menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

giovedì 2 novembre 2023

L'umanità “canina” secondo Luc Besson

Con “Dogman”, nelle sale dal 12 Ottobre 2023, Luc Besson, il regista, sceneggiatore e produttore nato a Parigi nel 1959, ci consegna un'opera stilisticamente perfetta per quanto riguarda il ritmo narrativo, lo scavo psicologico dei principali protagonisti delle vicende rappresentate, una descrizione della pessima qualità etica rintracciabile in alcuni microcosmi umani della società contemporanea,  i chiari riferimenti alla “banalità del male” [[1]] declinato come vendetta per soprusi subìti, laddove si perde la misura umana di razionalità che può consentire di mandare avanti forme civili, dignitose di convivenza, quindi il film è ampiamente fruibile.


Tuttavia, resta difficoltosa da interpretare e, quindi, da apprezzare nell'interezza la “storia” che il film propone, di cui Besson è anche sceneggiatore, intrisa densamente d'emarginazione e riscatto, e la correlata, suggestiva “poetica” animalista che sollecita.

A nostro giudizio, il lungometraggio resta quasi insondabile nell'apparato dei princìpi sottesi, nella riflessione che implica il racconto in una fin troppo evidente, quasi edulcorata, agăpe, un convito intimo fra “amici” di specie diverse che vivono insieme una crudele sorte.

L'immanente metafora non è agevole da decodificare, perché lascia molto all'intuizione dello spettatore circa il “come” si sia potuta instaurare una relazione affettiva e solidale ed una conseguente efficace comunicazione, sincera e compartecipante, nonché operativa, tra il protagonista ed un gruppo di cani, anch'essi privati della libertà d'azione.

Il principale personaggio in una prima sequenza è interpretato da Lincoln Powell, il Doug in età infantile e preadolescenziale, imprigionato in gabbia con gli animali ed in un corpo martoriato; nel prosieguo del film, recita Caleb Landry Jones, il Douglas "Doug" che matura nel corso di frustranti vicende che lo attanagliano, compreso un amore profondo non corrisposto, peraltro legato ad una donna – la dolce e coinvolgente Salma, interpretata da Grace Palma - conosciuta in un ricovero per giovani senza genitori che contribuisce a motivarlo culturalmente convincendolo a dedicarsi ai testi di teatro e all'attorialità, interpretando diversi ruoli e tornando momentaneamente a godere di sprazzi di gioia.

Del resto, non poteva non accadere, viste le sofferenze iniziatiche di Doug, compresa la fuga della madre dall'insostenibile coartante situazione familiare, che l'innamoramento fosse concepito come disarmante e salvifico, e in seguito, come di prassi, destinato ad essere frustrato.

L'imprinting dell'originaria violenza del padre – Mike, interpretato da Clemens Schick - è purtroppo rinsaldato dalle esperienze dei duplici “abbandoni”, materno e da parte della donna della quale s'innamora.

Ancora bambino, dunque, all'inizio del film, Doug viene privato della libertà ed è gettato in una gabbia con tanti cani maltrattati anch'essi.

Il legame, certo possibile, con le bestie in cattività, alcune addestrate all'aggressività dal padre di Doug, psicolabile e violento, in combutta con il fratello maggiore Richie, interpretato da Alexander Settineri, emaciato cerebralmente, quest'ultimo, da una malintesa religiosità, è tratteggiato, nel racconto bessoniano grazie all'adozione di uno stile hollywoodiano. Infatti, il regista d'origine francese, congegna in modo spettacolare, introducendo alcuni effetti speciali, la possibilità di una complicità tra Doug e la sua nuova famiglia canina come effetto della mera prossimità, del comune e indegno maltrattamento fisico, della reclusione e denutrizione e di una condivisa condizione di completa abiezione e sporcizia.

È alla vicinanza fisica con gli animali, alcuni dei quali addomesticati per il combattimento, appartenenti, quindi, all'ordine dei carnivori, alla famiglia dei canidi, che Besson attribuisce il “miracolo” dell'intesa. É la stessa condizione sopravvivenziale, ci dice il regista, che causa l'alleanza tra il fanciullo ed i cani.

Questo ibrido nucleo familiare in catene ed ospitante nel quale è precipitato Doug, comprende cani di statura media o piuttosto piccola, corporatura diverse. Doug è attorniato da teste allungate e a punta, con rinario spazioso, umido, e orecchio triangolare, eretto e in generale non esageratamente grande; è accarezzato da code di lunghezza media e comunque non toccanti terra, ben rivestite. Sono cani febbrilmente indaffarati nello scampare da pericoli ed insidie, nel salvarsi la pelle, aiutandosi vicendevolmente.

Questi cani abbandonati e resi galeotti, di specie differenti, di colore più o meno fuligginoso, rappresentano una vera comunità impegnata nella prima socializzazione dell'imberbe Doug, liberatoria dall'oppressione paterna.


I cani che circondano il disperato e rabbioso Doug hanno la capacità di attendere e ascoltare, di misurarsi con il dolore e le fatiche, abilità che egli ha momentaneamente perso e che loro, istintivamente, aiutano a far recuperare, alleviando ferite fisiche e morali.

Doug, collaborando con essi, fa arrestare il padre e il fratello ed insieme si affrancano dal giogo, ma non dalla solitudine. Sono stati per tanto, troppo tempo in essa reclusi restando per sempre out, intossicati da una gran quantità di crudeltà metabolizzata.

La postura esistenziale di  Doug si configura come rigetto dell'umana identità, dapprima, grazie alla forzata convivenza con i cani, poi diviene convinta preferenza del mondo canino rispetto a quello civile e, crocifisso su sedia a rotelle, intraprende un cammino dalle tinte oscure, feroci, nonché catartico.

Appare come una riedizione splatter, simile al “peggior” Quentin Tarantino – chi ricorda, del regista statunitense,  Le Iene - Cani da rapina un film del 1992 ? - dell'antico Ginnasio di Cinosarge, il luogo di riunione dei giovani ateniesi figli di madre non cittadina in cui insegnava Antistene, o dallo stile di vita (κυνισμός) ad «imitazione del cane» che i cinici professavano.

É l'iniziazione alla vita di un uomo scisso, schizofrenicamente propenso  alla “giustizia” riparatrice di torti che non lo riguardano necessariamente personalmente – riesce, ad esempio, a sterminare, con l'aiuto dei suoi killer-cani, una intera banda di criminali – con a capo El Verdugo, interpretato da John Charles Aguilar - che taglieggiava una commerciante -, da un versante, e, dall'altro, si dedica con trasporto spirituale al canto in un elegante locale ove si esibiscono travestiti, travestendosi lui stesso assumendo le sembianze d'una sosia, malinconica ed in carne, di Marilyn Monroe in sedia a rotelle.

La violenza, non gratuita, come invece fa capolino in Pulp Fiction (Tarantino, 1994)  volutamente e necessariamente eccessiva, geometrica, a volte farsesca è l'elemento che Besson introduce in modo da rappresentare una convergenza tra le sensibilità in gioco, quella canina e quella umana. Tale amalgamato dissimile “sentire” sembra fondersi in un paradossale dominio razionale sulle passioni, divenendo una sorta di predicazione da attuare nella restante porzione di vita.

Non è però chiaro come questa metamorfosi possa psicologicamente avvenire, come empaticamente si possa generare la simbiosi che il film si sforza di raccontare, tra Doug ed i cani. Più comprensibile è lo stato di dissociazione psichica che lo fa transitare dall'identità di un Dottor Henry Jekyll al suo alter ego, Mister Edward Hyde [[2]], evolvendo fino alla catarsi finale.

Questo vuoto del racconto fa smarrire il senso degli avvenimenti, tumultuosi ed avvincenti come sono nella loro autonoma successione, bensì del tutto privi di valenza etologica ed antropologica.

Più realistico ci appare l'approccio dell'omonimo film “Dogman” (2018), diretto da Matteo Garrone, nel quale il riscatto morale avviene in modo trasparentemente giustificato, senza escludere quegli aspetti duri e cupi, rischiosi e violenti, “veristici” e di espiazione che a priori escludono letture mitologiche, essendo, tra l'altro, ispirato ad un lontano fatto di cronaca nera. In questo caso, il rapporto con i cani è generato dal loro essere accuditi amorevolmente nel negozio di toelettatura. Si ricorderà che il film di Garrone inizia con il ringhio di un pitbull da combattimento e con il terrore contrapposto degli altri cani chiusi dentro le gabbie del negozio, enucleando così quelle dinamiche di sopraffazione e sottomissione che sono la regola di vita del quartiere.


L'assonanza del “Dogman” di Besson, invece, forse sussiste con il film “Joker” (2019) di Arthur Fleck, che narra di un attore comico fallito ed ignorato dalla società, vagante per le strade di Gotham City iniziando una lenta e progressiva discesa negli abissi della follia, sino a divenire una delle peggiori menti criminali della storia.

Le sequenze filmiche del “Dogman” di Besson condannano i cani a manifestazioni omologate quasi circensi, frutto d'addestramento e non d'esplicito, consapevole e confortante accordo empatico con Doug. Il gruppo di cani, inverosimilmente, agisce come una gang, risponde alle richieste del “capo” stratega, ed assumono condotte geometricamente efficaci.

A Besson piace pensare che ciò sia possibile, ma non spiega bene in quale modo possa accedere. Certo non basta riferire dell'afflato emotivo che li stringe a coorte, seppur contagioso.

Seguendo il film ci si sofferma ad ammirarli, ma non si fa in tempo a capire il “perché” i cani in questione non siano ostili all'ingresso in gabbia del fanciullo. Sembra che siano in grado di percepire il dramma e, quindi, lo soccorrono come fosse uno di loro, quando il padre, esasperato dal ringhiare del ragazzo, a dimostrazione della resistenza e preferenza per il mondo canino rispetto alla famiglia, gli spara addosso tranciandogli un dito della mano con una pallottola che rimbalzando perfora il midollo osseo impedendo, da quel momento in poi, la possibilità di deambulare e di stare in piedi.

Questo stato di estrema fragilità potrebbe inesorabilmente toglierli la vita se osasse eccedere nei movimenti o insistere immobile sulle gambe imbragate, da quel drammatico momento in poi, da apposite protesi metalliche.

I cani di Besson hanno sensi acuti, udito particolarmente fino e olfatto insuperabile; tra le loro facoltà intellettuali eccelle la capacità di adattarsi e imparare, facoltà che ha fatto di parecchi di loro i più fidati e indispensabili artefici di rapine ed omicidi eseguiti per devozione e referenza nei riguardi di Doug.

Vivendo ora allo stato libero, grazie a lui e, a seconda della specie, gregarî, oppure agiscono solitarî o a coppie, ormai sono girovaghi, bravi nuotatori, di abitudini notturne, crepuscolari o diurne. Predano animali vivi, uomini che Doug odia, esercitando talvolta il cannibalismo - come nel caso di soppressione dello pseudoassicuratore dei ricchi rapinati, Ackerman,  interpretato das Christopher Denham -, ma preferiscono le carogne; si contentano talvolta di ossa e perfino di escrementi.

In un certo qual modo Besson non tradisce se stesso considerato che ha esordito nel 1982 con Le dernier combat, opera ispirata al ciclo di Mad Max, in cui ha cominciato a mettere in risalto una personale visione della violenza.

Besson è stato spesso autore di un cinema che esalta la fisicità, in molti casi influenzato dai film d'azione hollywoodiani; al tempo stesso è però presente in lui una visione malinconica, quasi pessimista dell'esistenza. Il tema della difficoltà di comunicazione tra gli individui e un atteggiamento disperatamente romantico vengono estremizzati in Subway (1985), Nikita (1990) e soprattutto in Léon (1994), The fifth element (1997) e Jeanne d'Arc (1999) [[3]].

In modo coerente con il suo sentire la vita, va ricordato anche che è stato anche autore dei documentari subacquei Le grand bleu (1988) e Atlantis (1991).


La sua lettura della realtà sociale, non costituisce un impedimento all'aspirazione manageriale che si concretizza nel 2000, quando fonda la Società di produzione e distribuzione EuropaCorp con l'intento di sviluppare una nuova corrente cinematografica per il grande pubblico.

Dopo Anna (2019), Besson riprende quest'anno a narrare le forme dell'amore e dell'odio, le contraddizioni intime che alludono alla pietas convivente con la degradazione umane, le forme di purificazione e d'aspirazione al bello e al buono, la transumanità che sui corpi “diversi” meglio sembra insediarsi e brillare, con un ammirevole ed efficace piglio descrittivo.

La capacità analitica di Besson si coglie, in particolar modo, nella fitta comunicazione tra Evelyn, interpretata da Jojo T. Gibbs, la psichiatra con la quale il protagonista adulto del film, acciuffato dalla polizia, parla e convintamente si concede alla rammemorazione delle prove estreme che la vita gli ha imposto d'affrontare e superare, in una dialogicità importante che si nota anche o soprattutto dagli sguardi che accompagnano silenzi reciprocamente indagatori consentendo di desumere le affinità elettive di entrambi in quanto depositari di laceranti dolori.

Un ragazzo, Doug, “ucciso” dalla vita, trova la sua salvezza e maturità attraverso l'amore dei e per i suoi cani. La psichiatra Evelyn, lesa dalla personalità del marito, allontanatosi perché dedito all'uso di droghe, che la perseguita rivendicando la figlia, riversa tutta la protettiva  tenerezza di madre sulla piccola per non perdersi in un fallimento che resta fuori dall'uscio di casa.

Si percepisce nettamente l'odore del dolore che tra loro si diffonde durante i colloqui, dolori personali eppure condivisi immediatamente. Ciò da sollievo, grazie agli ancoraggi prescelti, gli animali per Doug, la figlia per Evelyn. Il dolore ristruttura la gerarchia dei “valori” in forma tale da trasformare l'approccio cinico e banditesco in generosità robinhoodiana. Fin qui, il compito è svolto egregiamente da Besson.

A nostro avviso, non sussistono, però, le condizioni di identificazione da parte del pubblico, come quando si resta storditi un pò di fronte ad una policroma tela che attira gli occhi, della quale s'intuisce, però, la pura enfasi decorativa dell'artista.

Il patimento del protagonista di “Dogman” si trasforma in esaltazione eroica ed egotica, comprensibilmente, tuttavia, in relazione alla “storia” come essa è narrata, il termine “persecuzione” avrebbe potuto risuonare  in modo molto più acuto.

Con le mortificazioni che Doug subisce per lo stato di menomazione, sarebbe stato più persuasivo, più appropriato, comportando le vicende profonde ferite psicologiche arrecate da terzi, indirizzare le energie del protagonista verso obiettivi davvero salutari e non suicidari.

La mortificazione ha un suo valore implicito nella misura in cui pone di fronte ad un problema da superare. Il successo o meno in relazione a questo sforzo riabilitativo può spingerci verso una vita degna d’esser vissuta o nelle pastoie del disturbo nevrotico.

                                                                                               Giovanni Dursi


Scheda film

“Dogman”, film di Luc Besson con Caleb Landry Jones, Jojo T. Gibbs, Christopher Denham, Grace Palma, Clemens Schick. - Genere: drammatico - 2023

Produzione:

Virginie Besson-Silla, LBP, Europacorp, TF1 Films Production

Durata:

114’

Lingua:

Inglese

Paesi:

Francia, USA

Interpreti e personaggi:

       Caleb Landry Jones: Douglas "Doug"

     Jojo T. Gibbs: Evelyn.

     Christopher Denham: Ackerman.

     Clemens Schick: Mike.

     John Charles Aguilar: El Verdugo.

     Grace Palma: Salma.

     Alexander Settineri: Richie.

Regia e sceneggiatura:

Luc Besson

Fotografia:

Colin Wandersman

Montaggio:

Julien Rey

Scenografia:

Hugues Tissandier

Costumi:

Corinne Bruand

Musica:

Eric Serra

Suono:

Yves Levêque, Guillaume Bouchateau, Aymeric Devoldère, Stéphane Thiébaut, Victor Praud

Effetti visivi:

Mikros Image / MPC

 



[1] La definizione è debitrice del sublime scritto “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” (1963) di Hannah Arendt (1906-1975), filosofa tedesca, allieva di Heidegger e Jaspers, emigrata nel 1933 dalla Germania in Francia a causa delle persecuzioni contro gli ebrei. Trad. it. Feltrinelli Edirote, 1992.

[2]  Rif. al racconto gotico di Robert Louis Stevenson, Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, 1886.

[3] Vanno ricordate, altresì, tra le sue opere: Angel-A (2005); Arthur and the Minimoys (2006); Arthur et la vengeance de Maltazard (2009); From Paris with love (2010); The extraordinary adventures of Adèle Blanc-Sec (2010); Arthur et la guerre des deux mondes (2010); The Lady(2011); Taken 2 (Taken. La vendetta, 2012); The Family (Cose nostre - Malavita, 2013); Lucy (2014); Valerian and the city of a thousand planets(2017); Anna (2019); da ultimo, Dogman (2023).

lunedì 12 dicembre 2022

Recensione di “Nascaredda”, romanzo di Rossano Borzillo (BookSprint Edizioni, 2022), Lanciano 10.12.2022

Alcuni anni or sono, ho avuto l’occasione di leggere una delle prime stesure del libro di Rossano Borzillo che sollecitai a continuare nella scrittura di un’opera definibile, secondo i canoni, romanzo di formazione con rilevanti contenuti biografici e che, tuttavia, s’apre con sorprendente - al contempo - ironia e drammaticità ad un autentico scandaglio di un’epoca (in particolare il periodo di tempo che intercorre tra la fine degli anni ‘60 del Novecento e l’attualità) e di generazioni “insofferenti” e dedite ad organizzare e sognare la trasformazione sociale.

Sono felice che l’originale scritto abbia avuto il suo compimento nella recente pubblicazione. Un libro che va letto e, eventualmente, recensito, promosso in iniziative di pubbliche discussione.

Dopo la marcia editorialmente trionfale di “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” (2019) di Remo Rapino (vincitore della 58^ Edizione del Premio Campiello), e le diverse affermazioni in campo letterario di autori di Lanciano, quali Bruno Montefalcone, Giuseppe Rosato, Emiliano Giancristofaro (per limitarci ad alcuni contemporanei), s’auspica che anche “Nascaredda” (BookSprint EDIZIONI, 2022), esordio narrativo di Rossano Borzillo, possa riscuotere gli apprezzamenti dovuti, di critica e di pubblico.

Questo libro, opera prima di Rossano Borzillo, mette in rilievo una doppia spinta tematica e linguistico stilistica: da una parte la tendenza all’anarchia e alla deformazione, anche ad una evidente e simpatica libertà sintattico-grammaticale, dall’altra un certo richiamo al rigore, prevalentemente cronologico, e al normativismo (estetico e linguistico), nel senso proprio di fulminee frasi che sembrano rendere giustizia di quel “circo lessicale” nel quale poco prima il lettore si trova ed subitaneamente indotto ad apprezzare, risultandone rapito e quasi stordito, incedendo pagina dopo pagina nella lettura.

La leggerezza, la rapidità, l'esattezza, la visibilità e la molteplicità sono cinque dei tratti stilistici distintivi che, leggendo l'opera, sono rintracciabili nei capitoli e, sarà un caso, sono correlati ai valori che Italo Calvino raccomandò nelle “Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio” – originalmente elaborate per un ciclo di conferenze a Harvard – raccolte e pubblicate postume nel 1988. L'opera che ne è uscita forma una poetica, una testimonianza delle teorie letterarie di Italo Calvino.

Non sembri bizzarro accostare Borzillo a Calvino. Chi si sofferma sulle mere vicende narrate, sulle plurime “storie” rievocate in quanto realmente vissute nei decenni trascorsi in quel di Lanciano, Urbino e Copenaghen, chi si limita al “like non like” avventurandosi nella lettura di “Nascaredda”, rischia di non cogliere il senso dell'accostamento. Potrà essere chiarito utilizzando alcune parole dello stesso Calvino: «Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni ? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili» (da Italo Calvino, op.cit., 1988).

A mio parere, certo non può compararsi la vasta produzione scritta di Calvino che spazia dalla narrativa (romanzi, racconti, novelle) alla saggistica e si estende dal 1945 fino alla sua morte nel 1985. È anche nota, altresì, la predilezione di Calvino per il disegno, e quindi per l'immagine visiva, e per il linguaggio tagliente e scorciato che si scorge già agli inizi manifestandosi nel campo della caricatura e in alcune vignette pubblicate sul Bertoldo, anni prima dell'uscita del primo romanzo; qui, possiamo osar ricordare che Borzillo, formatosi come scultore presso l'Accademia di belle arti di Urbino, ha sviluppato nel tempo un suo linguaggio artistico pittorico – di questa esperienza, in parte travagliata, ne abbiamo riscontro nel romanzo – che trasferisce ora nella scrittura.

Le parole di Calvino trovano, in quest'ultima forma espressiva di Borzillo, appunto la scrittura – quantomeno nella sintonia delle intenzioni –, una prova schietta, verace, d'una configurazione creativa distante anni luce dalle odierne forme di “marketing editoriale di influenza” che, a titolo d'esempio, ha visto, alcuni anni or sono, un successo di vendite della produzione letteraria seriale di Federico Moccia, tra l'altro conterraneo d'adozione essendo stato anche Sindaco di Rosello.

Per quanto riguarda la lingua – veicolo principale che trasporta il lettore dentro la peculiare storia di “Nascaredda” al centro della quale ritengo ci sia l'amore di Bruno per Naria - non va molto oltre il fondo di corretta colloquialità affabile, e quel che ne esorbita (forme dialettali o neoforestierismi) rimane sempre a livello di germoglio ed eccezione, quasi ad evocare una timidezza del “dire”.

Anche la prassi neologistica e soprattutto la formazione di alterati valutativi non arriva a un grado di deformazione estremistica tale da poter mettere a rischio la comprensibilità del testo. Anzi, superate le prime trenta pagine, si riesce avidamente e con interesse crescente a scorrere tutte le altre.

Un discorso a parte merita l’uso del borzillese pretto, certo non ultravernacolare, che veicola insieme – e non senza contraddizioni – una mitologia identitaria dell’origine e una mitologia postmoderna della trasparenza e della chiarezza. Trasparenza e chiarezza che nella trama, nelle vicende narrate, l'asse portante del romanzo, rifulge brillantemente. Questo è, a mio giudizio, l’aspetto migliore di “Nascaredda”: un “francescanesimo” attualizzato in una curvatura letteraria, un po' picaresco, certo, ma convincente nella semplicità dell'argomentare, non proponendosi come “sacro modello” o recependone uno in particolare reperibile all'interno del mercato editoriale internazionale contemporaneo.

Siamo in presenza di una osata, meditata rottura di schemi narrativi che non evolve in velleitarie aspirazioni d'innovazione stilistica o in presunti originalissimi contenuti i quali (prevedibilmente) “devono” emozionare, “devono” stupire i lettori, come quando si prendono farmaci appositamente per guarire dal torpore patologico, facilmente rintracciabili in tanta, troppa carta straccia che viene stampata per vendere. Tale rottura in “Nascaredda” si nota nell’intensità descrittiva, nel ritmo incalzante degli episodi raccontati, in quel genuino fuoco d’artificio di termini che Borzillo innesca, io so, dopo anni di meticolosa e sofferta composizione del testo, di revisioni ed integrazioni, di cambi nella prospettiva editoriale e nel “telos”.

Come scrivono Ginevra Amadio e Luca Cirese a proposito delle opere di Luciano Bianciardi, riferendosi al “romanzo “L’integrazione” (1960) insieme a “Il lavoro culturale” a (1957) e La vita agra (1962), che compongono la “trilogia della rabbia”, Bianciardi è sempre asincrono e fuori contesto. Profondamente maremmano, stretto tra un desiderio di fuga e un’endemica incapacità di adattamento, capace di testimoniare al tempo del “miracolo all’italiana” miserie e bagliori di una trasformazione epocale. Indimenticabili ancora oggi alcune pagine che scrive nella sua «storia della diseducazione sentimentale in Italia, al tempo del Miracolo», come Luciano Bianciardi annunciò il capolavoro che ha compiuto sessanta anni”. Ebbene, anche Borzillo s’avventura controcorrente in un “racconto vero, aggressivo, chirurgico”, ben sapendo che nella “società liquidissima” di questa parte del mondo, è permesso di “ignorare” qualsiasi libro, concetto, comportamento difforme o semplicemente per inedia – ed alcuni si ostinano a chiamarla “libertà d’opinione” - “non lesina crudeltà espressiva in un impasto linguistico rabbioso, tra parodia e naturalismo sordido, per smascherare il “ben fatto”, il “decoroso” mediante bruschi contrasti, nello stridio di combinazioni impossibili”.

Anche “Nascaredda”, a me pare, “reca tracce di un’ubriacatura nemica di ogni economia mentale, sia a livello sintattico, dove le parole rompono le relazioni, si disallineano prima di finire la proposizione, sia sul piano semantico. Le combinazioni arrivano così a rallentare il tempo, per indagare un’epoca che si muove e sfugge. Per comprenderla, occorre dunque disintegrare schemi e sudditanza ideologica a categorie già date”.

Sembra, per questa sottostante simile natura dello scritto di Borzillo a quella di Bianciardi, di poter rintracciare analogicamente, in “Nascaredda” una particolare verve autorale, quella di un Charles Bukowski frentano, un esponente, per così dire, di un genere di letteratura dell'immanenza in grado di raccontare efficacemente il “presente” niente affatto edulcorato, imprigionato da una razionalità strumentale, bensì che, al contrario, in questo tipo di narrazione dell'immediatezza, l'autore diventa effettivamente libero di esporsi – senza dubbio passionalmente più che provocatoriamente (considerato che “provocatorio” è stato ritenuto, ad esempio, Achille Lauro, sostenendo che il travestimento faccia del performer un artista musicale, un cantante o, addirittura, un genio della composizione) – anche alle ingiurie dell'eventuale sconfitta, alle invettive, sempre livorose e gratuite, tipiche del perbenismo borghese, ancor più in una cittaduzza di provincia come Lanciano, perbenismo che è vocato alla repressione ed all'autorepressione e che alla fine uccide le persone, stigmatizzandole come avviene solo in queste lande di marginalità rispetto alle metropoli.

Il parallelo, forse ardito, con Bukowski è probabilmente autorizzato esclusivamente sotto il profilo di scrittore nonsense, narratore esordiente nel caso di Borzillo, certo non perché anche in “Nascaredda” avviene la descrizione di prestazioni sessuali, di mitiche ubriacature, di evacuazioni “liberatorie” e di puntate all’ippodromo, ma termina qui. Tuttavia, e non è il Bukowski frentano a sostenerlo, come lo scrittore statunitense, anche in “Nascaredda” « ... è il novantacinque per cento vero e il cinque per cento narrazione. È solo un po’ levigato, intorno ai bordi ...» (cit. Charles Bukowski, “Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle”, Fernanda Pivano, Intervista a Bukowski, Sugarco, 1991).

In realtà, siamo in presenza di un corposo testo di 609 pagine che testimonia un'autentica disposizione alla conoscenza, un libro che mette in discussione, testandone la verità nell'arco di quasi un decennio, l'evanescenza delle comunicazioni interpersonali, soprattutto da quando esse sono mediate da strumenti tecnico-elettronici, le quali non evolvono quasi mai in consapevolezza, in avveduta implicazione sentimentale o socio-politica, come viceversa accade, in modo genuino, ai protagonisti delle storie di cui scrive Borzillo che sono esattamente corrispondenti ai fotogrammi vitali che l'autore nel suo romanzo è brillantemente in grado di rammemorare disegnandone con meticolosa precisione i contorni di personalità, lasciando apprezzare il variegato spessore, nel racconto, mai spettacolarmente enfatizzato, degli Ego e delle relazioni che essi instaurano.

Per questi motivi se, come è stato scritto altrove, “la parola cirrosi sta a Bukowski come un vestito di Prada a Cristiano Ronaldo”, è possibile parafrasare tale affermazione dicendo che se la bellezza non è nei Musei, nelle gallerie d'arte varia o nelle case private, dove poterla trovare ? La mia risposta è: nella dignità osservativa, “pragmatica”, oltreché comportamentale, e, conseguentemente, nella risata e nella tenerezza, come pure in una sorta di matura innocenza, che costituiscono insieme la qualità principale dello scritto, corrispondente alla qualità morale non solo del messaggio implicito nel romanzo, ma dell'uomo che si è fatto scrittore rifuggendo dalle periferie della vita sociale come destino e riuscendo coraggiosamente a rintracciare una possibilità di ribaltamento dell'alienante vivere quotidiano, una concreta destinazione del corso esistenziale, frequentando assiduamente l'utopia, cioè ciò che non è stato ancora realizzato, ma che è immanente, seppur silente, in ciascuno di noi.

Se la narrazione di Borzillo sembra fragile e precaria essa, in verità, non è che un riflesso dell'onestà intellettuale, della delicatezza propria di ogni utile irriverenza, di ogni gesto che osa il cambiamento, è un riverbero della difficoltà ad uscire da violente e ossessive forme d'omologazione, non solo linguistica (si ponderino nuovamente in proposito, le idee di Pier Paolo Pasolini, alcune delle quali – sui processi di “acculturazione” - le espresse il 9 Dicembre 1973, sul Corriere della Sera, titolando il suo intervento “Sfida ai dirigenti della televisione”; questo articolo è pubblicato nel saggio “Scritti corsari” del 1975).

In definitiva, la narrazione di Borzillo è il portato di una ripercussione della complicazione insita nell'arginare e contrastare efficacemente quell'essere circondati – tutti – da un fondale di cartapesta tipico di Hollywood o di Cinecittà, come nel noto film “The Truman Show” (diretto da Peter Weir nel 1998), ove annegare la malinconia, la tristezza e la timidezza, stati emotivi che pur sono avvertiti fin da bambino, declinate nelle modalità frentane (la tristemente nota “lancianesità”, da alcuni malintesa forma antropologica di cui essere orgogliosi …), indotto com'è stato il nostro autore a diventare cittadino di questo vasto mondo troppo in fretta, trascurando giocoforza la principale indole artistica.

Si è, dunque, in presenza di una coriacea attitudine narrativa forgiata nelle difficoltà, nonostante l'autore di “Nascaredda” le abbia abilmente dissimulate con inesauribili scorte di autoironia e di forza interiore – che dovrebbe essere imitata dalle cosiddette nuove generazioni - nel mostrare la vacuità di alcuni stereotipi incarnati. Il tradizionale struscio lancianese è una calzante testimonianza di suddetti stereotipi.

“Nascaredda” non parla di luoghi comuni, i protagonisti della sua giostra verbale, in bilico tra miseria, assurdità e follia, non godono del lusso di una rete di protezione e nemmeno l'autore si traveste da scrittore o da portavoce del popolo. Parla di sé, rielabora le proprie esperienze, le insaporisce, ma senza fingere.

A differenza di altri affermati scrittori, Borzillo non scrive una sceneggiatura per una fiction, esibisce con noncuranza sia difetti che debolezze, in quanto utili a capire di sé, le incoerenze e le crudeltà che albergano in tutti; non cerca di piacere a tutti i costi mostrandosi migliore di quello che è; al contrario, mette al riparo la propria umanità grazie ad un disincanto camuffato da cinismo. Non ci tiene ad atteggiarsi ad artista, nonostante lo sia.

Concludendo si può dire che la “verità” è un elemento che caratterizza il romanzo, “verità” peraltro ricercata come espressione letteraria dell'autenticità che dovrebbe contaminare la vita quotidiana, in tutte le sue forme, un valore che Borzillo, a mio avviso, intende umilmente trasmettere al prossimo.

Tale “verità” si rivela in varie forme e si manifesta nella sua scrittura e nei mezzi linguistici che lo scrittore predilige indagando lo spazio-tempo del suo mondo interiore. Auspico che qualche regista cinematografico ne curi la trasposizione filmica, ma senza accentuare il registro interpretativo surrealista o immaginifico; preferirei se ne occupasse un redivivo Francesco Rosi piuttosto che un epigono di Federico Fellini.

Per dirla con Orazio (poeta romano, 8 Dicembre 65 a. C., 27 Novembre 8 a. C.) - Strēnŭă nōs ēxērcĕt ĭnērtĭă (Epistulae I 11, Hor. Epist. I 11; ci tormenta una faticosa inattività -, Borzillo si è emancipato con questa opera prima da una rischiosa patologia dell’animo che Orazio, con felice ossimoro, ha definito appunto strēnŭă ĭnērtĭă, quella invadente “noia smaniosa”, espressione di scientifica nettezza che addita il sintomo eminente di un male noto: la smania che ci spinge a vagare qua e là alla ricerca di non sappiamo bene cosa, nel tentativo di trovare soddisfazione a desideri di cui non sappiamo la mira.

Non c'è altro da affermare, restando nell'entusiastica attesa di successivi componimenti. 

Prof. G. Dursi