Ironia
e realtà nei libri di Sepúlveda
In una intervista, Luis Sepúlveda dichiarava di considerarsi “scrittore di stampo cervantino, un ‘nipotino’ del grande Cervantes, colui che più di chiunque altro è stato un maestro nell’uso dello strumento dell’ironia, un’ironia intelligente e sensibile, al contrario del sarcasmo - che è sempre vigliacco e offensivo” 1.
Il
ridondante ricordo pubblico di questi questi giorni e la
sovrabbondanza di “conoscitori” dell'opera sepúlvediana,
dopo la sua morte, fa capire che dell'ironia c'è bisogno.
A
proposito di Luis Sepúlveda Calfucura, scrittore, giornalista,
sceneggiatore, poeta, regista e attivista cileno naturalizzato
francese, analizzando tutti gli scritti - effettivamente letti -
dello scrittore e passando in rassegna certa pubblicistica minore
(stampa, aneddotica divulgata radio-televisivamente, post sui
social network), risulta che di parte della produzione
letteraria, artistica, testimoniale e del repertorio di interventi ed
interviste, espressione nel corso degli anni della biografia
sepúlvediana, della violenza subita, dell’orientamento
rivoluzionario, della lotta anti-sistema, della sua militanza per le
libertà, delle sue idee e dei suoi comportamenti, non c’è
traccia.
Forse,
in queste pittoresche circostanze, Luis,
spettatore del tramestio intorno al suo trapasso, avrebbe abbandonato
la pura ironia di cui è stato capace, per usare un “sano”
sarcasmo.
É
l'ironia, invero, il notevole lascito socio-culturale di Luis,
un metodo corrosivo di lettura veritiera della realtà umana che
conduce sovente a rilevare l'infondatezza di certi stereotipi sulle
differenze, sulle discriminazioni e sui confini che, separando,
escludono; ironia che permette di rintracciare il carattere di mera
opinione, subdola ed interessata, spacciata per conoscenza, del
caratteristico linguaggio del potere e delle élite.
Inoltre, l'ironia è anche la chiave per entrare nel suo universo
creativo ed emotivo che aiuta, husserlianamente2,
a Wirwollen
auf die “Sachen selbst” zuŗcückgehen
!
Luis
non vuole affatto accontentarsi di pure e semplici parole, pur
cesellate ad arte, perché la scrittura è vita, perché la vita
“parla”, basta saperla ascoltare, saperla interrogare. La sua
narrazione
non s'avvale di intuizioni indirette, d'una potente architettura
razionale all'uopo dispiegata, non è perizia da sceneggiatore, tanto
meno fantasia obbligatoriamente illogica, viceversa è un prezioso
voler
tornare “alle cose stesse”,
un lavoro, antropologico prima che letterario, di riduzione eidetica,
ovvero un sublime comunicare – ossia, nobile umana commistione di
abnegazione “nello scavo” e fervore solidaristico – attrezzato
nel “dire” generoso. Si tratta del suo genuino rappresentare con
la scrittura il passaggio dalla considerazione cronachistica delle
vicende come tali alla loro essenza
nel vissuto personale e sociale che le coglie incastonandole e
collocandole abilmente nella memoria.
In
un altro passo dell'intervista richiamata, Sepúlveda
afferma: “Io
cerco di scrivere dal punto di vista di una sana ironia fatta di amor
e umor. In più sono cileno, e devo dire che una particolarità
dell’uomo cileno è quella di ironizzare sempre soprattutto su se
stesso - a differenza degli argentini. Se un argentino viene lasciato
dalla moglie cercherà subito uno psicanalista e al massimo scriverà
un tango tristissimo, un cileno invece darà una festa per gli amici
per raccontare, trasformare l’abbandono cercando delle spiegazioni
e ridere anche di questo. Negli anni del carcere, che vi assicuro
sono stati molto duri, non ci trattavano bene, ci torturavano e una
delle torture più comuni era quella di strapparci le unghie dei
piedi, ma anche lì quando tornavamo alle nostre celle con i piedi
sanguinanti e dolenti non era raro sentire qualcuno che diceva “Sono
stato dal podologo stamani, una vera bestia, ma non gli ho certo
lasciato la mancia!” [ … ] “I romanzi non vengono scritti
dall’autore ma dai personaggi, lo scrittore si limita a seguirli
nel loro percorso”.
La
“trilogia dell'amicizia” della quale “Gabbianella” fa parte
assieme a “Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della
lentezza” (Ugo Guanda Editore, 2013) e “Storia di un cane che
insegnò a un bambino la fedeltà” (Ugo Guanda Editore, 2015) è
una delle espressioni migliori di intima connessione tra scrittura
e vita, di una concezione dell'arte del raccontare storie come
atti umani perché politici, mai evasione consolatrice o alienante,
d'una determinata ed autorevole convinzione di voler tornare alle
cose stesse, di un impegno
etico nello spronare il genere umano a fornire una migliore prova di
sé.
In
particolare, nell'emblematico libro “Storia
di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” (Salani
Editore, 1996) Luis narra l'inverosimile
favolistico,
ma con una inusitatamente efficace aderenza
alla realtà.
È l'altrove che descrive, eppure è dell'immanenza che sa trattare
perché svela
l'oggettiva valenza della diversità
palesandola come utopia,
come qualcosa che non è stato ancora compiutamente apprezzato,
presentando una fratellanza da realizzare ancora, tuttavia presente,
constatabile, quindi possibile e che può germogliare grazie alla
“coscienza”, alla forza dei proponimenti soggettivi, alla messa
in valore dell'ardimento individuale e all'affezione personale per
l'altro di cui ciascuno è ricco.
Ecco,
l'assenza dell'empirico che nasconde il “senso”, del quotidiano
algoritmico accadere, del banale prevedibile, evoca energicamente un
desiderio, mai fuga dalla realtà, che ha le sembianze della
manipolazione benefica dell'argilla; esattamente come quel vero e
proprio imprinting esistenziale che contraddistingue
l'infanzia, quell'operare con le mani che i bambini iniziano
molto presto, come forma di conoscenza degli oggetti: da sempre al
centro dell’interesse e della loro curiosità, costituisce uno
strumento, per maturare identità, autonomia e autentica conoscenza,
che pare smarrirsi con la “adultità” e che Luis recupera e
indelebilmente dona ai lettori come prescrizione non autoritaria.
A
questo proposito, la trama va ricordata, perché la metafora
scuote ancora.
Il libro s'apre con l'impeto
di Kengah, una gabbiana che cerca pesce per nutrirsi
nel mare del Nord ricco di giacimenti di petrolio e di gas naturale,
mentre penetra le onde. Lasciata sola nell'impresa dallo stormo che
s'allontana, riemersa dai flutti, scopre
d'essere impedita nel volo da una chiazza di petrolio che rischia di
tarpargli le ali penetrando nella pelle.
A fatica, con il greggio addosso, ascende verso il cielo e giunge ad
Amburgo,
precipitando tramortita su
un
balcone di una casa.
Qui
Kengah incontra Zorba, un gatto,
esemplare d'una specie dissimile di cui non diffida, a
cui lei lascia in custodia, al culmine estremo d'una lucidità che
sta per perdere, l’uovo che depone.
La gabbiana, perdendo le forze strappa una promessa al gatto:
maturare l’uovo, prendersi cura del nascituro e di insegnargli a
volare. Il
gatto si rende conto della follia dell'ultima esigenza dichiarata
dalla gabbiana morente; certo, può tentare l'accudimento e avere
successo nell'occuparsi del pulcino,
può essere un riferimento nella sua vita, ma,
senza dubbio, non sa insegnargli a volare,
visto che è un gatto e non ha idea di come si faccia.
Zorba
capisce che la gabbiana sta per morire e delira, ma
quella che sembrava una richiesta impossibile da esaudire,
pazientemente comprendendola, pare potersi realizzare. Il gatto,
avvalendosi dei suoi amici
Diderot, Colonnello e Segretario, tutti strambi personaggi, con
dedizione e inclinazione sentimentale, riesce nell'impresa
prendendosi cura di Fortuna, la piccola gabbianella, “come se fosse
uno di loro, una loro figlia”. Tuttavia, resta l'ardua esperienza
dell'insegnargli a volare. Per
quanti sforzi facciano, Zorba e i suoi amici da soli non riescono a
far spiccare il volo alla gabbianella,
hanno bisogno di qualcuno che sia in grado di dargli una mano. A
questo punto i gatti sono
costretti a rompere
un tabù
e a parlare in una lingua diversa dalla loro, vanno così a chiedere
aiuto all’unico individuo che pensano sia in grado di far mantenere
la promessa: un uomo,
un poeta dall’animo nobile e sensibile che
riesce a comprendere la loro richiesta. Luis,
riesce a porre l’accento sul doppio volto dell’uomo, che oltre a
essere il responsabile dell’inquinamento dei mari, è in grado di
fornire il suo aiuto e cambiare le cose, mostrando la sua parte
sensibile e il suo rapporto simbiotico con l’ambiente circostante
(rif.
a Rossella Caso, Tra
gatti e gabbiani. Un incontro tra infanzia e intercultura,
Aracne, 2013; saggio incentrato sulla lettura pedagogica della favola
di Luis Sepúlveda).
Questo
è solo un aspetto della storia,
poiché nel libro sono tanti i protagonisti e tante le contraddizioni
che costringono ad intessere
legami,
a costruire rapporti che si susseguono, primo tra i quali quello
della scoperta della diversità
e della necessità di trovare un punto comune che riesca ad
avvicinare (rif.
a Rossella Caso, op. cit.),
partendo dalla problematica esercitazione della comunicazione e della
condivisione. Un vero e proprio “festeggiare le differenze”, come
accade talvolta nella vita sociale, come dovrebbe accadere sempre
nella scuola pubblica alla quale bambini e adolescenti vengono
affidati. Il messaggio, apparentemente onirico, bensì utopistico,
veicola, facendo breccia, la categoria del “possibile”. L'opera
di Luis agisce come specchio rivelando l'indole di ciascuno, lo
spessore morale, la capacità di accantonare l'ego
per far posto al “noi”.
Tanti
piccoli gabbiani nelle nostre scuole (rif.
a Rossella Caso, op. cit), una realtà incontestabile, un'evenienza
che fa comprendere che ogni relazione, ogni convivenza è sempre
un incontro interculturale, un'amalgama tra diversi.
Ci
si deve chiedere: i nuclei familiari e la scuola sono pronti a
collaborare e ad accogliere la “diversità” come un'opportunità
antropologica ? Non sempre di questo compito si è tutti consapevoli;
le forme ed espressioni della relazione tra diversi non è
impostata, in modo scontato, per attuare l'inclusione.
La
“cura” degli studenti che le figure genitoriali ritengono debba
essere svolta dagli insegnanti a volte non corrisponde alle
intenzioni dell'integrazione solidale. Gli insegnanti educano alla
libertà ed alla responsabilità, altri disfano la tela
policromatica. La scuola pubblica, costituzionalmente orientata e
improntata ad un un principio etico interculturale, spesso viene
smentita, nel suo operato, da altre più influenti agenzie
diseducative.
Che
si renda evidente grazie allo scotimento di Luis, senza ipocrisie o
cedendo al fascino delle rimozioni, questo dato di fatto: la scuola
pubblica è e deve continuare ad essere un ambiente interculturale -
che va salvaguardato per quello che è - nel quale gli stereotipi,
quasi come piante velenose, non devono mettere radici, strutturando
percorsi di incontro e sviluppando il pensiero divergente. Il romanzo
di Sepúlveda,
classico
della letteratura non solo per l’infanzia, racchiude una
straordinaria visione della “civiltà”, dai toni tenui,
struggenti, ma anche vigorosi; abbiamo tra le mani un capolavoro che
rende protagonista il lettore sospingendolo a riflettere e ad agire
inglobando esigenze culturali ed etiche, a partire dai binomi di
notevole rilevanza quali identità/alterità, noi/loro,
accoglienza/rifiuto (rif.
a Rossella Caso, op. cit).
La gabbiana morente è il mondo adulto, i gatti sono l'équipe
educante protesa nell'attività di insegnamento, la gabbianella
rappresenta la generazione prossima, esito e causa, all'unisono, dei
miglioramenti a portata di mano.
Un
testo così polisemico e immaginifico che, come nella migliore
tradizione delle fiabe, si apre per regalarci un ventaglio di
significati sui quali poter ampiamente rappresentare prioritariamente
quelli smarriti e discutere poi come poterli recuperare.
Pertanto,
così Kengah diventa paradigma di ogni migrante che — come
tragicamente sappiamo — non riesce a realizzare il suo desiderio e
trova la morte in circostanze avverse. L'altro interpellato e che
interviene nella vita però offre una seconda opportunità:
la gabbiana assegna agli altri il dono di un modo inedito e migliore
di convivere fra diversi. La condizione di orfanezza della
gabbianella che si crede un gatto; la società felina che si
interroga su questa strana creatura ma non la discrimina, anzi la
protegge e la guida; i cattivi topi che guardano con altezzosità e
intolleranza ciò che i gatti stanno facendo: un microcosmo che
replica simbolicamente ciò che accade nel mondo, le cui dinamiche
evidenziano la difficoltà del confronto, del dialogo e
dell’integrazione. Dunque un libro che può essere proficuamente —
e, aggiungiamo, gioiosamente — usato per insegnare a pensare ai
nostri figli e alunni in maniera critica e intelligente, a riflettere
proiettando sentimenti ed emozioni in un mondo distante che tuttavia
è vicino all’immaginario dei meno “educati”, i più giovani
(rif. a Rossella Caso, op. cit).
Luis,
in definitiva, esorta alla collaborazione nell'abbattere i muri.
Collaborazione innanzitutto tra chi elabora pedagogicamente per
mestiere l'inclusione, progetta la formazione posta nella concreta
prassi della vita scolastica di ogni giorno e coloro che dovranno
accogliere i frutti di tale prezioso lavoro.
Il
lascito socio-culturale, di cui all'inizio, può essere riassunto in
questa massima, nota allo scrittore cileno al quale siamo grati:
“Ognuno secondo le sue capacità,
a ognuno secondo i suoi bisogni”. Questa
frase, resa celebre da Karl Marx, è in realtà presa dagli Atti
degli apostoli (cfr. At 4, 35).
È
Luis stesso a dircelo dando la parola alla vita, rispondendo alla
domanda circa il ruolo della produzione letteraria (Intervista a Luis
Sepúlveda di Elena Torre, cit. in nota) ed alludendo all'impegno
nella costruzione di reti interculturali contro tutte le forme di
oppressione, di colonizzazione e di razzismo: “La letteratura ha
una missione etica o serve solo a raccontare storie ?” “Credo
innanzitutto che uno scrittore debba narrare non da un punto di vista
individuale ma collettivo: deve avere come punto di partenza un
generoso ‘noi’. L’opera di uno scrittore trova la sua più
profonda giustificazione etica non tanto nelle cose grandi, ma in
quelle piccole nella forma e grandi nel contenuto. Qualche anno fa
uscivo da una libreria di Parigi e venni avvicinato da un ragazzo che
avrà avuto vent’anni. Mi disse che aveva letto Un
nome da torero,
forse uno dei miei romanzi dove ho messo più di me stesso. Mi chiese
se avevo un minuto da dedicargli e dal momento che ce l’avevo siamo
andati a prendere un caffè. Vedevo che era molto emozionato, non
riusciva a parlare così l’ho spronato a farlo. Mi ha raccontato di
essere il figlio di Perez, massimo dirigente del Mir, ucciso dalla
dittatura. Mi ha raccontato dell’odio che provava per suo padre
perché era sempre assente, perché non lo accompagnava alle partite
di calcio, non lo andava a prendere a scuola come tutti i suoi
compagni. Leggendo il mio libro aveva capito chi fosse stato
realmente suo padre e per cosa si era battuto, per cosa era morto. E
allora non solo aveva capito, ma lo aveva amato, rispettato e di lui
era divenuto orgoglioso. Ho realizzato proprio in quel momento la
carica etica profonda della letteratura, un dovere a cui non posso
certo sottrarmi”.
Giovanni Dursi © Aprile 2020
Docente M. P. I. di Filosofia e Scienze umane
1
Intervista a Luis Sepúlveda di Elena Torre,
http://www.mangialibri.com/.
2
Si
utilizzano le opere di E. Husserl in traduzione italiana, in questo
caso con riferimenti alle edizioni della
Husserliana.
La traduzione italiana di Ricerche
logiche
è di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, 19823,
vol. I,p. 267.