la “Russia è da sempre al centro di rappresentazioni
ingannevoli, esoticizzanti e fuorivanti nell'immaginario collettivo
occidentale, radicate al punto tale da divenire veri e propri
ostacoli per il dialogo e il reciproco incontro. Soprattutto in
tempi di difficili relazioni politiche e diplomatiche come quelli
attuali, fortemente caratterizzati dalle conseguenze della crisi in
Ucraina, appare quanto mai necessario educare alla decostruzione
degli stereotipi e a un nuovo atteggiamento di apertura” (Dott.
Federico Zannoni, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di
Scienze dell’Educazione, dell’Università di Bologna).
Tuttavia,
è antropologicamente vero che i russi (non tutti, ovviamente)
chiamano la loro terra “Santa Madre Russia”, una sorta di
personificazione mistica della nazione, un’immensa pianura bianca
di neve d’inverno e bionda di grano d’estate, che rievoca
l’antico archetipo pagano di Demètra, la Terra Madre; al legame
con la terra fanno riferimento anche le icone delle Madonne Nere:
nero è il colore della fertile terra. Madre è colei che nutre e
protegge i suoi figli. E quando crescono fino all’età adulta, i
suoi figli e figlie, a sua volta, la proteggono e si prendono cura
di lei. Così il concetto di Madre Russia suscita sentimenti di
amore, lealtà e protezione che vanno molto, molto oltre le
concezioni occidentali. I russi vedono la Russia come loro madre e
le daranno per difenderla la vita stessa che essa un tempo ha dato a
loro.
Attualmente,
ad alimentare sempre più il sentimento patriottico dei russi,
contribuisce in modo rilevante l’allargamento della NATO verso
est. A Mosca, è vivo il ricordo della contrapposizione tra la
Russia, allora Unione Sovietica, e l’Occidente che significa,
soprattutto, NATO, in assenza - è corretto affermarlo - del Patto
di Varsavia, che a suo tempo ha lungamente rappresentato un’efficace
strumento di “balance of power”. Concretamente configurato come
un vero e proprio equilibrio del terrore atomico, è stato deciso
politico-diplomaticamente a garanzia storica di una duratura quiete
bellica in territorio europeo nelle relazioni internazionali con
l’URSS che, però, è sfociata in altre regioni disastrando altri
continenti. Come detto, dunque, in un sistema di interdipendenze
economico-politiche globale in cui vi è una molteplicità di attori
(statuali e aziendali multinazionali) autonomi che competono tra
loro per il potere che deriva dalla presenza sul “mercato”, la
ricerca dell’equilibrio tra questi diviene la logica, oltre alla
spontanea, conseguenza. Altrimenti subentra la guerra, nelle forme
ardite: commerciale e militare.
Un
“equilibrio” si crea al fine di mantenere la stabilità del
sistema senza, nel contempo, distruggere del tutto la molteplicità
degli elementi che ne fanno parte. Infatti, se lo scopo fosse la
sola stabilità, questa potrebbe essere raggiunta con il sopravvento
di un attore su tutti gli altri. Ma siccome l’obiettivo non è
solo la stabilità, ma anche la preservazione degli elementi del
sistema bisogna evitare che un qualsiasi attore del sistema accresca
troppo la propria forza al punto da poter spezzare l’equilibrio e
sconfiggere gli altri attori, come pare, a volta, di vedere.
Pertanto, non si può addossare il “passaggio alle armi”, ad un
solo attore, psicologizzandone a piacimento, per convenienza
dialettica, il profilo della leadership interna, frantumando la
modalità multilaterale dei legami attuali che vedono ancora oggi,
in queste ore, per quanto esigui possano essere, stare ancora in
piedi non solo aspetti diplomatici, bensì scambi di merci (prodotti
energetici e derrate alimentari) pur dentro il pantano di un
allargamento del conflitto e coinvolgimento belligerante di altre
parti (“neutralità” presunte che gettano la maschera …).
Ricordiamo
che nel mondo sono prodotte 749.467.000 tonnellate di grano
all’anno. La Cina è il più grande produttore di grano al mondo
con un volume di produzione di 131.696.000 tonnellate all’anno.
L’India è seconda con 93.500.000 tonnellate di produzione
annuale. La Russia è terza con 73.294.000 tonnellate. L’Ucraina è
settima con 26.099.000 tonnellate. Inoltre L’Ucraina – ricorda
Confagricoltura – è il terzo esportatore di cereali a livello
globale. La Federazione Russa è al primo posto, anche se ha attuato
già dallo scorso anno una limitazione delle esportazioni per
contenere l’aumento dei prezzi all’interno. Per ora tutto
l’apparato relativo al business agricolo ed energetico non si è
interrotto. Del resto, durante la crisi missilistica cubana del 1962
che richiama le contemporanee velleità NATO ai confini russi, le
due superpotenze si accordarono per installare una linea telefonica
diretta tra Washington D.C. e Mosca e il conseguente vero e proprio
embargo del grano non lasciò traccia alcuna. Conclusivamente, la
dimensione geopolitica multilaterale - strutturalmente presente
anche nei precedenti periodi storici pur caratterizzati da relazioni
definite “bilaterali” - certo può far degenerare il conflitto,
ma bisogna comprendere bene la ragione strategica per la quale 39
paesi hanno votato contro o si sono astenuti alla mozione ONU di
condanna della Russia per la cosiddetta “operazione militare
speciale” in terra d’Ucraina, Russia che oltre al gas, petrolio,
alluminio ed altri metalli gestisce il 20% del l’export mondiale
di grano. Il manicheismo Occidente vs “Grande sacra Russia” è,
quindi, una formula superficiale utile per fare da paravento alla
cattiva coscienza borghese che anima il capitalismo mondiale nella
sua configurazione euro-atlantica contemporanea.
C’è
una seconda contraddizione da smascherare. Una eco fortissima nel
pubblico dibattito odierno riguarda il tentativo di discreditare
(con il pretesto del conflitto russo-ucraino, si “dice a nuora
perché suocera intenda” …) il ruolo storico dell’URSS e
l’ispirazione comunista, marxista e leninista che è alla base
dell’edificazione del primo Stato socialista nella storia
dell’umanità. Ricordiamo, innanzitutto, ai detrattori, il compito
assunto responsabilmente dall’URSS nel combattere e sconfiggere il
Nazismo. In secondo luogo, evitiamo di presentare l’edulcorazione
della civiltà occidentale - il cui nucleo fondante non è un
astratto valore quale è la “libertà”, ma il concreto modo
capitalistico di produzione e riproduzione - come se fosse
presentabile in veste di uno scenario idilliaco, quasi bucolico che
esclude alternative, che è descrivibile come un’accettata,
indiscutibile evoluzione “naturale” senza sbocchi se non
un’inevitabile ulteriore autoconferma. Non ritengo di dover qui
smentire questa inaccettabile “visione” con dovizia di dettagli
tragici che la storia del capitalismo ha registrato e che ha visto
negli USA il “miglior interprete”, certo non l’unico.
Viceversa,
è necessario prevedere - stante la perdurante “crisi”
ultradecennale della sua struttura economico-produttiva che ha
compromesso lo “sviluppo” umano e l’habitat - che stia
semplicemente portando ad un passo dall’abisso (il rif. a
Friedrich Nietzsche può essere legittimo, ma va ben
contestualizzato) ove rispecchiarsi per ottenere sostanzialmente una
compensazione territoriale a favore di una potenza - gli USA - in
seguito all’acquisizione di territori da parte di un’altra
potenza; acquisizione quest’ultima che crea ovviamente un disturbo
dell’equilibrio preesistente e che necessita di un riequilibrio
tra le forze. La storia presenta esempi di compensazione
territoriale illuminanti come, ad esempio, il Trattato di Utrecht
del 1713.
In
effetti, l’oracolo Friedrich Nietzsche ha scritto: “Chi lotta
con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un
mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso
scruterà dentro di te"; la frase è contenuta nella quarta
parte di “Al di là del Bene e del Male” (1886), un saggio
filosofico in cui Nietzsche esamina la mancanza di senso critico dei
contemporanei. Ci sono molte interpretazioni dell'aforisma, e non è
scontato che una sia migliore delle altre. Due possono essere
correttamente accreditate: 1. L'abisso è la pretesa volontà di
trovare una morale oggettiva nella quale inquadrare le azioni
dell'uomo. I mostri sono i bias della conoscenza. Il mostro che si
rischia di diventare è un uomo dogmatico il quale impedisce la
nascita del “superuomo”. 2. L'abisso è l'ambiente che ti
circonda. I mostri sono gli uomini senza conoscenza. Se stai a lungo
in un ambiente malsano, rischi di diventare tu stesso uno di quei
molti uomini che, secondo Nietzsche, non diventeranno mai
“superuomini”.
Ecco,
il “superuomo” che non c’è è il tema. L’uomo -
definizione general-generica - che, se non muta le condizioni
oggettive di vita, le sue “forme”, finisce con il diventare la
carta da parati di un ambiente economico-sociale da lui stesso
costruito che lo ha reso privo di coscienza, passivizzato a tal
punto che non è più in grado di emancipazione, di liberazione dal
gioco mercificante e consumistico che la vita di miliardi di persone
è divenuta a partire dal XVI secolo, periodo che la storiografia
ritiene essere l’origine dell’economia capitalistica. In realtà,
solo nell’impresa scientifica di Karl Marx è rintracciabile
quella rottura epistemologica (rif. a Gaston Bachelard, ma
soprattutto a Louis Althusser che con tale espressione indica la
svolta che dal 1845, l'anno delle “Tesi su Feuerbach” e della
“Ideologia tedesca”, si realizza nel pensiero di Marx giungendo
al “Capitale”, nel 1867, ed ai “Grundrisse”, 1857-58, come
frutto conclusivo di una sopraffina, compiuta ricerca
inter-transdiscilinare che mostra la realtà per quella che
autenticamente è), prima, e nell’impresa leninista, poi, una
lettura adeguata della condizione umana.
È
importante accostarsi al sapere leniniano che non va occultato,
un’elaborazione teorico-politica che genera un’esperienza
organizzativo-sociale inedita, dando luogo ad una sperimentazione
rivoluzionaria per un assetto economico-sociale “collettivista”
che può datarsi, come fase esemplificativa, dal 1917 al 1924. La
storia si è voltata da un’altra parte, certo, ma sappiamo che la
lettura geopolitica non autorizza nessuno ad autoproclamarsi
avanguardia civile poiché “vincitore”, in particolar modo
quando la “vittoria” riguarda una plurisecolare macelleria
sociale generata proprio dal sistema delle diseguaglianze, dello
sfruttamento e del potere oligarchico del capitalismo globale.
Forma
mentis e comportamenti
“occidentali” e le “pietre d'inciampo” del pensiero critico
“Spazzar
via tutti i mostri!", così s’annuncia in Cina, negli anni
1969-1962, il lancio di una immensa ondata rivoluzionaria che
toccherà i livelli della cultura (nel senso di comportamenti
sociali) per sradicare i vecchi usi e costumi e crearne di nuovi.
L'agente auspicato allo scopo è il pensiero di Mao Tsê-tung, che
come "arma spirituale" opererà una "trasformazione
mai vista nella storia dell'umanità".
Il
cosiddetto Occidente, meditabondo e sede storica della sedicente
δημοκρατία, forma di “governo” in cui il potere
dovrebbe essere esercitato dal “popolo” tramite rappresentanti
liberamente eletti, vede la sua società civile, in gran parte,
assisa davanti ai monitor dei pc dai quali viene
narrata la storia, ed attonita e virtualmente loquace, assiste al
war game e, con il culo al caldo (per ora), con vibranti
emozioni artatamente sollecitate, si predispone a prender parte al
gioco fatale, tronfia e certa di stare dalla parte giusta della
scena, quella del rassicurante potere economico-politico che tutti
include, purché d’accordo con esso.
Ecco
su quali gambe e testa si rinnovano le “magnifiche sorti e
progressive” delle genti di questa parte (parte) del mondo,
assuefatte a non saper distinguere il grano dal loglio, brave ad
indossare occhiali dalle lenti verdi beandosi della monocromatica
veduta, incapaci ormai di cogliere sfumature e, altresì, propensi a
trascurare i veritieri dettagli, troppo faticosi da scoprire.
Tutti
sappiamo cosa sono le “pietre d’inciampo”, queste mattonelle
incastonate nel selciato di alcune particolari strade cittadine che
attirano l’attenzione dei passanti. Sono piccoli blocchi quadrati
di pietra (10×10 cm), ricoperti di ottone lucente, posti davanti la
porta delle case nelle quali ebbe ultima residenza un deportato nei
campi di sterminio nazisti: ne ricordano il nome, l’anno di
nascita, il giorno e il luogo di deportazione, la data della morte.
Pare che in Europa ne siano state installate già oltre 70.000; in
Italia, le prime furono posate a Roma nel 2010 e attualmente se ne
trovano a Bolzano, Genova, L’Aquila, Livorno, Milano, Reggio
Emilia, Siena, Torino, Venezia oltre ad altri numerosi centri
minori.
L’iniziativa
delle “pietre d’inciampo”, creata dall’artista Gunter
Demnig, delle “Stolpersteine”, in tedesco, determina una
rammemorazione che si presta ad ulteriori simbolizzazioni possibili
ed invitanti.
Le
“pietre d’inciampo”, simbolicamente intese, fanno pensare al
contingente fallimento della cosiddetta intelligencija,
l’insieme coeso e battagliero di alcune figure professionali -
scienziati, artisti d’ogni specie ed uomini di teatro, critici
d’arte, educatori, accademici, professionisti di variegati rami,
esperti e detentori di elevate competenze, alcuni editori ed alcuni
giornalisti, affabulatori - che svolgono storicamente un lavoro
prettamente intellettuale in una qualsiasi nazione, ma che, avendo
spento ogni velleità per “giuste cause, si impegnano
esclusivamente per realizzare la “pacificazione sociale”
cercando di neutralizzare le ragioni del conflitto ed
adagiandosi comodamente “alla destra” dell’onnipotente
autorità costituita, a difesa degli interessi delle élite
economico-politiche alle quali appartengono occupando serenamente
appagati o in modo frustrato i gradoni d'una gerarchia sociale da
altre soggettività organizzata.
Di
fatto, tale intelligencija opera come vero lacchè ad ogni
piè sospinto dedito a servile interessato ossequio nei riguardi del
“potere”. Lungi dall’essere un’efficace impedimento alla
straripante deriva del “potere”, lungi dall’effettuare analisi
critica dell’esistente e dal portare coscienza all’interno delle
classi subalterne, agisce come gruppo di pretoriani della
conservazione, gestendo arbitrariamente conoscenze e precetti
morali. Nell’edificazione della Russia sovietica, in modo
lungimirante Lenin fu molto critico nei confronti della possibilità
di dare un carattere unitario di classe all’intelligencija, ovvero
uomini perlopiù borghesi nati e cresciuti sotto il potere
reazionario zarista. Lenin, infatti raccomandava la crescita delle
“forze intellettuali degli operai e dei contadini che depongono la
borghesia e i loro complici, gli intellettuali, i lacchè del
capitale che pensano di essere il cervello della nazione“ (rif.
“Letter from Lenin to Gorky”, 1919, Library of Congress,
Washington, 2010).
Quindi,
nessuna identità da “pietre d’inciampo” può essere
attribuita a chi detiene ed accumula in modo indefinito il sapere,
in analogia con il meccanismo d’accumulazione di capitale, quel
processo in virtù del quale la quantità data dei fattori
produttivi (mezzi di produzione e forza lavoro) non è soltanto
sostituita, ma anche incrementata, attraverso il reinvestimento nel
processo produttivo della parte di reddito sociale, individuale o
dell’impresa, non destinata al consumo, assumendo tuttavia una
determinazione specificamente capitalistica quando l’incremento
dei fattori produttivi è direttamente funzionalizzato
all’espansione del capitale e alla crescita del profitto.
Il
lavoro, quieto e subdolo, di tale intellettualità diffusa è
funzionale al mutamento di stato complessivo biopolitico, in corso,
del sistema planetario di produzione e riproduzione sociale, non
solo come novella governance autocratica
dell’assetto politico-istituzionale, bensì anche nella
ridefinizione antropologica tendente ad escludere sine die e
sistematicamente le moltitudini popolari dalla sfera concernente
decisioni di rango collettivo, mai impegnandosi a rappresentare un
vero “inciampo” storico per il capitalismo globale, avendo
smarrito i contatti con la dignità.
Si
ha bisogno di persone le quali, in seno ad ambienti “social”,
rivestono ruoli di capi carismatici con pedigree morali tali
da interpretare la voce del “Verbo” e scagliare dardi infuocati
contro chi osa “criticare” (non tanto i “contenuti”, facile
impresa …), bensì la sicumera ? Mai fare uso del suadente
linguaggio dei “santoni” considerato che, per essere tali,
dovrebbero vivere da eremiti, essere veri asceti o avvolti da
un’aura di magia, meglio se provenienti dall'Oriente, specialmente
dall'India. Li vedo passeggiare sulla battigia concedendo al loro
miglior amico la possibilità di scorrazzare in libertà, abbaiando
la sudditanza, mentre gustano un sigaro … che si dedichino a
queste forme di relax è cosa buona e giusta, meglio
farebbero se abbandonassero il campo del Πόλεμος …
Si
presti attenzione alla “cancel culture” di regime, (dalla
Università “Bicocca” di Milano a quella statunitense della
Florida …). In psicoanalisi, la “rimozione” è un meccanismo
psichico inconscio che allontana dalla consapevolezza del soggetto
(G.E.Vaillant , 1992), nel senso quasi fisico del termine, quei
desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e
intollerabili dall’Io, e la cui presenza provocherebbe ansia ed
angoscia. Il risvolto psichico della lotta ideologica tra le classi
contrapposte . . . che evolve anche verso le forme di “caccia alle
streghe” . . .
I
cani di Ivan Petrovič Pavlov ed i filoyankee a
difesa dell’ordine mondiale
Rivendicare
pari dignità tra i punti cardinali, tra i fondamenti
dell'orientamento ovvero tra le direzioni fondamentali, oggi sembra
impossibile. La struttura mentale etnocentrica tende a fare dei
chiaroscuri storici un semplice impaccio. L’unilaterale “vision”
- naturalmente adialettica - offusca le funzioni cognitive e la
capacità di vedere. Idee cartesianamente “chiare” e “distinte”,
innate, hanno il sopravvento sulle “avventizie”, esperenziali, e
sulle “fattizie”, frutto di immaginazione, creatività.
In
questa guisa, alcuni si sentono latori di “verità”, commossi e
compiti testimoni di pace, interpreti di un “pensiero unico” che
non prevede smentite e contestazioni, a tal punto da sovrapporre per
comodità affabulatoria diversi periodi storici, come se fosse
possibile identificare la Russia post 1989 con l’URSS. Non si
avvedono dell’imbroglio. Non ascoltano. Sono genuflessi di fronte
al Mōlek incarnato paradossalmente dall’Occidente.
Come
realtà storico-politica, l'Occidente è l'ambito definito
dall'appartenenza alla civiltà e cultura europea, precisamente
romano-germanica e cristiana, il cui motore realizzativo è la
barbarie capitalistica che, dal XVI secolo in poi, trova, tappa dopo
tappa, successivamente, nel continente americano colonizzato,
ulteriore spazio d’affermazione. Tale appartenenza si è soliti
contrapporre a quella dei popoli del Medio ed Estremo Oriente. In
particolar modo, nel periodo della “guerra fredda”, i paesi a
democrazia rappresentativo-parlamentare e a economia liberistica sono
stati in contrapposizione ai paesi comunisti dell'Europa orientale e
dell'Asia e ai loro caratteri culturali, economici e sociali.
La
democrazia sovietica (il focus concerne gli anni
1917-1924) non esiste più, si è inabissata, nulla pertanto può
avere a che fare con la congiuntura economica globale di questi
giorni, con l’atrocità di neoposizionamenti geopolitici e
mercantili. Nonostante questi dati incontrovertibili, bizzarri
esponenti della “civiltà occidentale”, pretoriani del capitale,
non azzardano nemmeno una lieve critica alla direzione intrapresa nel
passaggio da un assetto - l’economia-mondo, secondo l’assetto del
XVI secolo, il Mediterraneo (rif. allo storico francese Fernand
Braudel) - ad un altro - il dominio mondiale del modo di produzione e
riproduzione capitalistico che prevede il combinato disposto di
affari, devastazioni ambientali e guerre per la supremazia universale
dei suoi protagonisti, gli Stati e le imprese multinazionali.
Il
citato storico francese, su questo punto e con l’approccio
storiografico “longue durée”, così si esprime: “Il
capitalismo vive di questa regolare suddivisione in piani verticali:
le zone periferiche nutrono quelle intermedie e, soprattutto, le aree
intorno al centro. Ma cos'è il centro se non la punta estrema della
piramide, la superstruttura capitalistica dell'intera costruzione ? E
siccome esiste una reciprocità di prospettive, se il centro dipende
dai rifornimenti della periferia, quest'ultima, a sua volta, dipende
dai bisogni del centro che le impone la sua legge”.
Eppure,
il benpensante di turno cerca di incasellare gli eventi
storico-politici nelle anguste categorie morali del “bene” e del
“male”, della “giustizia” e del suo contrario, della
“violenza” e del “martirio” come se lo Spirito
(hegelianamente inteso) smaterializzasse le vicende umane per
realizzarsi nell’Assoluto compimento, nell’annichilimento della
dialettica, incasellamento categoriale utile per collocarsi poi,
senza dubbio, dalla parte dello status quo. Ciò che non ancora si è
realizzato, conseguentemente, ontologicamente non è, per costoro.
Come
nel caso dei cani di Ivan Petrovič Pavlov che studiò il
“condizionamento rispondente o classico” partendo
dall’osservazione e dallo sviluppo di ricerche scientifiche
inerenti il funzionamento fisiologico dei processi digestivi nei cani
attivati a partire dalla salivazione, così sembrano comportarsi
intellettualmente i difensori filo yankee dell’ordine mondiale.
Allo
stimolo - pace capitalistica mondiale - iniziano a vomitare sulla
storia, iniziano a temere il peggio per la “conservazione”
revocata in dubbio.
Pavlov
comprese come, secondo uno stimolo ambientale, venivano generate
risposte comportamentali riflesse e non precostituite, definite anche
come stimoli incondizionati, ossia non appresi in precedenza. Pavlov
comprese che uno stimolo era in grado di provocare una risposta
incondizionata e che quindi si poteva far apprendere al cane un
determinato comportamento se il suo sistema nervoso veniva sottoposto
più volte alla presenza dello stimolo.
La
Russia sul campo militare fa salivare tanti che non sono cani, ma
facilmente condizionati e al guinzaglio del gendarme capitalista
mondiale.
Sulla
tossicità del capitalismo globale contemporaneo - vera e propria
“officina della guerra” - e la retorica dei “pacifici”
pacifisti
La
franchezza e l’onestà intellettuale, in questi frangenti
drammatici ed apparentemente senza soluzione di continuità, sono
obbligatori per sottrarsi al mainstream media e per contribuire alla
presa di coscienza popolare delle contraddizioni sistemiche, grazie
alle quali si conosce davvero la reale posta in gioco, la rinnovata
configurazione del modello storico egemone che comporta la
Subsumption dei rapporti sociali alla struttura economica
internazionale.
La
contemporaneità è dominata dai mutamenti, spesso impetuosi che
discendono non solo da variabili contingenti (come è accaduto, ad
esempio, per la crisi pandemica), ma anche e soprattutto da fattori
strutturali. Tra questi ultimi, un posto di rilievo deve essere
riconosciuto ai modi di produzione di beni e servizi e correlata
riproduzione dei rapporti sociali, mediante anche interventi
innovativi (tecnologie digitali) in tutti gli ambiti in cui si
sviluppa l’esistenza umana: dal lavoro alla mobilità, dalla
cultura alle comunicazioni, dall’ambiente agli spazi urbani, dalla
pubblica amministrazione al gioco commerciale della “domanda” ed
“offerta” che riguarda anche lo stesso individuo umano
(forza-lavoro).
Si
dischiudono così, di fronte a noi, grandi scenari storici di
sviluppo materiale, forse indefinibile, ma non in grado di
affrontare i nodi della tutela ambientale, della giustizia sociale,
delle diseguaglianze e della qualità della vita nella dimensione
globale. Infatti, tale “sviluppo” è stato concepito ed imposto
attraverso un sistema articolato di funzioni ed operazioni che è
stato denominato “capitalismo”, oggi foriero
dell’interdipendenza economico-politica degli Stati surrogati
dalle aziende multinazionali.
Tuttavia,
la percezione comune - di chi non ha pregiudizi - del capitalismo
globale (attualmente, senza alternative) è quella di trovarsi in
un’epoca di crisi e di instabilità, a causa sia delle
implicazioni sociali dei cambiamenti economici e tecnologici a
svantaggio esponenzialmente più consistente delle classi
subalterne, sia delle profonde trasformazioni geopolitiche, indotte
dalla competizione per il dominio territoriale planetario, che
stanno disegnando nuovi scenari regionali e globali, all’interno
dei quali i Paesi capitalisti europei, subalterni agli U.S.A.,
rischiano di non intercettare le linee di tendenza.
La
sfida che attende l’umanità consiste perciò nel far convivere
nuove forme di gestione del potere (livello neoistituzionale) con la
fuoriuscita definitiva dal capitalismo (socializzazione delle
ricchezze) ben al di là degli ambiti trade-unionisti di giustizia
sociale, sperequata competitività per il benessere materiale e
graduale (!!! !! !) sostenibilità ambientale: solo uno sforzo di
comprensione delle origini, dell’evoluzione e delle conseguenze
determinate dai processi d’affermazione mondiale in atto del
capitalismo - molti dei quali ambivalenti, come del resto lo sono
tutti i processi umani, come, ad esempio, l’involucro
pseudodemocratico interclassista che sembra assolvere ogni aspetto
di sfruttamento ed asservimento mercantile alla logica del profitto
– potrà aiutarci a interpretare in profondità il presente e
insieme a immaginare scenari più inclusivi e irreversibilmente
diversi per l’avvenire di chi oggi non ha nelle proprie mani un
futuro, essendo espropriato della stessa possibilità di “leggere”
criticamente la realtà stessa che pur lo riguarda. È evidente che
la cosiddetta intelligencija è consistentemente interessata al
mantenimento dello status quo.
Pertanto,
le retoriche giaculatorie e i dogmi pacifisti o di chi si dichiara
“pacifico” (ma solo con chi la pensa in modo analogo …) usati
pubblicamente come lavacri coscienziali affermando improbabili
equazioni adialettiche (“essere contro Putin vuol dire essere GIÀ
contro la guerra, contro il bavaglio alla stampa, contro la
violenza, contro le deportazioni, contro l’eliminazione dei
dissidenti e in una parola contro il totalitarismo, toutcourt” …
!!!), menano vanto di errori teorico-politici e di pratiche
psicologicamente contorte e storico-socialmente inefficaci laddove
nulla dicono, al contempo, di quella particolare “officina della
guerra” che è stato ed è il capitalismo (novecentesco, in
particolare, ma anche post XX secolo, evidentemente …) anche
quando ha dichiarato la “pace” ad esso confacente e che,
indifferentemente, usa, per i suoi scopi di dominio sociale e di
garanzia di profitti, sia la leva dell’autoritarismo atroce che
quella della “democrazia reale”, che implica il continuo
vanificarsi, di generazione in generazione, di aspettative di
benessere, che provoca sentimenti di disorientamento e impotenza
popolari, che genera bisogni per alcune classi impossibili da essere
soddisfatti, che alimenta pulsioni egolatriche e aggressive, che
torna ad indicare il “male assoluto” negli avversari
competitori, trovando nelle campagne mediatiche e nella censura gli
strumenti idonei per non far capire la tossicità del capitalismo
globale contemporaneo.
Ebbene,
costoro, in buona o cattiva fede, di fatto lavorano per perpetuare
il museale sistema dell’esperienza capitalistica universale. La
battaglia delle idee e del riscatto sociale non può essere
lasciata sguarnita e va smontato ogni tentativo di connivente
inferiorizzazione delle classi subalterne da parte degli agenti
ideologici del capitale.
Per
una società senza capitalismo, per una “democrazia” senza
parlamento (scritto
nell'Aprile 2013)
Il
concetto di “democrazia” tout court, dal greco δῆμος
(démos, popolo) e κράτος (cràtos, potere), che
etimologicamente significa “governo del popolo”, non solo di
“democrazia diretta”, consiste in una negazione ed in una
affermazione: la negazione che il “potere” possa essere delegato
e l'affermazione che le “masse” (popolari, operaie, studentesche)
possano esercitarlo in quanto organizzata in forme assembleari ove la
partecipazione di tutte e tutti sia la fisiologia istituzionale di
uno Stato sedicente democratico.
Il
concetto di democrazia sembra dunque in primo luogo attenere all'idea
non tanto della “titolarità”, quanto dell'“esercizio del
potere”. Infatti, alla sua base è la convinzione che l'esercizio
non possa essere separato dalla titolarità; quando ciò avviene –
l'esercizio delegato - la titolarità viene meno, mistificata e/o
sublimata nella mera ritualità della “rappresentanza” e
riconfigurata come esproprio della potestà popolare circa le
decisioni politiche orientate ai “beni comuni”. Inoltre,
approfondendo la riflessione risulta evidente come “democrazia”
contine in sé un concetto specifico della titolarità del potere –
specificità non solo indotta dall'indissolubile nesso fra titolarità
ed esercizio – che deriva dall'intensità della definizione della
qualità democratica del “corpo sovrano”. Questa qualità
specifica, positiva, del corpo sovrano che allude ad un potere
creativo della comunità come tale, si rintraccia in forma
primordiale, tipicizzando l'evo moderno (città svizzere o scozzesi
della prima Riforma), nella forma sacrale nel quale il potere
dell'assemblea è raffigurato nel pensiero delle sette protestanti.
Successivamente, la concezione illuministica rousseauiana chiarisce
sul piano teorico la distinzione fra “volontà generale” e
“volontà di tutti”, laddove la negazione della rappresentanza si
traduce positivamente nella manifestazione della interiore qualità
politica della volontà generale, del suo modo di esprimersi. Della
“volontà di tutti”, d'altra parte, non è tanto caratteristica
la “rappresentanza”, quanto la precarietà del suo costituirsi,
essendo il “corpo sovrano” cui la volontà di tutti fa
riferimento, interiormente scisso e atomisticamente disgregato.
Nei
paesi capitalistici occidentali ben presto il potenziale eversivo
delle istituzioni statuali moderne che la “democrazia” contiene,
è isolato, contrastato, sterilizzato. Questo non pare tanto derivare
dalla forza di antichi regimi in via di irreversibile sfaldamento,
quanto dalla stessa crisi interna della borghesia al potere la quale,
dopo aver misurato gli effetti mobilitativi dell'esercizio
democratico (da questo punto di vista, l'originario impatto
antagonistico del cosiddetto “quarto stato” e le stesse modalità
di produzione industriale che fornivano identità politico-culturale
al “proletariato”, sono state emblematici) e l'eterogenesi dei
fini da questa mobilitazione storica determinata, ne rifiuta, con le
conseguenze di apprezzare la “variabile dittatura”, l'esperienza
stessa. Solo nei primi decenni del Novecento, la natura della
“democrazia storica” (realizzata dalla borghesia al potere), si
chiarisce definitivamente. Lenin, in “Stato e rivoluzione”
(scritto nell'agosto-settembre 1917, pubblicato per la prima volta in
opuscolo nello stesso anno), scrive: «La società capitalistica,
considerata nelle sue condizioni di sviluppo piú favorevoli, ci
offre nella repubblica democratica una democrazia piú o meno
completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto
quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo,
una democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i
soli ricchi La libertà, nella società capitalistica, rimane sempre,
approssimativamente quella che fu nelle repubbliche dell'antica
Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi.
Gli
odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento capitalistico,
sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che “hanno ben
altro pel capo che la democrazia”, “che la politica”, sicché,
nel corso ordinano e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della
popolazione si trova tagliata fuori dalla vita politica e sociale.
Democrazia per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: è
questa la democrazia della società capitalistica. Se osserviamo piú
da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, dovunque e
sempre - sia nei “minuti”, nei pretesi minuti particolari della
legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle donne,
ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia
negli ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione
(gli edifici pubblici non sono per i “poveri”!), sia
nell'organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana,
ecc. vedremo restrizioni su restrizioni al democratismo. Queste
restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri,
sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il
bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita
delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i
novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici
borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla
politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia.
Marx
afferrò perfettamente questo tratto essenziale della democrazia
capitalistica, quando, nella sua analisi della esperienza della
Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni
qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li
rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!». Ciò nondimeno, il
concetto di democrazia vive nella storia del pensiero politico
borghese e, soprattutto, nelle vicende della lotta tra le classi,
come tentazione nel controllo sociale, come ideale contrabbandato
come risolutivo, se realizzato, delle contraddizioni sociali, come
nostalgia dell'età periclea (460 – 429 a. C.), vagheggiamento
restaurativo della polis considerata esempio di democrazia radicale
dimenticando che essa prevedeva, nel corpo sociale, la presenza di
schiavi.
L'ideale
democratico diviene momento insopprimibile dell'ideologia
“progressista” borghese e, nella sua apparizione negli
ordinamenti concreti fino ai giorni attuali, universo di riferimento,
unico ed indiscutibile, della conflittualità sociale e
dell'esercizio del potere, forzosamente traslando dalla
“partecipazione” alla “rappresentanza”. Le “costituzioni
liberali” negano totalmente la determinatezza progressista della
democrazia, come già Karl Marx, in Le lotte di classe in Francia dal
1848 al 1850, ne denunciava la tendenza e preventivamente ne
sollecitava l'antidoto. Di fronte alle nuove esigenze di controllo
che la “democrazia di massa” nell'epoca capitalistica
dell'industrializzazione matura propone, di fronte alle minacce
rivoluzionarie che le nuove forze proletarie (transitando dal
trade-unonismo all'organizzazione politica) esprimono, il
costituzionalismo borghese gioca la carta della retorica
democraticista recependo alcuni dettami del cosiddetto “governo del
popolo”. Tali sono istituti come il referendum o la concessione
dell'iniziativa popolare in materia di proposta di legge (per
esempio, nella Costituzione di Weimar ed in quella italiana), di
fatto sottoposti a limiti sostanziali e praticamente inefficaci. In
altri termini, le esigenze di concentrazione del potere hanno avuto
la meglio su ogni ipotesi di reale dialettica democratica tra le
classi, finendo con il funzionalizzare strumenti ed istituti della
democrazia alla conservazione del potere da parte delle elite
capitalistico-borghesi ed alla repressione dell'autonomia di classe e
delle iniziative dei gruppi sociali esclusi anche dalle forme di
rappresentanza istituzionale.
È
ancora Lenin che, con lucidità, chiarisce: «Gli Scheidemann e i
Kautsky parlano di "democrazia pura" o di "democrazia"
in generale per ingannare le masse e per nascondere loro il carattere
borghese della democrazia attuale. Continui la borghesia a detenere
nelle sue mani tutto l'apparato del potere statale, continui un pugno
di sfruttatori a servirsi della vecchia macchina statale borghese! Va
da sé che la borghesia si compiace di definire "libere",
"eguali", "democratiche", "universali"
le elezioni effettuate in queste condizioni, poiché tali parole
servono a nascondere la verità, servono a occultare il fatto che la
proprietà dei mezzi di produzione e il potere politico rimangono
nelle mani degli sfruttatori e che è quindi impossibile parlare di
effettiva libertà, di effettiva eguaglianza per gli sfruttati, cioè
per la stragrande maggioranza della popolazione. Per la borghesia è
vantaggioso e necessario nascondere al popolo il carattere borghese
della democrazia attuale, presentare questa democrazia come una
democrazia in generale o come una "democrazia pura", e gli
Scheidemann, nonché i Kautsky, ripetendo queste cose, abbandonano di
fatto le posizioni del proletariato e si schierano con la borghesia.»
(brano tratto da Democrazia e dittatura, scritto a Mosca il 23
dicembre 1918 e pubblicato sulla Pravda n° 2 del 3 gennaio 1919).
Profondaemente innovata dalla prassi rivoluzionaria operaia
(l'esperienza sovietica), la “democrazia” diventa strumento di
riappropriazione, da parte delle masse sfruttate, della proprietà
dei mezzi di produzione e – contestualmente - della sovrastruttura
politica istituzionale che ne amministra le risorse, relegando sullo
sfondo della conflittualità antagonistico-duale capitale-lavoro la
negazione del formalismo borghese della rappresentanza comunque
“soggettivamente” espressa che tanti danni ha procurato e
continua a procurare al proletariato.
È
nella prassi rivoluzionaria, dalla Comune del 1871 all'insorgenza
europea del “movimento dei Consigli”, identificabile
sostanzialmente con la rivoluzione sovietica del 1917, che si apre un
orizzonte concreto per fuoriuscire dalle nocive logiche
democratico-borghesi, presidio politico-culturale posto a
salvaguardia della vigente gerarchia sociale che intende determinrea
subalternità epocali. I Soviet russi, i Ràte tedeschi, i Consigli
italiani, gli shop stewards inglesi sono realtà di un'unica
sostanza: il “governo del popolo”. Controllo dei lavoratori sulle
attività produttive e sulla vita politico-sociale, incarichi su base
di mandato e revocabilità dello stesso sono i perni intorno ai quali
ruota la partecipazione proletaria responsabile e la necessità della
costruzione della base materiale del comunismo consentendo un
corretto ed inedito rapporto fra funzione delle avanguardie e
controllo di massa delle medesime. La “dittatura del proletariato”
è la inevitabile forma transitoria di gestione del potere – la cui
direzione politica è affidata al partito - utile per porre le basi
sistemiche della sconfitta storica del capitalismo.
Per
Lenin, infatti, «1. Lo sviluppo del movimento rivoluzionario del
proletariato in tutti i paesi ha suscitato gli sforzi convulsi della
borghesia e dei suoi agenti nelle organizzazioni operaie al fine di
trovare gli argomenti politici e ideologici per difendere il dominio
degli sfruttatori. Tra questi argomenti vengono messi in particolare
rilievo la condanna della dittatura e la difesa della democrazia. La
falsità e l'ipocrisia di quest'argomentazione, ripetuta in tutti i
toni sulla stampa capitalistica e alla conferenza dell'Internazionale
gialla, tenutasi a Berna nel febbraio 1919, sono evidenti per
chiunque non voglia tradire i postulati fondamentali del socialismo.
2. Prima di tutto, in quest'argomentazione, si opera con i concetti
di "democrazia in generale" e di "dittatura in
generale", senza che ci si domandi di quale classe si tratta.
Impostare così il problema, al di fuori o al di sopra delle classi,
come si trattasse di tutto il popolo, significa semplicemente
prendersi giuoco della dottrina fondamentale del socialismo, cioè
appunto della dottrina della lotta di classe, che viene riconosciuta
a parole ma dimenticata nei fatti da quei socialisti che sono passati
alla borghesia. In effetti, in nessun paese civile capitalistico
esiste la "democrazia in generale", ma esiste soltanto la
democrazia borghese, e la dittatura di cui si parla non è la
"dittatura in generale", ma la dittatura della classe
oppressa, cioè del proletariato, sugli oppressori e sugli
sfruttatori, cioè sulla borghesia, allo scopo di spezzare la
resistenza che gli sfruttatori oppongono nella lotta per il loro
dominio. 3. La storia insegna che nessuna classe oppressa è mai
giunta e ha potuto accedere al dominio senza attraversare un periodo
di dittatura, cioè di conquista del potere politico e di repressione
violenta della resistenza più furiosa, più disperata, che non
arretra dinanzi a nessun delitto, quale è quella che hanno sempre
opposto gli sfruttatori. La borghesia, il cui dominio è difeso oggi
dai socialisti che si scagliano contro la "dittatura in
generale" e si fanno in quattro per esaltare la "democrazia
in generale", ha conquistato il potere nei paesi progrediti a
prezzo di una serie di insurrezioni e guerre civili, con la
repressione violenta dei re, dei feudatari, dei proprietari di
schiavi e dei loro tentativi di restaurazione. I socialisti di tutti
i paesi, nei loro libri e opuscoli, nelle risoluzioni dei loro
congressi, nei loro discorsi d'agitazione, hanno illustrato al popolo
migliaia e milioni di volte il carattere di classe di queste
rivoluzioni borghesi, di questa dittatura borghese. E pertanto,
quando oggi si difende la democrazia borghese con discorsi sulla
"democrazia in generale", quando oggi si grida e si
strepita contro la dittatura del proletariato fingendo di gridare
contro la "dittatura in generale", non si fa che tradire il
socialismo, passare di fatto alla borghesia, negare al proletariato
il diritto alla propria rivoluzione proletaria, difendere il
riformismo borghese nel momento storico in cui esso è fallito in
tutto il mondo e la guerra ha creato una situazione rivoluzionaria»
(brano tratto da Lenin, Tesi e rapporto sulla democrazia borghese e
sulla dittatura del proletariato, 6 marzo 1919, Opere complete, vol.
28, pagg. 461-462).
Lo
scenario della “democrazia reale” va indagato
Da
alcuni anni sto conducendo una ricerca sulla “democrazia reale”.
Il conflitto economico, politico e militare oggi in corso, a livello
globale, sulla poderosa spinta espansiva del mercato capitalista a
livello internazionale, venuto meno (alla fine degli anni ‘80 del
Novecento) il modello cosiddetto “collettivista” di produzione e
riproduzione sociale, si riverbera sulle dinamiche interne ai singoli
Stati ed aggregati statuali (ad esempio, l’UE) e, ulteriormente,
tra le forme organizzate della “rappresentanza” (partiti e
sindacali). In altri termini, il conflitto di natura strategica al
quale s’assiste, è oggi definibile come palese manifestazione
della contraddizione tra “democrazia reale” e democrazia
sostanziale, tra pragmatismo populista ed amministrazione
tecnocratica delle risorse e bilancio partecipato. In sintesi, la
“democrazia reale”, ad oltre 75 anni dal termine della seconda
guerra mondiale, ha costretto i popoli ad una subalternità
mascherata da libertà tout court, essendo quest’ultima, viceversa,
“libertà capitalistico-borghese” storicamente determinata in una
fisionomia che velleitariamente, ma con successo evidente, si è
imposta nell’immaginario di massa, anche grazie a partiti,
sindacati, apparati del controllo sociale, mainstream media,
come la “naturale”, indiscussa ed insuperabile forma di
convivenza civile e di mediazione dei rapporti sociali. In questa
“trappola” interpretativa sono caduti anche insigni “analisti”,
generando un’inarrestabile deriva di fraintendimenti, di congetture
e di superficiale ermeneutica.
Nel
corso del tempo, l’opera di omologazione socio-culturale e di
coazione politica alla “integrazione subalterna”, soprattutto
proletaria, al comando capitalistico-borghese, ha fatto sì che si
espropriasse la soggettività antagonista del potenziale
teorico-politico rivoluzionario, della capacità
politico-organizzativa d’esprimere un’autonoma “visione” del
conflitto sociale e di consentire all’avanguardia cosciente di
guidare la lotta di classe oltre le logiche concertative e miserrime
del trade-unionismo, del rivendicazionismo economico-normativo e
della difesa del Welfare “concessivo”.
Di
fronte allo stato delle cose presenti, che vede i neofascisti -
dentro e fuori dal Parlamento - inclusi nelle ritualità
“democratiche” (in forza di lontane decisioni legate alla mancata
epurazione e condanna penale dei fascisti sopravvissuti al crollo del
regime ed alle armi della Resistenza), non può che essere revocata
in dubbio una pseudodemocrazia “liberale”, per dirla alla
Montesquieu, in quanto involucro politico, in quanto dimensione
sovrastrutturale del comando capitalista che riesce ancora,
mistificando i dati di fatto, a combinare il principio della evocata
(retoricamente) “sovranità popolare” con la tutela degli
esclusivi diritti liberali di chi detiene il potere economico,
piuttosto che quello legislativo (attualmente al servizio del primo)
con la persistente divisione gerarchica delle classi. In una
“democrazia reale” di tal fatta, libertà economica e libertà
politica sono inscindibilmente connessi alla subordinazione economica
delle classi; logorandosi e cedendo quest’assetto “naturalizzato”
dei rapporti sociali subalterni, verranno a mancare l’una e l’altra
“libertà” e si potrà aprire un’epoca di radicale
trasformazione sociale ispirata a quanto realizzato, in modo
alternativo alla “democrazia reale”, dal 1917 al 1924 in Russia,
nell’ambito di un modello di democrazia sociale, come transizione
al comunismo. Nuove istituzionalità popolari sono, dunque,
storicamente possibili.
Ecco,
in breve, la “trama” della mia argomentazione. Il ragionamento
che desidero condividere necessita di una occasione di confronto
pubblico, onesto e rigoroso, e di un editore coraggioso che mi
consenta di pubblicare un lavoro di ricerca interdisciplinare,
documentato, che vede privilegiare il linguaggio della filosofia
politica, della critica dell’economia politica e della sociologia.
Per
rispondere alla domanda cruciale: Democrazia, che cos’è ? La
parola “democrazia” è una delle più abusate da politici,
giornalisti, studiosi e nelle discussioni pubbliche. La si utilizza
con tale frequenza e spesso a sproposito al punto da alimentare il
“ragionevole” dubbio che sia assente un significato comune cui il
termine possa far riferimento. Basti ricordare che democratiche si
definivano le Repubbliche socialiste dell’est europeo così come
quelle dell’Occidente liberale. Oggi nessuno si proclama
“antidemocratico”. È questo il punto. Nemmeno i fascisti.
Un’ambivalenza semantica del termine che si attua nelle più
contraddittorie, disparate forme storico-sociali, mai accompagnate da
capacità critica, tantomeno da volontà di verifica di quel perverso
intreccio tra struttura economico-produttiva e sovrastrutture
politico-istituzionali delle società sedicenti “democratiche”.
Non
possiamo però rassegnarci a un uso strumentale del termine e a una
conclusione meramente scettica come se la democrazia fosse
semplicemente un “nome” dietro cui si nasconde una molteplicità
di sistemi politici molto differenti tra loro. È bene dunque
iniziare con alcune precisazioni per delimitare il significato del
termine “democrazia” aggiungendo al sostantivo - di necessità,
per meglio avvicinarsi all’oggetto di indagine - l’aggettivo
“reale”, in modo tale da non essere portati a concepire la
“democrazia”, come condizione naturale della vita associata, una
“categoria”, un concetto astratto inteso ed utilizzato come
“misura” di rapporti sociali che palesemente ne contraddicono la
rappresentazione teorica.
Grazie
a tutti coloro che vorranno sostenermi e dialogare su questi temi.
Conclusioni,
provvisorie, sulle “verità”
Sulla
“verità” - αλήϑεια - poco si può dire di “vero”.
Sulle “verità”, “a kontràrio”, molto si può discorrere.
Nella
storia il concetto di verità è stato concepito in almeno due
diverse prospettive, l’una ontologica, l’altra strettamente
connessa al discorso umano. Nella prospettiva ontologica la verità è
considerata come una proprietà intrinseca dell’essere. Nell’altra
prospettiva, che è decisamente la più influente, il concetto di
verità è stato variamente elaborato e le analisi vertenti su esso
devono essere suddivise in due categorie, a seconda che intendano
fornire una definizione o un criterio di verità. La ricerca di un
criterio di verità è parte integrante del problema gnoseologico,
cioè di quale tipo di evidenza (sensibile, intellettiva, induttiva,
deduttiva) possa costituire la garanzia di un’autentica conoscenza.
Tuttavia,
sulla scia dello svolgimento della contrapposizione αλήϑεια /
δόξα, risulta possibile dare un significato autentico all’idea
del «non-nascondimento», se la concepiamo, esercitiamo ed operiamo
considerandola unicamente “al plurale”. In tale considerazione
delle “verità” entrano di diritto la vita, la storia, la
multiforme e multidimensionale realtà, il materialistico e
progressive disvelamento che si attua nell’esistenza autentica.
Le
“verità” sono (lo sono sempre per esser “vere”)
“partigiane”.
Un
sistema madrepòrico di conoscenze inter-transdisplinari è oggi
indispensabile per comprendere la fenomenologia sociale.
Tale
sistema non è dato a tutti padroneggiare.
Prof.
Giovanni Dursi
Docente
M. I. di Filosofia e Scienze umane